Di BRUNO MONTESANO

‘Non è razzismo, è esasperazione sociale’. Questa la frequente lettura degli episodi razzisti che avvengono in Italia come in altri paesi a capitalismo avanzato. Anche a sinistra – da Brexit a Capitol Hill, fino a Civitanova Marche -, si dice che la gente esasperata, che non ce la fa più, purtroppo a volte reagisce un po’ male e sbaglia bersaglio: invece che prendersela con i padroni se la prende con le minoranze. Il correlato è che se si facessero politiche più socialdemocratiche, il razzismo perderebbe la sua base sociale. I subalterni indirizzerebbero la loro rabbia sociale verso i veri nemici e la comunità tornerebbe a esser virtuosa. Ridurre il rancore sociale legato a precarietà e assenza di prospettive può aiutare. Ma c’è il rischio di illudersi: il problema è il tipo di comunità che si vuole difendere.

Il razzismo non è solo la sovrastruttura della dominazione economica. Ha una sua autonomia che affonda le radici più in profondità, tanto dei soggetti quanto delle istituzioni. La rabbia sociale si manifesta contro soggetti ancora più deboli non solo perché la mobilità sociale è bloccata ma perché si è imparato a definirsi come soggetti dotati di dignità umana contro altri che ne sono privi. È l’instabilità determinata dalla mobilità sociale stessa che porta a pensare al razzismo come ad un dispositivo di costruzione della propria identità. La prestazione psicologica di questa operazione non riguarda solo il benessere relativo ma l’intera architettura sociale che abitiamo, il ‘capitalismo razziale’. Non un sistema in cui si realizza un’eterna e programmatica valorizzazione della razza a fini economici ma l’esito del mutevole intreccio tra mercati, stati nazione e soggettività definite da questi due moderni aggregati di potere. Il razzismo non è semplicemente uno strumento di dominio ma piuttosto l’esito di una co-costruzione culturale e sociale realizzata tanto con spinte dal basso, quanto dall’alto.

Come scrive Étienne Balibar, il razzismo dipende da un desiderio di sapere, di immaginare la propria identità naturalizzando e gerarchizzando le differenze. Serve a segnare irrimediabilmente tanto un’appartenenza quanto un’esclusione, così da garantire uno stabile differenziale di potere e riconoscimento. La comunità razzista è anche una comunità sessista: il meccanismo di fissazione e inferiorizzazione della differenza è lo stesso: la natura serve a eternare gli effetti di specifici rapporti sociali. Inoltre, sessismo e razzismo si forniscono reciprocamente argomenti discriminatori. Per Colette Guillaumin, “le formazioni di sesso e di razza sono formazioni immaginarie, giuridicamente ratificate e materialmente efficaci”. Questi dispositivi sono radicati nel modo in cui si è costituita la comunità politica nella modernità. Si è affermata un’eguaglianza formalmente universale ma di fatto selettiva, che solo grazie al conflitto sociale e alla capacità di pensare nuove istituzioni si è avvicinata e potrà avvicinarsi all’universalismo.

Contro un’idea dinamica di politica e di ridefinizione espansiva della comunità politica, nel dibattito pubblico, spesso si afferma un malinteso senso della ‘protezione’. Una protezione tanto dei confini, quanto di qualche settore subalterno ammansito con mance e salari psicologici derivanti dal relativo vantaggio rispetto a chi sta peggio ed è marcato dal segno della ‘razza’. Così, come rispetto allo ius scholae, riemerge un’idea razziale della comunità nazionale in cui contano solo i veri cittadini, rafforzando il nesso tra classe operaia e bianchezza – identità vissuta come una proprietà che legittima aspettative materiali e simboliche. La bianchezza è stata anche un vettore di razionalizzazione della propria condizione di vita a fronte delle trasformazioni del modo di produzione. La ‘razza’ diviene il modo con cui si vive e qualifica la classe.

In relazione alla sicurezza, il ‘razzismo spontaneo’ chiede alle istituzioni di mantenere una promessa implicita: che lo stato preferisca i connazionali rispetto agli stranieri. Bisognerebbe quindi smetterla di sminuire il razzismo a partire dalla condizione sociale di chi lo compie. L’idea di classe sottesa non è neutrale, perché spesso si difendono risorse comunque maggiori di quelle ai quali le si negano che però hanno la doppia colpa di essere ‘razzialmente’ diversi. Bisogna spezzare l’idea paternalista per cui se si è marginali e razzializzati come bianchi allora si ha un bonus nell’esercizio della violenza razziale. Anche da un punto di vista di classe potrebbe essere un vantaggio.

Questo articolo è stato pubblicato per Gli Asini il 7 agosto 2022.

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