di MARCO ASSENNATO

Qui l’unico che proviamo a sezionare accomuna lo stivale e l’esagono, e cerca regolarità istituzionali tra le sorti probabili del governo di Matteo Renzi e le avventure e tribolazioni del prode Manuel Valls. Si potrebbe iniziare dal profilo: politico per entrambi, decisamente piantato nelle malferme tradizioni nazionali, francese e italiana. Entrambi sostanzialmente subordinati al Presidente delle rispettive Repubbliche, seppure è vero: in un caso la faccenda è perfettamente legittima, essendo appunto la Francia una Repubblica Presidenziale, nell’altro caso invece si tratta dell’ennesimo tournant italiano, che ha richiesto una repentina, fulminea e non discussa, interpretazione presidenzialistica dell’istituto del Capo dello Stato, in una Repubblica che la sua vecchia Carta Costituzionale vorrebbe ancora parlamentare.

Ma sarebbe stupido attardarsi in lacrimoni tristi per il declino di quella Carta, stiracchiata di qua e di là da almeno un ventennio, e comunque sostanzialmente in ritardo sulla dinamica politica almeno dagli anni settanta del secolo scorso. Addirittura ridicolo pensare al colpo di stato permanente di Giorgio Napolitano. Piuttosto si tratta dell’ennesima manifestazione d’un vecchio credo, l’autonomia del politico che Napolitano ha sempre praticato, senza troppo indugiare in retorica o complesse ricerche teoriche: come dire che non ha avuto bisogno, come alcuni santoni della nostra cultura filosofica, di scoprire Hobbes dopo il ’68, e mai s’è cullato tra le braccia di Schmitt di fronte ai movimenti autonomi del proletariato urbano negli anni settanta. Si dirà: ma quando mai? questo politico non è autonomo per null’affatto. È invece il volto delle tecnocrazie europee, ridotto a mero funzionario dell’economico, esecutore materiale di scelte prese altrove, fuori dal suo controllo! Giusto. Giustissimo. Solo, vien da chiedere: e quando mai l’autonomia del politico è servita ad altro? Non era, quella prima formulazione, strumento concreto per riassorbire negli squilibri dello sviluppo i movimenti di classe? Ed oggi: non è bene sancire questa funzione – l’amministrazione regionale di politiche determinate dalla troika, del tutto impermeabile ai movimenti sociali contenuti ben che vada a colpi di manganello – per il lacerto di risulta delle istituzioni politiche nazionali? Nei due casi, un unico programma reale mette in sicurezza la proprietà come estrazione della ricchezza dal corpo sociale d’Europa.

Torniamo ai nostri due, e continuiamo con le analogie: entrambi rappresentano nel delirante disegno di vecchie elites – una presunta capacità di comunicare, che i partiti politici hanno perduto da tempo (la stampa italiana, tutta, a proposito di Renzi si spinge fino ad usare la parola carisma o si spertica in critiche analisi sull’uomo della provvidenza – povero Weber, e povero Pio XI! ma vabbé). Ecco: la comunicazione, che poi sarebbe il piglio deciso, dirigista, veloce, recupererà il fossato tra politica e società traghettandoci goffamente al prossimo semestre europeo durante il quale si potrà, una buona volta, allargare un poco la cinta e redistribuire una qualche manciata di euri! Brillante. Ma ancora non ci siamo. Che ne è della democrazia? Qui il peana dei critici si fa assordante: e invece proprio qui, Hollande e Napolitano, hanno un merito indiscutibile, dacché riconoscono l’esaurimento degli istituti nazionali della rappresentanza, il fatto insomma che non sono più utili né tantomeno funzionali allo svolgersi normale delle cose del mondo. Dunque, i governi nazionali possono cambiare, da un giorno all’altro – almeno per la Francia all’indomani di una solenne batosta elettorale, è vero, ma in Italia? Ed in ogni caso: quali nuovi interessi interpretano? quali nuove linee amministrative? Esiste un qualche spostamento nella composizione istituzionale e sociale che da carne e sangue a Valls e Renzi, una qualche diversa intenzione nella politica economica, nella politica estera, nelle misure di bilancio rispetto agli esecutivi dimessi di Jean Marc Ayrault ed Enrico Letta? in effetti no, lo spartito pare lo stesso e anzi proprio su questa garanzia le due giovani promesse sono state piazzate lì dove si trovano.

Ma anche qui: il cambio di governi serve a prender tempo, a dare l’impressione che qualcosa si muove, rispetto ad una politica che, di suo, sembra inceppata e inefficace e ad un livello di tensioni sociali crescente – spesso in balia di stomachevoli rigurgiti di bile reazionaria. In Italia interpretate dal M5S destinato a rubar voti a destra – dove sono i compagni che ne furono affascinati? quelli che scambiavano Grillo e Casaleggio per cunei dirompenti nel meccanismo di stabilità? – e in Francia dalla importante performance del Front National, immersa nel lungo maturare dei movimenti omofobi e clericali contrari al mariage pour tous e poi nei tanti e partecipatissimi giorni della collera che hanno attraversato Parigi nei mesi scorsi. Ed entrambi i giovani presidenti dovrebbero interpretare il compito sul piano della comunicazione. Ma non è tutto qui. Renzi svolge una funzione – probabilmente una sola – o almeno prova a svolgerla nel difficile rapporto con il vecchio kapò della destra italiana. E Valls, anch’egli, pare destinato ad una analoga missione – libero dal problema di dialogare con chicchessia. Si tratta di ammodernare le istituzioni.

In effetti, all’indomani dell’insediamento del governo Letta era lecito chiedersi: e adesso questo che fa? un esecutivo sostanzialmente commissariato dai tecnocrati, con Napolitano nel ruolo di ispettore nazionale e per di più con i limiti evidenti dovuti alle larghe o piccole intese, non ha gioco. E tuttavia lecito sarebbe stato rispondere: può spingere sulle riforme istituzionali. Rispondere così al populismo – iperistituzionale e nazionalista in verità – del M5S assumendone fino in fondo ed estremizzandone la rozze e incolte richieste. Cancellare camere, ridurre parlamentari, rinsecchire gli enti locali, distruggere ogni istanza assembleare dal paese, polverizzare i corpi intermedi, ed enfatizzare i ruoli di direzione. Meno assemblee più presidenzialismo, un sistema snellissimo ed efficiente, capace di decidere en vitesse, economico perché poco o nulla democratico, ma proprio perciò finalmente funzionale all’assetto reale delle istituzioni europee. Avrebbe così preso tempo, risposto alla propaganda egemone nel malpancismo italiano che sposta sulla “casta” disagi reali di ben altra natura e tutto sommato, avrebbe forse almeno contenuto una qualche forma di consenso.

E invece no. Napolitano e Letta hanno tentato una prima versione minimalista: non ci interessa il consenso, o meglio, l’unico consenso che ci interessa è quello delle tecnocrazie europee. Che si accontentino della stabilità che noi garantiamo. Un governo stabile è un governo che si occupa fondamentalmente di tradurre in guisa d’atti amministrativi le politiche UE e per il resto solo ed esclusivamente di funzioni di polizia. I bilanci in ordine: si dice. Ordine e bilancio, si legge: nel senso di repressione, ordine pubblico, e austerità. Tutto qui. Renzi in qualche misura recupera quell’atto mancato, almeno così promette. Si prepara alla campagna elettorale per le europee sapendo che solo il Pd, il M5S e poi quel che resta della destra supereranno lo sbarramento e che quindi fondamentalmente agli elettori del M5S deve rispondere. Ammodernare. Ammodernare le istituzioni rendendole finalmente quello che già sono, in realtà. Ammodernare gli istituti del diritto del lavoro traducendoli in diritto civile: scambio di equivalenti su un mercato libero e funzioni di polizia. Se poi riesce pure, come suggerisce uno dei suoi più simpatici supporters, Oscar Farinetti a “trasformare tutto il meridione d’Italia in un enorme Sharm-el-Sheik”, tanto meglio. La propaganda securitaria non fa parte della bonaria immagine di Renzi è vero, ma le pratiche di piazza riducono di molto la sua simpatica allure.

Da questo punto di vista Manuel Valls è più esplicito. Giovane collaboratore di Michel Rochard negli anni novanta, l’ispano-francese è definito un “realista” dai commentatori uno che parla chiaro: bisogna superare la cultura della socialdemocratica – era ora, verrebbe da dire! e accettare il capitalismo – su questo certo i suoi compagni sono meno in ritardo di quanto sembrino a Valls. Interpreta poi il tutto in chiave patriottica. La Patria! La République! L’Identità francese! Che poi si traducono in roba del genere: porsi il problema dell’ordine pubblico è di sinistra. E giù botte sui rom e gli immigrati. Il catalogo delle politiche reazionarie e liberticide degli ultimi vent’anni è tutto confermato se non esacerbato. Una bella, giovane, nuova immagine politica, con  manganello e proiettili di gomma. Ecco l’arma spuntata che Hollande e Valls oppongono a Marine Le Pen, la quale si è pure tolta lo sfizio di dichiarare, all’indomani dell’incarico: “Valls è pericoloso, perché non ha alcun rispetto per le libertà individuali”. Perfetta.

Lì dove i due giovani eroi mostrano la corda, è, sulle politiche economiche. Del resto, si tratta di un bluff. Che certo produrrà degli effetti, avendo la politica orrore del vuoto, come si sa. Si dice che Renzi è il nuovo Blair. Ma sarebbe ora di piantarla con queste corbellerie. Nulla di simile nel ciclo capitalistico della terza via e in questo di austerità e crisi. Almeno Blair aveva potuto godere del lavoro sporco della Thatcher e si candidava a interpretare una fase di tumultuosa quanto effimera espansione produttiva. Oggi invece è il tempo di una nuova grande trasformazione: il lavoro sporco si fa adesso. Nulla di simile neppure negli obiettivi, in verità. Renzi dice di sostenere le direttive che impongono il dogma del pareggio di bilancio ma promette redistribuzione (di briciole) senza tuttavia rimettere in causa il limite del 3% del PIL. E insieme propone slide piene di ridicoli desiderata, peraltro per i quali più d’uno dubita che esistano le coperture. Farfuglia sul Made in Italy, ma ha buon gioco visto il livello dei suoi interlocutori. E Manuel Valls, evitando ogni parlar franco sugli obiettivi reali e le obbligazioni della sua politica economica, continua sulla strada dei 50 miliardi promessi da Hollande alle imprese, inutili per l’occupazione e misteriosamente sottratti alle politiche di bilancio. Qualcuno ha suggerito di mandarlo a Berlino: potrebbe dire alla Merkel “pagherò”, e poi continuare, tranquillamente per la sua strada. Facile prevedere, nell’un caso come nell’altro, che si dovrà ritornare su nuove misure di austerità, da qui a qualche mese. Ce lo chiede l’Europa.

Ed in effetti è qui il punto cieco delle due esperienze. Tutte chiuse in ambito nazionale, esse impediscono ad una seria politica europea di esprimersi. A questo punto interamente nelle mani dei movimenti sociali. L’assetto politico reale dipende dalla risposta che si dà, oggi, subito, alla grande questione: come attraversare le potenze tecnico-economiche coniugando partecipazione democratica e cittadinanza europea a sviluppo, innovazione, ed efficacia decisionale? Come piantare nel solco della governance  politiche capaci di produrre nuove istituzioni di diritto e nuovo welfare? Ma questo problema è sommerso nella propaganda dell’ordine e del bilancio. Lo sanno bene i tecnici dell’UE: finché le moltitudini europee non daranno risposta a tutte le loro paure essi continueranno, tuttavia, per la loro strada. In questo quadro il pericolo che alle prossime elezioni europee dilaghino nazionalismi e populismi, spinte xenofobe e razziste, propaganda sovranista e fronti nazionali diventa quasi un rischio calcolato. Funzionale ad una ulteriore “serrata” delle burocrazie europee. Ce lo chiede l’Europa, non vorrete finire nelle mani di Marine Le Pen. Sarà il nuovo mantra. Ma il punto è chiedersi: questo scenario è così indigesto alle tecnocrazie? Non hanno forse queste già accettato e digerito la possibilità di una uscita non democratica dal dibattito sulle istituzioni europee?

 

Download this article as an e-book