di CHIARA GIORGI. Il percorso che si è avviato con il no al Referendum sulle modifiche della Costituzione ha un significato profondamente politico, che può veicolare non solo un’opposizione agli specifici oggetti di riforma costituzionale, ma soprattutto che può lanciare una sfida sui contenuti della democrazia a venire, sui futuri progetti di convivenza comune, sulla qualità delle nostre vite e sulla cifra della politica odierna.
Quel che infatti sembra essere in gioco è il potere di decidere delle e sulle nostre vite individuali e collettive.
In questo senso, non si tratta semplicemente di costruire un fronte plurale per respingere l’attuale riforma della Seconda camera – dietro la quale in verità si nasconde un chiaro progetto di rafforzamento dell’esecutivo e di centralizzazione a tutti i livelli –, bensì di mettere in moto energie vitali volte a ideare e a praticare una politica altra.
Ad una politica svuotata, impoverita e neutralizzata, ad una politica ridotta a mezzo fine a se stesso è quanto mai necessario contrapporre, rilanciandola, una politica inscindibile dall’analisi dei rapporti tra i sessi, dalla dimensione sessuale, una politica di produzione di soggettività, una politica capace di valorizzare quanto sedimentatosi in molte esperienze autorganizzate degli ultimi decenni.
La necessità di mettere al centro del discorso pubblico il contenuto politico di questa “battaglia” per il no e oltre il no, discende dalla necessità di rilanciare una nuova stagione di conflitti del/nel presente, un inedito “costituzionalismo costituente”, di contro alla costruzione di un ordine costituzionale quale strumento dei governi e della loro stabilità, piegato alle logiche della finanziarizzazione.
È inoltre questo “appuntamento” a rendere opportuna una riflessione sulle ragioni del costituzionalismo, ossia di quel movimento storico che irrompe nell’età moderna in posizione dialettica con lo Stato, «una dialettica permanente e integrale di opposti e di distinti»[1]. È il costituzionalismo a essersi espresso entro il fondamento materiale della «lotta per i diritti», quale esito e orizzonte – ideale e normativo – di conflitti incessanti agiti in nome delle comuni aspirazioni all’uguaglianza e alla libertà[2]. È tuttavia sempre il costituzionalismo democratico a doversi misurare con alcune grandi questioni odierne: dal definitivo superamento degli argini nazionali, alla «esclusione del lavoro vivo dalla Costituzione (…) intesa come sistema costituzionale complessivo»[3], al ripensamento del principio di uguaglianza sulla scorta di un rilancio del «principio costituente di “rimuovere gli ostacoli” al pieno sviluppo e all’azione della soggettività differente»[4].
E d’altronde è proprio un ripensamento del costituzionalismo che consente di agire sul complesso rapporto tra diritto e politica, soprattutto in un contesto, quello degli ultimi anni, nel quale si assiste ad uno svuotamento di contenuto politico dello stesso discorso relativo ai diritti. Un contesto dove la democrazia, a partire dal suo contenuto processuale, è messa da parte o peggio “scarnificata”, ma anche «sgombrata da ogni potenza collettiva». Un contesto, infine, dove vanno imponendosi un «individuo trionfante ed euforico soggetto di diritti umani sovranamente oltrepassanti ogni spazio storico», una «giuridicità che finalmente può farsi beffe della politica»[5], nonchè una gerarchizzazione tra diritti che riflette e mira a fissare quella prodottasi a livello sociale/materiale. A fronte di questo scenario, quello dove le riforme (costituzionali e non) si iscrivono nella pura logica di una contro-rivoluzione neoliberale, la riflessione e la lotta intorno alla Costituzione (e alle modifiche ispirate a questa ratio), assumono portata generale e appunto politica. La Costituzione nelle sue interpretazioni più radicali, nella sua dimensione sociale, argine al potere dei privati e dello Stato; la Costituzione capace di imprimere una accelerazione alle trasformazioni della società, in profonda interazione con essa. La Costituzione capace di funzionalizzare il potere ai bisogni della società e degli individui, alle istanze tanto di libertà ed eguaglianza dei soggetti in carne e ossa, quanto di autogoverno collettivo, quanto di valorizzazione dell’imprescindibile singolarità di ciascuno/a.
La Costituzione infine nel suo essere un “rapporto di forze” e come tale inseparabile dall’azione umana, ma anche da un’interpretazione della stessa norma costituzionale nel campo di tensione costante proprio della storia, con i suoi soggetti concreti e con i suoi ineludibili conflitti, nel segno di una «politica dei governati»[6], capace di assumere la soggettività come «campo di battaglia in cui molteplici dispositivi di assoggettamento si devono confrontare con pratiche di soggettivazione»[7].
In questo senso tornano alla mente le considerazioni di costituenti come Lelio Basso, convinto sostenitore dell’efficacia concreta delle disposizioni costituzionali, le quali, a suo parere, riflettevano la natura dialettica e contraddittoria del cosiddetto piano strutturale, del «processo sociale, storico, globale». La convinzione era cioè che in ogni momento della vita sociale, come in ogni Costituzione, vi fosse un aspetto di contraddittorietà tra «la tutela dell’ordine sociale borghese», e «il suo contrario», laddove a essere decisivo era esattamente l’intervento delle forze antagoniste[8]. Seguendo questa direzione le battaglie intorno alla Costituzione acquistavano e acquistano, oggi più che mai, ben altro rilievo di mere contese attorno a semplici “pezzi di carta”. Benché infatti si trattasse di considerazioni proprie di un momento storico alquanto diverso e lontano da quello attuale, la “legittimità” di esse traeva forza da questa interpretazione conflittuale della stessa Costituzione, in tensione con le lotte dei soggetti antagonisti, incaricati costantemente di reinterpretare – ma anche di riscrivere nella realtà – principi ed enunciati proclamati, arricchendoli di nuovi nessi e riferimenti, rendendoli effettivi.
D’altra parte questa battaglia si inquadra in un orizzonte più ampio, di ripensamento di politiche culturali in grado di farsi egemoni sui temi del potere – inteso come relazione tra chi domina e chi è dominato, tra chi sfrutta e chi è sfruttato, tra chi comanda e chi resiste – della democrazia intesa in termini processuali ed espansivi, delle istituzioni. In particolare, torna a essere centrale il prospettarsi di un inedito orizzonte di creativa proliferazione istituzionale, in grado anche di ripensare le forme della rappresentanza tradizionale, gli strumenti della partecipazione. A essere necessarie sono infatti nuove istituzioni capaci di valorizzare e di “agganciarsi” alle pratiche provenienti da molteplici e plurali soggettività politiche, a quanto disseminato a livello sociale, a quanto agito in comune. Istituzioni come espressione di autogoverno collettivo e contropotere, come portato di movimenti di riappropriazione della ricchezza prodotta.
In momenti di crisi, come quello attuale, caratterizzato tanto da forme di “dittatura commissaria” funzionali alla crisi del medesimo ordine neoliberista, quanto da fenomeni di distruzione, spoliazione, e immiserimento di masse crescenti di persone[9], colpite dagli effetti di una finanziarizzazione onnivora e, su un piano europeo, da tentativi costanti di rottura della legalità costituzionale, è allora urgente un impegno politico-culturale in questa direzione. Lo è tanto più in questa fase di “interregno”, per stare alla nota definizione gramsciana, dove il vecchio è morente, il nuovo stenta a farsi strada ostacolato dal primo, e nel mezzo aumentano i pericoli di una pesante “involuzione” (a cominciare dal consoldiamento oligarchico della classe dirigente e dalla crescente legittimazione di interessi particolaristici e corporativi)[10]. Per parafrasare il bel titolo di un volume di qualche anno fa, quello di Rossana Rossanda, occorre allora tornare a pensare in grande[11], ridare spazio simbolico e materiale alle varie forme della lotta e volgersi a quelle istanze “eccedenti” di soggettività nelle quali si esprimono volontà e desiderio di quanti e quante esigono essere direttamente artefici delle proprie vite.
Andare oltre il prossimo referendum, per continuare a prospettare e praticare forme alternative di vita e di costruzione del comune (di appropriazione sociale di esso); per re-immaginare e riarticolare il nesso tra libertà/uguaglianza (negli stessi spazi quotidiani delle città); per sperimentare possibilità altre di convivenza e cooperazione sociale; per un agire politico alternativo, generativo e insidioso. D’altra parte, come è stato da ultimo sottolineato, solo da questa prospettiva politica – non riducibile al mero ossequio formale ai valori costituzionali europei – può rimettersi in moto un progetto costituente dell’Europa stessa, fondato sulla convinzione quest’ultima è soprattutto una costituzione materiale, insieme di movimenti, soggetti e istituzioni in grado di farsi terreno reale di conflitto e mediazione politica[12].
[1] G. Ferrara, La Costituzione. Dal pensiero politico alla norma giuridica, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 210.
[2] G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, Laterza, Roma-Bari, 2013, p. 70-1
[3] S. Mezzadra, Costituzione sfera pubblica in Lessico postfordista. Dizionario delle idee della mutazione, Feltrinelli, Milano, 2001.
[4] M.L. Boccia, La differenza politica. Donne e cittadinanza, Il Saggiatore, Milano, 2002, p. 163.
[5] B. De Giovanni, Elogio della sovranità politica, Editoriale scientifica, Napoli, 2015, p. 216 e p. 286.
[6] Cfr. P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza. La politica dei governati, a cura di S. Mezzadra, Meltemi, Roma, 2006.
[7] S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 320.
[8] L. Basso, Interventi, in F. Livorsi (a cura di), Stato e Costituzione, Atti del convegno organizzato dalla Fondazione Basso-Issoco e dal Comune di Alessandria, Marsilio, Venezia, 1977, p. 126.
[9] Cfr. da ultimo S. Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, il Mulino, Bologna, 2015.
[10] A. Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, Quaderno 3, p. 311. Gramsci scrive precisamente che «in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».
[11] R. Rossanda, Quando si pensava in grande, Einaudi, Torino, 2013.
[12] E. Balibar, Europe, crise et fin?, Le Bord de l’Eau, Lormon, 2016.