di MARCO BASCETTA. Con qualche decennio di ritardo, la «fabbrica del sapere» passa dal «modello toyotista» a quello post-fordista. La ricattabilità del lavoro è la chiave del “patto educativo” presentato dal governo.
A dire il vero centotrenta pagine per spiegare con l’ossessiva, defatigante ripetizione di pochi scarni concetti ciò che poteva, con maggiore chiarezza, essere esposto in una decina di cartelle, non è proprio esempio di agilità e incisività. Può darsi che a forza di correre, i consulenti di Renzi non abbiano avuto il tempo di essere brevi. La «sbrodolata» rivela tuttavia in controluce quale debba essere l’idea di «produttività» che ispira il progetto governativo per la scuola. La stessa che suggerisce di lasciare accese le luci alle finestre dei ministeri fino a tarda notte.
«Scrivete, scrivete!» «Riunitevi, riunitevi!» «Lavorate, lavorate!» Non aveva detto il Filosofo che la quantità si trasforma in qualità? Insomma, se dalle catene di montaggio alle filande pakistane l’idea di «produttività» è rimasta piuttosto costante e chiara, non altrettanto può dirsi per il mondo dell’insegnamento.
Cosicché bisognerà ripetere per decine e decine di pagine le paroline magiche che infestano ormai da lunghi anni bipartisan i discorsi sulla controriforma della scuola: innovazione, merito, miglioramento, formazione permanente, competenza, professionalità. Il cui significato resta appannaggio di un ipertrofico e arbitrario apparato di valutazione, il cui terminale, arricchito dalle inevitabili simpatie e antipatie, sarà il «dirigente scolastico», il preside-manager.
Tra reti di istituti, autonomie e «modello toyotista», con tanto di professore-mentore per lo sviluppo e la circolazione delle competenze, la «fabbrica del sapere» dovrebbe finalmente passare, con qualche decennio di ritardo, alla fase «postfordista». Il tutto accompagnato dall’eterno sventolio della bandiera inglese e di quella informatica, rimedi universali a ogni male. E, naturalmente, da quel «rafforzamento del rapporto col mondo del lavoro» del quale i pianificatori ministeriali, che lo evocano senza sosta, ignorano quasi del tutto.
E più di ogni altra cosa il fatto che le aziende, della scuola, se ne infischiano altamente, come hanno ampiamente dimostrato nel corso degli anni. L’entità degli investimenti privati su formazione, ricerca e innovazione in Italia non lascia molti dubbi. Ma sarà solo incrociando il «patto per la scuola» (in italiano) con il «jobs act» (in inglese) che risulterà più chiaro il destino riservato alle giovani generazioni e alle «competenze» che vengono loro promesse.
Tuttavia, purtroppo, non dobbiamo nutrire eccessive illusioni. Il progetto renziano per la scuola piacerà e convincerà. I numerosi «sì ma», «si però», che lo hanno accolto sono le prime testimonianze di un sostanziale gradimento. Con facile astuzia, dopo anni di «riforme» la cui sostanza consisteva nei tagli e nelle strette disciplinari che hanno reso la parola «riforma» assolutamente impronunciabile, il premier si è premurato di sostituirla con «patto». Nel frattempo, dai grillini ha appreso come le vaste consultazioni (famiglie, insegnanti, studenti, aziende) suonino assai bene e disturbino assai poco il manovratore. Con qualche emendamento «dal basso» il feticcio della partecipazione è servito.
Ma la chiave del successo (come già gli 80 euro in busta paga) è la più magica di tutte le parole: «assunzioni». Coi tempi che corrono la prospettiva di un posto di lavoro, dopo estenuanti attese e speranze frustrate, sovrasta qualsivoglia preoccupazione sulle condizioni di questo lavoro. Che si richieda mobilità, sottomissione ai «valutatori» (detta «merito»), aumento degli orari, imposizione dei contenuti, tutto passa in secondo piano rispetto alla necessità di portare a casa un salario. E lo si può capire.
La ricattabilità del lavoro è l’arma decisiva nelle mani di questo governo. E anche qui aspettiamo il jobs act per completare un quadro che si annuncia nel suo insieme piuttosto tenebroso. Altro che «vocazioni», «voglia di fare» e «desideri di realizzazione»! Che poi gli impegni e il «cronoprogramma» vengano rispettati è tutt’altra faccenda. Ma, intanto, indietro non si torna.
Ultimo elemento di forza del «patto» renziano sono le condizioni decisamente grame in cui versa l’istituzione scolastica. Che queste siano state prodotte da ricette e ideologie non molto dissimili da quelle proposte da Renzi, e accompagnate da parole d’ordine quasi identiche è una circostanza che la memoria sempre più corta degli italiani permetterà facilmente di lasciare in ombra. Il premier viaggia in un clima culturale, quello del «capitale umano», dell’«imprenditore di se stesso» e della «competizione» che debitamente sottoposto a uno slittamento semantico dalla ruvida terminologia economicistica a quella più suadente dell’etica patriottica, contribuirà, ahinoi, a spianargli la strada.
Agli insegnanti, blanditi con la retorica più stucchevole, il «patto» attribuisce il dovere (e l’onore) di forgiare il paese del futuro. Anche se a «forgiarlo» sarà piuttosto la cementificazione delle Grandi opere, la perdita dei diritti e gli interessi delle oligarchie. Confidiamo che stia per entrare alla materna il finanziere etico che tra quarant’anni ci regalerà un capitalismo dal volto umano. Auguriamo all’allora ottantenne Matteo Renzi di godersi, passo dopo passo, lo spettacolo.
Questo articolo è stato pubblicato da il manifesto del 5/9/2014