di TIZIANA TERRANOVA [English]

Premessa

Questo saggio è il risultato di un processo di ricerca che ha coinvolto una serie di istituzioni di autoformazione di ispirazione post-autonoma (ovvero università “libere” impegnate nell’organizzazione dal basso di seminari pubblici, conferenze, workshop, etc.) e reti sociali (studiosi e ricercatori che lavorano sulla teoria e la pratica dei media digitali, formalmente affiliati a università, riviste e centri di ricerca, ma anche artisti, attivisti, lavoratori cognitivi precari e simili). In particolare si riferisce ad un workshop tenutosi nel gennaio 2014 a Londra nel Centre for Cultural Studies (Goldsmiths’ College, University of London), con il sostegno della Digital Culture Unit, che ha espresso un processo di riflessione cominciato a inizio 2013 con il collettivo di università libera Uninomade 2.0, per poi continuare attraverso mailing list e siti come Euronomade, Effimera, Commonware, I quaderni si San Precario e via dicendo. Questo articolo vuole quindi essere qualcosa di più di un saggio tradizionale. Vuole essere un documento, sintetico ma possibilmente innovativo, che fa riferimento a un “sapere sociale” diffuso sul digitale, articolando una serie di problemi, tesi e relazioni al confine tra teoria politica e ricerca su scienza, tecnologia e capitalismo.

Il fulcro della questione sta nel rapporto tra “algoritmi” e “capitale”, ovvero la crescente centralità, annunciata nel documento di convocazione del workshop, degli algoritmi “nelle pratiche organizzative che si sono diffuse, grazie all’importanza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, sia nella produzione che nella circolazione, dalla logistica industriale alla speculazione finanziaria, dalla pianificazione urbanistica e il design urbano alla comunicazione sociale. Per di più, queste strutture matematiche apparentemente esoteriche, sono divenute parte della contemporanea cultura digitale e di rete.

La maggior parte degli utenti di internet sono così abituati a interfacciarsi quotidianamente con, o a essere assoggettati da, il potere di algoritmi come Google’s Pagerank (che seleziona i risultati delle nostre ricerche online) o Facebook Edgerank (che decide automaticamente in che ordine riceviamo le notizie sul nostro feed), per non parlare dei numerosi altri algoritmi meno noti (Appinions, Klout, Hummingbird, Pkc, Perlin Noise, Cinematch, Kdp Select e molti altri) che modulano il nostro rapporto con i dati e con i dispositivi digitali. Tuttavia, questa diffusa presenza di algoritmi nella vita quotidiana della cultura digitale è solo una tra le varie espressioni della pervasività delle tecniche computazionali, dal momento che queste diventano sempre più coestese ai processi di produzione, distribuzione e consumo propri di logistica, finanza, architettura, medicina, pianificazione urbanistica, infografica, pubblicità, dating, videogiochi, editoria e ogni tipo di espressione creativa (musica, grafica, danza, ecc.).

La messinscena dell’incontro tra “algoritmi” e “capitale” come problema politico rimanda alla possibilità di rompere l’incantesimo del “realismo capitalista” – l’idea secondo cui il capitalismo è l’unico sistema economico possibile – e di affermare che nuovi modi di organizzare la produzione e la distribuzione della ricchezza devono essere in grado di incorporare i nuovi sviluppi scientifici e tecnologici. Il concetto di comune – che va oltre l’opposizione tra stato e mercato, pubblico e privato – è usato qui per stimolare il pensiero e la pratica di una possibile modalità di esistenza post-capitalista per i media digitali in rete.

Algoritmi, capitale e automazione

Osservare gli algoritmi in una prospettiva politica mirante alla costituzione del “comune” significa affrontare le modalità con cui gli algoritmi sono profondamente coinvolti nella mutevole natura dell’automazione. Marx descrive l’automazione come un processo di assorbimento nella macchina delle “forze produttive generali del cervello sociale”, per esempio il “sapere e le competenze” (694), che appaiono così come un attributo del capitale piuttosto che come il prodotto del lavoro sociale. Osservando la storia del rapporto tra capitale e tecnologia, risulta chiaro che l’automazione si è evoluta, distanziandosi dal modello termo-meccanico della catena di montaggio industriale degli inizi e muovendo verso le reti elettro-computazionali diffuse del capitalismo contemporaneo. È così possibile vedere gli algoritmi come facenti parte di una linea genealogica che, come Marx ha detto nel “Frammento sulle macchine”, comincia con l’adozione da parte del capitalismo della tecnologia come capitale fisso. Essa spinge poi la tecnologia attraverso svariate metamorfosi “di cui l’ultima è la macchina, o piuttosto, un sistema automatico di machine … messo in moto da un autonoma (autonomon), forza motrice che muove se stessa”  (Marx, Frammento sulle macchine, Grundrisse, Einaudi, 1976, Libro I, p.706).

L’automazione industriale era chiaramente termodinamica e diede inizio a un sistema “fatto di numerosi organi meccanici e intellettuali, di modo che gli stessi lavoratori diventano meri collegamenti dotati di coscienza”. L’automazione digitale è invece elettro-computazionale, coinvolge soprattutto il sistema nervoso e il cervello e implica “possibilità di virtualità, simulazione, astrazione, feedback e processi autonomi” (Fuller 2008: 4). L’automazione digitale si esplica in reti fatte di connessioni elettroniche e nervose, di modo che gli utilizzatori stessi diventano collegamenti quasi-automatici all’interno di un continuo flusso di informazione. È in questo montaggio più ampio che gli algoritmi devono essere collocati quando si parla di nuove modalità di automazione.

Citando un testo di informatica, Andrew Goffey descrive gli algoritmi come “il concetto unificante per tutte le attività in cui sono coinvolti gli scienziati informatici (…) e l’entità fondamentale con cui gli scienziati informatici operano” (Goffey 2008: 15). Possiamo definire provvisoriamente un algoritmo come la “descrizione del metodo tramite cui un compito è svolto…” attraverso sequenze di step o istruzioni, insiemi di step ordinati che operano su dati e strutture computazionali. Un algoritmo in quanto tale è un’astrazione “dotata di esistenza autonoma, indipendente da ciò che gli scienziati informatici amano chiamare ‘dettagli di implementazione’, ovvero la sua incarnazione in un particolare linguaggio di programmazione per una particolare machine architecture” (Goffey 2008: 15). La sua complessità può variare dal più semplice insieme di regole descritte in linguaggi naturali (come quelle usate per generare pattern di movimenti coordinati nelle smart mob) alle più complesse formule matematiche contenenti variabili di ogni tipo (come nel celebre algoritmo di Monte Carlo, usato per risolvere problemi di fisica nucleare, poi applicato ai mercati azionari e oggi usato nello studio dei processi di diffusione tecnologica non lineare). Al contempo, per poter funzionare, gli algoritmi devono esistere come parte di montaggi che includono anche hardware, dati e strutture di dati (come liste, database, memoria, ecc.). In altri termini, affinché l’algoritmo diventi software, “esso deve acquisire il suo potere come artefatto e processo sociale o culturale attraverso un sempre migliore adattamento ai comportamenti e ai corpi che sussistono al suo esterno” (Fuller 2008: 5).

Inoltre, ora che gli algoritmi sono sempre più esposti a dataset sempre più grandi (e in genere a una crescente entropia del flusso di dati, altrimenti nota come Big Data), essi, secondo Luciana Parisi, stanno diventando qualcosa di più che semplici insiemi di istruzioni da seguire: “Quantità infinite di informazione interferiscono con e riprogrammano le procedure algoritmiche (…)  e i dati producono regole aliene” (Parisi 2013: X). Da questa breve analisi, risulta chiaro che gli algoritmi non sono né un insieme omogeneo di tecniche né una garanzia per “l‘infallibile esecuzione di un ordine e un controllo automatizzato” (Parisi 2013: IX).

Dal punto di vista del capitalismo, tuttavia, gli algoritmi sono soprattutto una forma di “capitale fisso”, cioè sono semplicemente mezzi di produzione. Essi codificano una certa quantità di sapere sociale (astratta da quella elaborata da matematici, programmatori ma anche utenti) ma non hanno di per sé valore. Nell’economia contemporanea, gli algoritmi hanno valore solo in quanto servono alla conversione di tale sapere in valore di scambio (monetizzazione) e alla sua (esponenzialmente crescente) accumulazione (i titanici quasi-monopoli dell’internet sociale). Nella misura in cui costituiscono capitale fisso, algoritmi come Google’s PageRank e Facebook’s EdgeRank appaiono  “come un presupposto rispetto al quale la forza  della singola capacità lavorativa scompare come qualcosa di infinitamente piccolo” (Marx, Frammento sulle macchine, Grundrisse, Einaudi, 1976, Libro I, p. 708), per questo le richieste di retribuzioni individuali per il “lavoro gratuito” degli utenti sono mal concepite. È chiaro che, secondo Marx, non deve essere retribuito il lavoro individuale dell’utente ma i molto più grandi poteri della cooperazione sociale che vengono così sprigionati. Inoltre, questa retribuzione implica una profonda trasformazione della presa che la relazione sociale che chiamiamo economia capitalista ha sulla società.

Dal punto di vista del capitale, quindi, gli algoritmi sono solo capitale fisso, cioè mezzi di produzione aventi lo scopo di ottenere un guadagno economico. Tuttavia questo non significa che, come tutte le tecnologie e le tecniche, essi siano soltanto questo. Marx dichiara esplicitamente che, anche se il capitale si appropria della tecnologia in quanto forma più efficace per la sussunzione del lavoro, questo non significa che non ci siano altre considerazioni da fare su di essa. La sua esistenza come macchina, insiste Marx, “sia identica al loro sussistere come capitale … e quindi non consegue affatto che la sussunzione sotto il rapporto sociale del capital sia il rapporto sociale più adeguato e ultimo per l’impiego del macchinario” (Marx, Frammento sulle macchine, Grundrisse, Einaudi, 1976, Libro I, p. 710-11).

È essenziale ricordare che gli algoritmi hanno per il capitale un valore strumentale che non esaurisce il “valore” della tecnologia in generale e degli algoritmi in particolare, ovvero la loro capacità di esprimere non solo il “valore d’uso” (per dirla con Marx) ma anche valori estetici, esistenziali, sociali ed etici. Non è forse la necessità del capitale di ridurre il ciclo di vita del software a valore di scambio, marginalizzando così i valori estetici ed etici della creazione di software, ciò che ha spinto Richard Stallman a innumerevoli hacker e ingegneri ad avvicinarsi al Free and Open Source Model? Non è forse l’entusiasmo che anima gli hack-meeting e gli hacker-space, alimentato dall’energia liberata dalle costrizioni del “lavoro” in azienda, allo scopo di rimanere fedeli alla propria etica ed estetica di programmazione?

Contro alcune varianti del Marxismo che tendono a identificare completamente la tecnologia con il “lavoro morto”, il “capitale fisso” o la “razionalità strumentale” e, quindi, con il controllo e i dispositivi di cattura, sembra importante ricordare che, per Marx, l’evoluzione dei macchinari indica anche un livello di sviluppo dei poteri produttivi che sono sprigionati ma mai totalmente contenuti dall’economia capitalista. Ciò che a Marx interessava (e ciò che rende il suo lavoro tuttora rilevante per coloro che lottano per una modalità di esistenza post-capitalista) è come la tendenza del capitale a investire nello sviluppo tecnologico per automatizzare, e quindi per ridurre i costi del lavoro al minimo, potenzialmente liberi un “surplus” di tempo ed energia (lavoro), ovvero un’eccedenza della capacità di produrre in relazione al lavoro fondamentale, importante e necessario di riproduzione (un’economia globale, per esempio, dovrebbe prima di tutto produrre abbastanza ricchezza affinché tutti i membri della popolazione planetaria possano essere adeguatamente nutriti, vestiti, curati e alloggiati). Tuttavia, ciò che caratterizza un’economia capitalista è che questo surplus di tempo ed energia non viene semplicemente liberato, deve infatti essere costantemente riassorbito nel ciclo di produzione di valori di scambio in modo da garantire una crescente accumulazione di valore nelle mani di pochi (il capitalista collettivo) a spese di molti (le moltitudini).

L’automazione, quindi, dal punto di vista del capitale, deve sempre essere controbilanciata da nuovi modi per controllare, ovvero assorbire ed esaurire, il tempo e l’energia così liberati. È necessario produrre povertà e stress dove dovrebbero esserci ricchezza e tempo libero. È necessario rendere il lavoro diretto la misura del valore anche quando è evidente che la scienza, la tecnologia e la cooperazione sociale costituiscono la fonte della ricchezza prodotta. Così si verificano inevitabilmente periodiche ed estese distruzioni della ricchezza, accumulata nella forma di burnout psichico, distruzione materiale della ricchezza creata attraverso la guerra o catastrofe ambientale. Si crea fame dove dovrebbe esserci sazietà, compaiono le mense per i poveri a fianco dell’opulenza dei super ricchi. Per questo la nozione di un modo di esistenza post-capitalista deve diventare credibile, deve diventare ciò che Maurizio Lazzarato ha descritto come un focolaio autonomo di individuazione con il suo proprio potere resistente. Ciò a cui un comunismo [commonism] post-capitalista può puntare è non solo una distribuzione della ricchezza migliore rispetto a quella insostenibile che esiste oggi ma anche la conquista del “tempo disponibile”, cioè il tempo e l’energia liberati dal lavoro e da usarsi per sviluppare e complicare la nozione stessa di che cosa è “necessario”.

La storia del capitalismo mostra come l’automazione in sé non abbia ridotto la quantità e l’intensità del lavoro richiesto dai manager e dai capitalisti. Al contrario, nella misura in cui la tecnologia è per il capitale solo un mezzo di produzione, quando il capitale è stato in grado di usare altri mezzi, non ha innovato. Per esempio, le tecnologie industriali di automazione nella fabbrica non sembrano aver attraversato grandi stravolgimenti di recente.  Oggi la maggior parte del lavoro industriale è tuttora fortemente manuale ed è automatizzato solo nel senso che è agganciato alla velocità di reti elettroniche di prototipazione, marketing e distribuzione. È economicamente sostenibile solo attraverso mezzi politici, cioè sfruttando le differenze geo-politiche ed economiche (arbitraggio) su scala globale e controllando i flussi migratori attraverso nuove tecnologie dei confini. Nella maggior parte delle industrie odierne si verifica uno sfruttamento intensificato che produce un modo di produzione e di consumo impoverito e dannoso per il corpo, per la soggettività, per le relazioni sociali e per l’ambiente.

Per dirla con Marx, il tempo disponibile liberato dall’automazione dovrebbe consentire un mutamento dell’essenza stessa dell’“umano”, di modo che la nuova soggettività possa tornare a svolgere il lavoro necessario con modalità che ridefiniscano ogni volta che cosa è necessario e che cosa serve. Così, da un processo di produzione svolto da molti (immersi nella povertà e nello stress) per pochi, si passa a uno in cui i molti ridefiniscono il significato di ciò che è necessario e di valore. In un certo senso, questo corrisponde alla nozione di “commonfare” elaborata di recente da Carlo Vercellone e Andrea Fumagalli (Vercellone in corso di pubblicazione; Fumagalli 2008; 2013). Dobbiamo quindi domandarci non solo come funzioni oggi l’automazione algoritmica (soprattutto in termini del controllo e della monetizzazione che alimentano l’economia del debito) ma anche come essa possa funzionare una volta adottata da assemblaggi sociali e politici diversi – autonomi e non sussunti da o assoggettati all’impulso capitalista verso l’accumulazione e lo sfruttamento.

Il red stack: moneta virtuale, reti sociali, bio-ipermedia

red attackIn un intervento recente, il teorico politico ed esperto di media digitali Benjamin H. Bratton ha argomentato che stiamo assistendo all’emergere di un nuovo nomos della terra, in cui le vecchie divisioni geopolitiche legate ai poteri sovrani territoriali si stanno intersecando con il nuovo nomos di internet e le nuove forme di sovranità che si estendono nello spazio elettronico. Questo nuovo ed eterogeneo nomos vede l’intersezione di governi nazionali (Cina, Stati Uniti, Unione Europea, Brasile, Egitto e simili), istituzioni transnazionali (Fmi, Omc, le banche europee e Ong di vario tipo) e grandi aziende come Google, Facebook, Apple, Amazon, ecc., con pattern differenziati di adattamento reciproco segnati da momenti di conflittualità. Attingendo dalla struttura organizzativa delle reti informatiche (lo stack o Osi, che permette di combinare e rendere interoperabili macchine e protocolli diversi), Bratton ha sviluppato il concetto di “Black Stack” per definire la caratteristica di un possibile nuovo nomos della terra che colleghi tecnologia, natura e umano (cloud, ecc.).

In questa sezione, vorrei proporre il concetto di “Red Stack”, ovvero il nuovo nomos del comune post-capitalista. Per materializzare il red stack è necessario affrontare tre livelli di innovazione socio-tecnica: la moneta, i social network e i bio-ipermedia.

Moneta virtuale

L’economia virtuale, come Christian Marazzi e altri hanno sostenuto, è basata su una forma di moneta che è stata trasformata in una serie di segni, senza un referente fisso a cui ancorarli (come l’oro), esplicitamente dipendente dall’automazione computazionale di modelli di simulazione, screen media con display di dati automatici (indici, grafici, ecc.) e algo-trading (transazioni bot-to-bot) come suo emergente modo di automazione. Dato che la moneta è la forma della relazione sociale capitalista oggi e che la proprietà della moneta-capitale (diversa dalla moneta-salario nella sua capacità di essere usata non solo come mezzo di scambio ma anche come mezzo di investimento che potenzia certi scenari futuri invece che altri) è cruciale per mantenere le popolazioni legate alle attuali relazioni di potere, come possiamo trasformare la moneta finanziaria in moneta del comune?

Gli odierni tentativi, da parte del movimento per la criptovaluta, di sviluppare nuovi tipi di moneta devono essere giudicati, valutati e ripensati in base alla semplice domanda posta da Andrea Fumagalli: la valuta creata si limita esclusivamente a essere un mezzo di scambio o può anche influenzare l’intero ciclo di creazione del denaro – dalla finanza allo scambio? Consente di speculare e tesaurizzare o promuove l’investimento in progetti post-capitalisti facilitando la libertà dallo sfruttamento, l’autonomia organizzativa, etc.? Ciò che sta emergendo sempre più chiaramente dai limiti inerenti all’esperimento bitcoin, per esempio, è che gli algoritmi sono una parte essenziale del processo di creazione della moneta del comune, ma si collocano anche all’interno di dinamiche politiche (per esempio la politica di genere del “mining” e dei complessi saperi e macchinari tecnici che il mining dei bitcoin implica). Inoltre, l’impulso ad automatizzare completamente la produzione di denaro allo scopo di evitare le fallacie dei fattori soggettivi e delle relazioni sociali di per sé non funziona, sta invece facendo riemergere tali relazioni nella forma del trading speculativo. Allo stesso modo, essendo il capitale finanziario intrinsecamente collegato a un certo tipo di soggettività (il predatore finanziario raccontato da Hollywood), una forma di moneta autonoma deve essere invece inserita in e produttiva di un nuovo tipo di soggettività non limitata all’ambiente hacker in quanto tale e, parallelamente, non orientata alla monetizzazione e all’accumulazione ma a un potenziamento della cooperazione sociale.

Altre questioni che possono riguardare la progettazione del denaro del comune sono: è possibile attingere dall’odierna finanziarizzazione di internet da parte di aziende come Google (con il suo Adsense/Adword programme) per sottrarre denaro dal circuito capitalista di accumulazione e trasformarlo in una moneta in grado di finanziare nuove forme di commonfare (educazione, ricerca, salute, ambiente, ecc.)? Quali sono le lezioni da imparare dai modelli di crowdfunding e dai loro limiti nel pensare nuove forme di finanziamento per progetti autonomi di cooperazione sociale? Come possiamo perfezionare ed estendere esperimenti come quelli effettuati dal movimento Inter-Occupy durante l’uragano Kathrina, trasformando le reti sociali in reti di crowdfunding da usarsi come infrastruttura logistica in grado di muovere non solo informazioni ma anche beni fisici?

Social network

Negli ultimi dieci anni, i media digitali hanno attraversato un processo che li ha trasformati in social media e che ha introdotto un genuino mutamento rispetto alle precedenti forme di software sociali (mailing list, forum, domini multi-user, ecc.). Se le mailing list, per esempio, attingevano da un linguaggio comunicativo basato sullo spedire e il ricevere, i social network e la diffusione di social plug-in (di proprietà privata) hanno trasformato la relazione sociale stessa nel contenuto di nuove procedure computazionali. Quando si spedisce o si riceve un messaggio, si può dire che gli algoritmi operino al di fuori della relazione sociale in sé, nello spazio di trasmissione e distribuzione di messaggi. Invece, il software dei social network si colloca proprio al suo interno. Infatti, Bernard Stiegler ha esplicitamente sostenuto che i social network “grammatizzano” la relazione sociale stessa, ovvero la trasformano in un oggetto discreto, come ha fatto l’automazione meccanica con i circuiti sensori-motori del corpo. Se interpretiamo, seguendo Gabriel Tarde e Michel Foucault, la relazione sociale come una relazione asimmetrica includente almeno due poli (l’uno attivo e l’altro ricettivo) e caratterizzata da un certo grado di libertà, possiamo pensare azioni come il ‘piacere’ e l”essere piaciuti’, lo scrivere e il leggere, il guardare ed essere guardati, il taggare ed essere taggati, come azioni che transindividuano il sociale (inducono il passaggio dal pre-individuale, attraverso l’individuale, al collettivo). Nei social network e nei social plug-in, queste azioni diventano oggetti tecnici discreti (i bottoni ‘mi piace’, i box per i commenti, i tag, ecc.), che sono poi collegati a soggiacenti strutture di dati (per esempio il social graph) e assoggettati al potere di classificazione degli algoritmi. Assai disprezzati nella teoria critica contemporanea per il loro presunto effetto omogenizzante, queste nuove tecnologie del sociale, tuttavia, aprono anche la possibilità di sperimentare con le interazioni ‘molti-a-molti’ e quindi con i processi di individuazione stessi.

Gli esperimenti politici (vedi i partiti incentrati su internet, come il Movimento 5 Stelle, il Partito X del futuro, il Partito Pirata etc) attingono dai poteri di queste nuove strutture socio-tecniche allo scopo di produrre processi di partecipazione e deliberazione. Dato che gli algoritmi, come abbiamo detto, non possono essere slegati da assemblaggi sociali più ampi, la loro materializzazione all’interno del red stack implica il dirottamento delle tecnologie dei social network, l’invenzione di nuovi tipi di plug-in, la costruzione di nuove piattaforme attraverso un abile bricolage delle tecnologie esistenti e l’invenzione di nuove tecnologie. In questo senso, è importante rivendicare l’importanza dei social network digitali e del nuovo tipo di alfabetizzazioni tecno-sociali che da essi sono emersi. Questi saperi (come costruire un profilo, coltivare un pubblico, condividere e commentare, fare e postare fotografie, video, note e pubblicizzare eventi) non sono implicitamente buoni o cattivi, ma presentano una serie di affordance per l’azione politica che non possono essere lasciate ai monopoli capitalisti e che possono migrare verso nuove piattaforme, usi e servizi.

Bio-ipermedia

Il termine bio-ipermedia, coniato da Giorgio Griziotti, identifica la sempre più intima relazione tra corpi e dispositivi tecnologici facente parte della diffusione di smart phone e tablet. Nel momento in cui i network digitali si allontanano dalla centralità delle macchine desktop e laptop per muovere verso congegni più piccoli e portatili, emerge un nuovo panorama sociale e tecnico attorno alle “app” e ai “cloud”. Bratton  definisce le “app” per piattaforme come Android e Apple come interfacce o membrane che collegano le macchine individuali a grandi database immagazzinati come “cloud” (giganteschi centri per la lavorazione e l’immagazzinamento di dati, di proprietà di grandi aziende). Questa continuità topologica ha consentito la diffusione di applicazioni scaricabili, o app, che modulano sempre più il rapporto tra corpi e spazio. Queste tecnologie non solo “aderiscono alla pelle e rispondono al tatto” (per dirla con Bruce Sterling), ma creano nuove “zone” attorno a corpi che ora si muovono attraverso “spazi codificati”, intessuti di informazione, capaci di localizzare altri corpi e luoghi all’interno di mappe visuali di informazione. Ancora una volta, vediamo come le app sono per il capitale semplicemente un modo di “monetizzare” e “accumulare” dati sul movimento del corpo. Tuttavia, tale sussunzione del corpo mobile sotto il capitale non implica necessariamente che questo sia l’unico uso possibile di queste nuove affordance tecnologiche. Trasformare i bio-ipermedia in componenti del red stack (il modo di riappropriazione del capitale fisso nell’era del sociale in rete) richiede di assemblare l’odierna sperimentazione con l’hardware (i telefonini clonati delle fabbriche shenzei cinesi, i movimenti di makers che costruiscono macchine dal basso etc)  in grado di supportare una nuova progenie di “app immaginarie” (pensate, per esempio, alle app escogitate dal collettivo di artisti ilectronic Disturbance Theatre che consentono ai migranti di superare i controlli di frontiera o alle app che risalgono alle origini di un prodotto, al grado di sfruttamento che contiene, ecc.).

Conclusioni

Questo breve saggio che come accennato nell’introduzione mira a sintetizzare un processo più ampio di ricerca ha voluto proporre un’altra strategia per la costruzione di una infrastruttura macchinica e tecnologica del comune. L’idea di base è che le tecnologie informatiche, in cui gli algoritmi giocano un ruolo fondamentale, non costituiscono semplicemente un’arma del capitale, ma vanno costruendo contemporaneamente nuove potenzialità per forme di governo e organizzazione della produzione post-capitaliste. Si tratta qui contemporaneamente di aprire delle linee di contaminazione possibili tra gli ampi movimenti di programmatori, hackers e makers impegnati in una riscrittura delle tecnologie di rete informate da valori diversi (etici, estetici etc) dal valore di scambio e quello speculativo, ma anche di riconoscere il vasto processo di alfabetizzazione tecnosociale che ha recentemente investito larghe sezioni della popolazione globale. Si tratta dunque di produrre una convergenza capace di estendere il problema della riprogrammazione della rete lontano dalle tendenze recenti verso la corporatizzazione e la monetizzazione di utenti autorizzati a muoversi dentro i limiti variabili, ma ristretti stabiliti dai giganti della rete. Legare la comunicazione bio-informatica a temi quali la produzione di una moneta del comune in grado di socializzare la ricchezza che è stata così pesantemente privatizzata dall’economia del debito, affermare che i social networks e le competenze comunicative diffuse con esse possono funzionare come modalità di organizzazione della cooperazione, come modalità di creazione di nuovi valori, sostenere che le tecnologie mobili e disperse di informatizzazione degli spazi e di decentralizzazione della manifattura possono trovare una nuova sintesi politica che ci allontani dal paradigma neoliberale del debito, dell’austerity e dell’accumulazione non ci sembra un’utopia, ma un programma che può mobilitare ampie energie sociali solo temporaneamente e parzialmente catturate dal capitale informatico.

Traduzione di Lorenzo Fé

Cassetta degli attrezzi bibliografica o biblio-macchina desiderante
Istruzioni: scegliete a piacere in modo da formare il vostro assemblaggio di auto-formazione ai fini della materializzazione del red stack

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