di INSTITUTO DE INVESTIGACIÓN Y EXPERIMENTACIÓN POLÍTICA (IIEP)*.

 

I. Opacità strategica

Un’“opacità strategica” – così la chiama Raquel Gutiérrez Aguilar[1] – perturba la comprensione collettiva dell’attuale conflittualità sociale. Sono pochi i protagonisti del sistema politico che vi prestano attenzione, con eccezione, degna di nota, della chiesa. Tuttavia, negli ultimi anni i sintomi si moltiplicano: dalle ricorrenti crisi prodotte dalle occupazioni di terra – inoccultabili a seguito dell’occupazione del Parque Indoamericano e dell’intervento poliziesco, repressivo e razzista che ne ha posto fine[2] – agli ammutinamenti della polizia del dicembre 2013, passando per la crescita di una violenza legata all’universo del narcotraffico che costituisce una sfida, nella forma di uno scontro non dissimulato, allo sviluppo delle organizzazioni sociali nei quartieri periferici.

Questa nuova conflittualità che si esprime, specialmente nelle periferie, con insolita violenza è fortemente relazionata con quella “seconda realtà” che Rita Segato ha descritto come la dimensione che, attraverso le istituzioni statali e no, organizza e amministra l’illegalità in un “fuori” incontrollabile[3]. Un’oscurità che, negli ultimi anni, ha reso più densi i territori e che, sottostimata da chi confidava in un “ritorno dello stato” riparatore, finisce per permeare anche lo spazio della rappresentanza politica, penetrando le stesse istituzioni dalle quali si attende una risposta.

In questo modo, l’opacità appare come la principale caratteristica dei conflitti che attraversano la congiuntura nazionale. La disputa permanente per definire il valore della moneta in relazione al dollaro, le scaramucce con i “fondi avvoltoi” per la ristrutturazione del debito sovrano argentino e le controversie all’interno degli apparati d’intelligenza statali che si ripercuotono nel cuore stesso del potere giudiziario pongono in evidenza l’attuazione di poteri velati la cui capacità di intervento risulta decisiva.

Lungi dal legittimare le retoriche di condanna della corruzione tipiche delle “destre” raggruppate nella cosiddetta “opposizione politica” e dei grandi mezzi di comunicazione, quanto stiamo affermando ci porta ad assumere la trasformazione della natura della mediazione tra società e stato. Oggi questa relazione acquisisce, dall’alto e dal basso, una forma essenzialmente finanziaria. L’intermediazione delle finanze determina la costituzione stessa del sociale e del politico e pregiudica la dinamica materiale della vita collettiva contemporanea.

In sintesi, chiamiamo “opacità strategica” l’azione che i poteri consolidati nel corso degli ultimi anni esercitano sulla trama sociale generando incomprensione collettiva, per lo meno in quattro piani convergenti:

– la crescente intermediazione finanziaria della società invisibilizza i nessi tra la creazione e l’appropriazione della ricchezza sociale;

– il dualismo delle istituzioni private e statali che s’incaricano della regolamentazione sociale (dalle banche e gli istituti finanziari alla polizia e il potere giudiziario), in una prima realtà, legale ed eventualmente legittima, e una seconda legata alla sovranità di fatto – imposta dai poteri che esercitano il comando sui processi di creazione, circolazione e appropriazione privata della ricchezza collettiva – costituisce lo stato d’eccezione che regge il comportamento delle democrazie contemporanee;

– la ultra-mediatizzazione semplifica la complessità del tessuto sociale in stereotipi (“pibe chorro”, “migrante”, “narco”) di facile consumo;

– la distribuzione diseguale del valore della vita e dei beni attiva una guerra per la sicurezza e permette di varcare le soglie della violenza organizzata nei territori.

II. Un’agenda negativa?

Il problema di questa diagnosi sul nuovo conflitto sociale consiste, crediamo, nel fatto che si presenta in un modo completamente negativo. È necessario immaginare come attivare la potenza collettiva per invertire o riorientare uno stato di cose in cui primeggia la denuncia e il tono allarmista.

Non a caso abbiamo fatto menzione della chiesa.  Potenziata dal ruolo del nuovo Papa, essa tende a diffondere una descrizione della situazione che per molti aspetti risulta prossima, per esempio quando prende in considerazione le preoccupazioni delle organizzazioni sociali e insiste sull’impotenza o la complicità dello stato con elementi di violenza criminale, o quando afferma la necessità di una presenza e di una contenzione nei territori in cui lo stato non arriva o arriva con il suo volto mafioso o indifferente. Nella misura in cui la chiesa accompagna e offre protezione (una specie di “paracqua” strategico), la sua presenza riveste un valore immediato tanto nel conflitto territoriale quanto nei meccanismi generali dell’assetto macropolitico.

Tuttavia, la diagnosi presentata dalla chiesa non si spinge alla critica della mediazione finanziaria del sociale, che, se portata a fondo, metterebbe in discussione la struttura concentrata della proprietà. Privilegiando la dimensione morale nella sua critica del presente, la chiesa tende a sottostimare il valore politico che possono acquisire i soggetti protagonisti del conflitto sociale (contadini poveri, migranti, famiglie senza terra e casa, lavoratori precari) e la loro capacità di apportare gli elementi di una costituzione sociale e politica autonoma. Quando si restringe la complessità di questi soggetti alla loro condizione di vittime, presentando i poveri come figure asettiche prive del potere di trasformazione sociale, si sopprime l’altra faccia di una ricca potenza collettiva in grado di proporre alternative di vita o di introdurre pratiche di resistenza. In questo modo si finisce per rincanalare il protagonismo plebeo e anestetizzare l’intensità della loro politicizzazione autonoma.

La complessità della figura di Francesco ha a che vedere con la sua interpretazione di questi anni d’insubordinazione plebea e con gli aspetti frustrati del tentativo di una governamentalità fondata sulla partecipazione delle organizzazioni sociali. Se il suo progetto prende in considerazione il protagonismo delle organizzazioni sociali a lungo minimizzato dal kirchnerismo, al tempo stesso tende però a complementare, per mezzo di una consolazione morale e includente, il fenomeno della mediazione finanziaria della vita (i molteplici modi del consumo) che domina nei territori, per proporre una nuova cristianità in opposizione al neoliberalismo. Proietta così, nello scenario globale (per lo meno in Occidente), una governamentalità più equilibrata, che si fonda su una precisa interpretazione dell’esperimento portato avanti in Argentina – e nella regione latinoamericana – nel post-2001.

L’ambiguità di questo progetto consiste nella rivendicazione della centralità di un sociale che è, però, al tempo stesso, rimodellato in termini conservatori (al centro di questa questione c’è l’interpretazione delle lotte per i diritti umani e del corpo delle donne e dei giovani) e articolato a livello macropolitico per neutralizzare così i dinamismi popolari distruttivi.

In che altro modo possiamo immaginare il significato del nuovo conflitto sociale, cercando di superare i limiti moralisti e vittimistici di questa posizione, a partire da una democratizzazione radicale dei dispositivi sociali, oggi sottoposti a un complesso meccanismo di funzionamento basata su una logica finanziaria?

III. Il problema dell’autonomia

La critica pratica, a differenza della critica “canaglia” che pretende solo di distruggere per imporsi, muove da dilemmi concreti ed evita di lavorare tra le nuvole, come se si trattasse di fare dottrina. A interessare è un’altra cosa: dare avvio a un realismo della potenza per mostrare la realtà come trama di problemi (non si tratta di un realismo che semplifica o si rassegna) e assumere le esigenze pratiche che derivano da questa formulazione (non si tratta semplicemente di una diagnosi).

Questo chiarimento non è privo d’importanza, dato che un certo modo di riferirsi alla prospettiva autonoma ha cercato di fissarla in un infantilismo, associandola al momento della crisi del 2001. Al di là della pretesa maturità di determinati discorsi diretti a rilegittimare le regole della rappresentanza politica, è evidente che una gran quantità di dinamiche con caratteristiche autonome persistono e si reinventano, come modalità di affermare esperienze che meritano di essere pensate in termini diversi da come le rappresentano i ragionamenti che si adeguano all’ordine. L’evidenza di queste pratiche costituisce il nostro punto di partenza alla ricerca di un nuovo orizzonte di emancipazione politica che ci permetta di attraversare il programma necessariamente limitato – seppur necessario – del riformismo statale in un contesto di globalizzazione neoliberale.

Il saldo dell’esperienza del kirchnerismo al governo è ambivalente. Viste nel corso del tempo, molte delle retoriche e delle iniziative messe in gioco dal kirchnerismo non avevano il correlato organizzativo e territoriale necessario ad aprire vie materiali di trasformazione democratica. Tale limitazione, che restringe il portato progressista della sua retorica, trova conferma nel fatto che l’inclusione sociale si effettua per mezzo del consumo mentre, simultaneamente, si espandono i meccanismi delle finanze e le forme di sfruttamento. Allo stesso modo, gli avanzamenti e i riconoscimenti nell’ambito della memoria e degli organismi di diritti umani convivono con il consenso intorno alle politiche securitarie di articolazione del sociale, che tingono di contenuti classisti e razzisti le campagne dei candidati con maggiore chance nel terreno elettorale (includendo quelli che fanno riferimento all’attuale governo).

Nonostante tutto, il governo persiste con la volontà di dar battaglia e marcare la differenza: tanto a livello nazionale, con esperienze come la nuova gestione del Banco Central e la linea di ricerca su dittatura, diritti umani e finanze sviluppata dalla CNV (Comisión Nacional de Valores) e dalla PROCELAC (Procuraduría de Criminalidad Económica y Lavado de Activos) o il tentativo di riformare i servizi d’intelligenza; quanto nella conquista di autonomia politica a livello internazionale. Il sapore è, però, amaro all’intravvedere i termini di una successione “a destra”, intorno alla figura di Daniel Scioli[4], alle burocrazie territoriali del Partido Justicialista e a una trama oscura di governabilità che si appoggia, in ultima istanza, sulle forze di difesa e di sicurezza.

Per quanto riguarda le formazioni dell’opposizione, in gran parte non rappresentano altro che le élite tradizionali. Il loro impulso trasformatore consiste nell’amministrare “repubblicanamente” gli interessi duri e puri del capitale. Come sintomo è più interessante la crescita dei partiti di sinistra, anche se difficilmente metteranno da parte l’abitudine a privilegiare le loro anchilosate strutture e dottrine, riducendo così le potenzialità della lotta sociale. In questi anni si è sviluppata un’amplia gamma di esperienze, per comodità possiamo raggrupparle con il termine di “sinistra indipendente” (alcune delle quali più vicine e altre che si fronteggiano al kirchnerismo), che esprimono una sensibilità verso nuovi attori nell’ambito dei territori, delle idee e della produzione. Queste esperienze, alcune delle quali si autopercepiscono come collettivi militanti e altre come reti ampie di pratiche sociali, possiedono il doppio valore di rinnovare la lotta democratica e di suggerire bilanci più radicali sulle sfide politiche pendenti.

È, però, al calore della conflittualità sociale del presente che dobbiamo elaborare le nuove sintesi concettuali e organizzative, in un tentativo di intessere l’asse orizzontale delle lotte con l’asse verticale delle tattiche politiche. Per questo è fondamentale recuperare la costruzione di una soggettività politica autonoma. Al parlare di autonomia ci riferiamo, oggi, per lo meno a due questioni essenziali: generare le condizioni di una rottura sociale con le strutture di affari che stanno al centro dell’accumulazione capitalistica; elaborare una critica pratica della governamentalità contemporanea e della sua capacità di bloccare le possibilità di una democratizzazione “contante e sonante”.

IV. Una storia recente

Terminata l’ultima dittatura, la politica popolare ha recuperato vitalità grazie a un tessuto di lotte che hanno avuto la capacità di creare nuovi valori, modi organizzativi e forme di protesta. In questo senso, sono state esemplari le organizzazioni di diritti umani e le lotte dei lavoratori poveri che sono culminate nella formazione del movimento piquetero. Tali lotte e tali movimenti sono diventati i vettori di contestazione delle politiche neoliberali, in un momento in cui non vi era ormai alcuna fiducia nel sistema bancario e nei partiti politici.

Dopo la crisi, è tornata la politica nelle sue forme più abituali, anche se con contenuti statalisti e redistributivi. Tale normalizzazione ha richiesto un’importante novità e un’eminente contraddizione: da un lato, una certa porosità delle istituzioni riguardo alle lotte sviluppate durante il periodo precedente; dall’altro, il rafforzamento di un modo di accumulazione con il proprio asse nel mercato mondiale e nelle finanze (neosviluppismo/neoestrattivismo). Nello stesso periodo abbiamo assistito a un’ambivalente mutazione del sociale, motivata dalle politiche di ampliamento del consumo di massa. Diciamo “ambivalenza” perché si è posta in atto una via d’inclusione che consolida gerarchie e diffonde, come mai prima d’ora, la mediazione del sociale da parte delle finanze.

Il ciclo dei governi progressisti dell’America del Sud sta attraversando un dilemma di stagnazione: o i governi radicalizzano la loro dinamica neoestrattiva generando un’intensificazione delle condizioni di violenza strutturale per mantenere i livelli del consumo vigente o impongono limiti a queste forme distributive e finanziarie, che sono il pilastro della loro legittimità politica. Dal canto suo, lo spiazzamento dell’egemonia del mercato mondiale verso la Cina può dar luogo a una ricolonizzazione feroce delle economie periferiche o può aprire lo spazio per un gioco pragmatico di nuovo tipo, che metta in discussione la architettura finanziaria globale che disciplina e attanaglia i processi sociali.

Rifiutare l’obbedienza alle finanze globali è la condizione fondamentale, tanto nel piano locale come in quello regionale e globale, per una dinamica di democratizzazione popolare che ecceda la matrice neosviluppista e la retorica nazionalista. Si tratta di una discussione che va al di là dell’America del Sud e che, nell’ultimo periodo, sta  acquisendo intensità anche nell’Europa del Sud.

V. Sull’inchiesta militante come organizzatrice politica

L’inchiesta politica collettiva può essere rilanciata se è in grado di fondersi con il dinamismo di nuovi soggetti sociali. È necessario, dunque, spogliarsi di dogmi e settarismi, evitando l’autocompiacimento che schiva le funzioni pratiche proposte dal nuovo conflitto sociale. Una nuova immaginazione politica è inseparabile dall’elaborazione di strategie all’interno del conflitto e, pertanto, dal problema dell’organizzazione e della creazione di dispositivi efficaci per la lotta, la mediazione e l’autodifesa.

Il problema di una nuova immagine dell’organizzazione politica si pone a partire dalla maturazione delle lotte locali, delle inchieste trasversali, delle esperienze con istituzioni e della costituzione di reti complesse che operano su diverse scale. Porre il problema dell’organizzazione comporta assumere senza indugi il carattere molteplice, vivo e critico del protagonismo che si pone in gioco nella nuova conflittualità sociale. Organizzazione e cartografia del conflitto si danno insieme, come capacità di attuare in piani eterogenei, senza aspirare all’ideale impossibile di una sintesi ultima nel potere dello stato.

*Versione spagnola: iiep.com.ar. Traduzione di Maura Brighenti


[1] Durante una serie di soggiorni a Buenos Aires e in dialogo con l’Instituto de Investigación y Experimentación Política, l’attivista e ricercatrice messicana Raquel Gutiérrez Aguilar ha posto fortemente l’enfasi sul problema dell’opacità come una combinazione di fenomeni di percezione e terrore.

[2] Rimandiamo al libro del Taller Hacer Ciudad: Vecinocracia. (Re)tomando la ciudad, Bs.As., Tinta Limón, 2011 (disponibile on-line: http://tintalimon.com.ar/libro/VECINOCRACIA).

[3] Si veda R.L. Segato, La escritura en el cuerpo de las mujeres asesinadas en Ciudad Juárez, Bs. As., Tinta Limón, 2014.

[4] Attuale Governatore della Provincia di Buenos Aires e candidato alla Presidenza della Nazione nelle elezioni 2015.

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