Di MATTHIEU RENAULT e GUILLAUME SIBERTIN-BLANC
Questo testo di Guillaume Sibertin-Blanc e Matthieu Renault – apparso in francese sulla Revue du Crieur (n. 10, 2018) – ripercorre la genealogia del cosiddetto «spinozismo di sinistra» francese, e in parte italiano (non di secondo piano sono i riferimenti alla fine e acuta spinozista Emilia Giancotti): da Althusser a Lordon, passando per Deleuze, Matheron (e Gueroult), Macherey, Balibar, Negri, Sévérac e tant* altr* filosofe e filosofi. Materia calda, con i suoi impensati (l’immanenza, il pensiero sulla e della vita, la teoria genetica dello Stato, il materialismo radicale, ecc.), la filosofia di Spinoza è un campo di battaglia attraversato da numerose generazioni, ora più apertamente ora più velatamente. I due filosofi, in guisa di conclusione, lanciano una sfida per i/le novell* spinozist*: «Nell’epoca della decomposizione e delle ricomposizioni della sinistra, più che determinare se lo spinozismo sia «di sinistra», la questione è senza dubbio valutare in quale misura la sinistra è «spinozista» e ciò che guadagnerebbe o perderebbe nell’essere tale; e ciò non solo dal punto di vista delle sue idee o della sua ideologia ma, come impone il parallelismo spinoziano, anche dei suoi modi di esistenza e organizzazione come corpo e insieme di corpi, «convenienti» o convergenti sotto alcuni aspetti, «sconvenienti» o divergenti sotto altri: lo spinozismo come scansione delle pratiche militanti, tutto un programma». Riappropriarsi di Spinoza è «pensare con» e non «a partire da» Spinoza. Perché lo spinozismo è, innanzitutto, un metodo di studio e di pensiero e una postura etico-politica. [Marco Spagnuolo]
***
Al fianco delle letture conservatrici e delle interpretazioni liberali delle opere di Spinoza, è possibile delineare i contorni di uno «spinozismo di sinistra». E non recente: se Marx si è subito allontanato dal filosofo di Amsterdam, i pensatori della II e della III Internazionale ne hanno riconosciuto i tratti tipici di un autentico materialista. D’altra parte, gli intellettuali marxisti non hanno smesso di riattivare questa svolta di Marx attraverso Spinoza, costruendo non un pensiero omogeneo, ma delle letture proteiformi. Così Louis Althusser ha contribuito a rinnovare il pensiero marxista con l’ausilio della teoria spinozista della conoscenza; Antonio Negri pensa un «soggetto rivoluzionario» a partire dal concetto di moltitudine; Frédéric Lordon legge le attuali lotte sociali a partire dalla struttura degli affetti. Oggi, l’ombra di Spinoza si estende su una fetta delle scienze sociali in continuo sviluppo.
Un dossier dedicato a Spinoza da una rivista culturale si è promesso di recente di chiarire «le ragioni di un grande ritorno» e ha enumerato la molteplicità dei programmi teorici e critici tra i quali, da un parte e dall’altra dell’Oceano, il filosofo olandese del secolo XVII si vedrebbe coinvolto:spino-rhizomes, écolo-spinozistes, socio-spinozistes , spino-féministes1. La lista non è chiusa e si sarebbero potuti aggiungere, passeggiando in una libreria, Spinoza eroe dell’appassionante affresco storico-filosofico di Maxime Rovère (allo scaffale docu-fiction), Spinoza pronto all’uso del «vostro sviluppo personale» dell’autore di best-seller Frédéric Lenoir (allo scaffale spiritualità/buddismo), senza dimenticare (immediatamente prima delle casse) Spinoza «en marche» contro le passioni tristi dei manifestanti e altri scontenti arruolato da Emmanuel Macron nel suo libro-programma Révolution.
Spinoza nostro contemporaneo: la causa è intesa in modi evidentemente diversi. La sua filosofia aveva già polarizzato grandi dibattiti filosofico- politici. Era un materialista radicale debitore di Democrito o un precursore dell’idealismo assoluto di Hegel? L’araldo degli Illuministi francesi o già il becchino della filosofia classica tedesca? Un panteista o un ateo? Un figlio dell’umanesimo rinascente o un antenato dell’antiumanismo marxista? Un ambasciatore della trionfante modernità europea o un residuo delle origini orientali della filosofia la cui «vera patria» si situava, Schopenauer dixit, sulle «sponde sacre del Gange»?2
Il nome di Spinoza è disseminato in una molteplicità di direzioni eterogenee; il suo pensiero viene rivendicato da una moltitudine di voci. Polifonia o Babele, quel che è certo è che lo spinozismo contemporaneo è irriducibile ad una «contraddizione principale». Non riuscirebbe a definire una posizione identificata su un campo di battaglia; ci sono degli spinozisti in tutti o quasi tutti i campi e non si sa mai veramente se sono sul punto di collidere tra loro o siglare alleanze segrete. Prova per eccellenza, Spinoza, ci dice Yves Citton, «può piacere insieme alla vena neoliberale e ai suoi avversari più feroci»3. Tutto ciò ha spinto Slavoj Žižek a chiedere, non senza ironia: «È possibile non amare Spinoza?»4. Ma non è questa la ragione di tale successo, che pur pensando di costruire una filosofia che eliminasse qualunque conflitto di interpretazione, anziché un sistema chiuso d’idee, ci ha consegnato una vera e propria «macchina per pensare e far pensare» e, forgiando una «filosofia in prima persona, in atto»5, ha così autorizzato una proliferazione di forme di riattualizzazione? In ogni caso, la «moda Spinoza» – nel senso letterale, commerciale del termine, poiché Spinoza vende molto bene, in particolare a Natale! – non è evidentemente vicina a spegnersi e più si estende, più riversa nell’opinione pubblica un insieme di immagini e di slogan col rischio, di cui si prende gioco, di sconcertare i filosofi di professione, o meglio di inorridire i più puristi tra essi.
È necessario, però, abbandonare tale posizione soverchiante, incapace di restituirci le ragioni che spingono alcuni a indossare la parrucca di Spinoza piuttosto che un’altra, a favore di un approccio nel territorio neospinozista. Non sapendo da dove cominciare, andiamo alla Sorbona dove si riuniscono degli eminenti specialisti del nostro filosofo. All’uscita, pediniamo uno tra loro. Non tardiamo a scoprire che sta andando alla riunione di un’organizzazione- o è una cospirazione?- che riunisce degli intellettuali militanti di più generazioni, per la maggior parte di sesso maschile, che si riferiscono, in maniere diverse, ad una sinistra radicale dalle frontiere porose. Spiamoli e apprendiamo presto che questo collettivo eteroclita si appresta a festeggiare il suo cinquantesimo anniversario. Data di nascita: circa il 1968; luogo di nascita: Parigi. Spingiamo le nostre indagini più lontano e perquisiamo il loro piccolo locale: in un cassetto, dei biglietti ferroviari sbiaditi ci mettono sulla pista degli scambi avvenuti tra la Francia e l’Italia; in un angolo della stanza, una biblioteca zeppa di opere erudite sull’Etica firmate da universitari, in apparenza insospettabili, ma alcuni di loro sembrano essere stati compagni di strada dei nostri amici; in dei cartoni, una corrispondenza lascia pensare che il gruppo abbia dei satelliti in America Latina e altrove.
I nostri energumeni non avranno provato a formare un’Internazionale spinozista dai fini oscuri? Tutto ciò è decisamente intrigante ed è urgente fare un’inchiesta sulla storia di questa cellula se vogliamo sventare i suoi piani sovversivi; tanto più che tra i suoi seguaci, i «vecchi» sono stati a lungo dei noti comunisti e su di essi, ma anche sui più giovani, continua a vagare lo spettro di Marx.
Ricostruzione fantasiosa, il lettore l’avrà capito. Non c’è mai stata un’organizzazione rivoluzionaria spinozista; i membri di questo gruppo immaginario non hanno organizzato riunioni segrete né preparato delle bandiere con l’effigie di Spinoza né redatto dei volantini che convertono le sue parole filosofiche in parole d’ordine politiche. A dire il vero, non sarebbe stato facile fare un simbolo rivoluzionario del sigillo che usava il filosofo e su cui era scritta la parola latina caute: «prudenza». Aggiungete a ciò che i sospettati, di cui noi daremo presto i nomi, hanno elaborato le loro rispettive versioni dello spinozismo politico nella solitudine dei loro uffici e, nel caso di uno di loro, in una cella del carcere, e hanno prima di tutto dialogato per iscritto o in occasione di incontri universitari. Pur avendo intessuto dei rapporti gli uni con gli altri, rifiuterebbero l’idea di essere assimilati ad una tendenza unificata. Se malgrado tutto, e forse malgrado loro, desideriamo mostrare che qualcosa come uno «spinozismo di sinistra» esiste, bisogna tracciare la genealogia, ritrovando il nostro contegno di seri universitari, ripartendo dal più piccolo denominatore comune ai suoi rappresentanti, ovvero una problematizzazione dei rapporti tra Marx e Spinoza, che risale a molto tempo prima rispetto allo spinozismo contemporaneo.
Dal partito alle aule
Non c’è stato bisogno di aspettare le disillusioni del «socialismo reale» perché gli intellettuali marxisti si rivolgessero verso Spinoza, il più delle volte per regolare i loro conflitti interni. Senza dubbio Marx sarebbe stato il primo a sorprendersi, lui che, certamente, nei suoi scritti giovanili aveva mobilitato il Trattato teologico-politico per denunciare la trascendenza ancora tutta divina dello Stato hegeliano, ma che dal 1846 ne L’ideologia tedesca aveva relegato il pensiero spinozista in qualche annotazione lapidaria alla stregua delle astrazioni metafisiche incompatibili con l’analisi scientifica dei rapporti sociali. Questa elusione rompeva con la riabilitazione di cui il filosofo di Amsterdam era stato fatto oggetto tra i giovani hegeliani («di sinistra») come Moses Hess e soprattutto Ludwig Feuerbach che vi aveva scoperto un materialismo naturalista che permetteva di abbandonare l’idealismo di Hegel e il suo «Spirito del mondo» a favore di un’antropologia centrata sulle potenze dell’«uomo concreto».
Se dei concetti spinozisti de l’Etica hanno continuato ad informare in maniera più spettrale il pensiero di Marx, una volta abbandonato il terreno della battaglia filosofica e investito quello della critica dell’economia politica6, l’affiliazione di Spinoza a Marx è un’invenzione in parte postuma, legata intimamente alla codificazione dell’opera del secondo in dottrina. Engels ne fu il grande fautore. Nell’Anti-Dühring, breviario del marxismo di un’intera generazione di intellettuali e militanti, Engels aveva estratto dall’Etica il quadro materialista che permetteva di «rimettere in piedi» (materialismo) la dialettica che, in Hegel, «marciava in testa» (idealismo). Definire, come aveva fatto Spinoza, l’estensione e il pensiero come attributi, tra un’infinità d’altri, di una sola e unica sostanza, che la si chiami Dio o Natura, e dedurne l’identità «di ordine e connessione» tra le cose e le idee, il parallelismo tra anima e corpo, significava escludere qualunque dualismo tra la sfera della volontà umana e il regno delle leggi naturali a favore della possibilità, contenuta nel concetto spinoziano di «causa adeguata», di una libera appropriazione dei determinismi che ci fanno agire.
La grammatica così fissata fu riattivata, in contesti sempre polemici, nel corso di tutta la storia della II e della III Internazionale. Georgij Plechanov la mobiliterà alcuni anni dopo nella sua lotta contro il «revisionista Bernstein». All’indomani della rivoluzione russa, Abraham Deborine e i «dialettici», agli occhi dei quali Spinoza era un autentico materialista costretto a mostrarsi in abiti teologici – un «Marx senza barba» arriverà a dire uno di loro -, diedero battaglia contro i «meccanicisti» che negavano l’identità della sostanza e della materia in Spinoza7. Che quell’eminente filosofo quale credeva essere Stalin avesse chiuso il dibattito equiparando i suoi protagonisti e imponendo la propria versione del materialismo dialettico (diamat) non impedirà ai filosofi sovietici più tardi di trovare una linea di fuga in Spinoza, che trovò in Evald Ilyenkov un acceso difensore.
Nel frattempo in Francia l’egemonia conquistata dal marxismo hegeliano, sulla base di un’antropologia filosofica che aveva trovato nel concetto di alienazione la sua grande causa teorico-politica, lasciava poco spazio a un reinvestimento del pensiero di Spinoza. Nei suoi celebri corsi su Hegel degli anni Trenta, Alexandre Kojève aveva messo i puntini sulle i: con la pretesa di situarsi dal punto di vista dell’eternità, il «sistema di Spinoza è l’incarnazione dell’assurdo. […] Prendere sul serio Spinoza è effettivamente essere – o divenire – folli»8. In termini politici, solo nel quadro di una storiografia marxista, tinta di evoluzionismo, Spinoza poteva ancora trovare posto, se non favore. Nel 1956, mentre veniva divulgato il dossier Chruščëv e repressa l’insurrezione di Budapest, Jean-Toussaint Desanti pubblicò presso le edizioni de La Nouvelle Critique, rivista del Partito Comunista [Francese, n. d. t.], una Introduction à l’histoire de la philosophie9 interamente centrata sulla filosofia di Spinoza e l’emergere del capitalismo mercantilista e coloniale nell’Olanda del secolo XVII con, come risultato drammatico, l’eterna lotta dell’idealismo e del materialismo. A dispetto della sua ortodossia, il libro aveva il merito di non sacrificare mai le contraddizioni interne ai saperi dell’età classica sull’altare del determinismo sociologico; il prezzo da pagare fu la sua incompiutezza.
È su questa via che uno studente all’epoca «ancora molto stalinista», Alexandre Matheron, pensava inizialmente di impegnarsi10. Se ne allontanò per contribuire ad un inatteso rinnovamento degli studi spinozisti nel campo universitario francese. Preparato dai lavori di Sylvain Zac, cresce nel corso degli anni Sessanta prima di uscire allo scoperto con la pubblicazione a tamburo battente di Spinoza (1968) di Martial Geroult, Spinoza et le problema de l’espression (1968) e il suo complemento Spinoza. Filosofia pratica (1970) di Gilles Deleuze, e Individu et communauté chez Spinoza (1969) di Matheron, «bibbia» di numerosi spinozisti di sinistra delle successive generazioni. Da questo momento, tra questo «spinozismo accademico» e lo «spinozismo politico» in gestazione, nessuna frontiera impermeabile, ma un terreno comune in cui il lavoro degli uni coinvolgeva necessariamente gli altri. Come rivela Pierre-François Moreau, «ricostruendo l’Etica di Spinoza nella sistematicità della sua struttura concettuale, Geroult e Matheron ci sembrava integrassero gli studi spinozisti nell’epistemologia storica di Bachelard, Koyré, Canguilhem, a cui si richiamava Althusser nello stesso momento per rifondare il materialismo storico come scienza rigorosa»11. Eppure lo stesso Althusser, navigando tra il PCF e i banchi dell’École normale supérieure, anche prima di questo rinnovamento, aveva richiamato a (ri)prendere sul serio Spinoza.
Svolta senza ritorno: uscire dalla crisi (del marxismo)
«Noi non siamo stati strutturalisti […] siamo stati spinozisti»12. Non è difficile, a posteriori, comprendere ciò che in Spinoza poteva sedurre Althusser. Rifiutando all’individuo l’autonomia di soggetto sovrano e trasferendo la coscienza in una rete infinita di determinazioni causali, la filosofia di Spinoza era un’arma indicata nella battaglia condotta da Althusser contro l’umanesimo socialista incarnato nel PCF dalla linea dominante di Roger Garaudy, ritenuta in grado di soddisfare al compito della critica del marxismo di Stato e della liquidazione del passato stalinista. Innalzando lo spinozismo nel 1965 come la «più grande rivoluzione filosofica di tutti i tempi»13, formando due anni dopo all’ENS un misterioso «gruppo Spinoza» semi-clandestino, Althusser si curerà tuttavia meno di ricostruire il sistema spinoziano quanto di riesaminare alla luce di alcune delle sue tesi un insieme di problemi strategici, indissociabilmente teorici e politici come sempre nell’autore di Per Marx. Bisognava attende gli Elementi di autocritica (1974) affinché desse a questi slanci spinozisti un significato d’insieme, riprendendo e trasformando la vecchia sintassi engelsiana: non si trattava più di produrre una grande sintesi «Spinoza + Hegel = Marx» in vista di dare all’edificio teorico del marxismo un’unità da cui dipendeva, si era creduto, quella dello stesso movimento operaio organizzato ma, al contrario, di disfare l’unità dottrinale che aveva permesso ad una filosofia intangibile di essere fungere da garanzia ideologica per una linea politica pretesa incontestabile.
Althusser aveva operato una «svolta con Spinoza per vedere un po’ più chiaramente nella svolta di Marx con Hegel»14. Questa svolta doveva rivelare e attuare l’efficacia divisoria, «scismatica», dello spinozismo, la sua potenza di «frattura permanente» che scinde lo stesso pensiero marxiano-marxista in posizioni antagoniste irreconciliabili. È più l’irriducibile eterogeneità degli «attributi», che l’unità della «sostanza» spinoziana invocata da Engels e i suoi epigoni, che Althusser rivendicò in modo da porre in evidenza un tipo di processo la cui complessità (le «strutture») invalidava a priori qualunque aspirazione a coglierne il principio semplice: un’origine o un fine determinati, una contraddizione unica, un soggetto predestinato a portarla a termine. L’idea che un discorso filosofico o scientifico possa garantire una padronanza integrale del corso degli eventi, in particolare quelli rivoluzionari, non era altro che una finzione, soprattutto più pericolosa se questa garanzia era trasferita ad un’istanza di potere, partito e/o Stato. La rottura spinozista era inoltre inseparabile da una nuova «pratica teorica» che Althusser ipotizzava non più a partire dal parallelismo tra cose e idee, ma dalla distinzione spinoziana tra «generi di conoscenza», o modi di produzione delle idee. Nel primo genere di conoscenza (attraverso gli effetti: l’immaginazione), ritrovava la prefigurazione di una teoria materialista dell’ideologia; poteva allora identificare la dinamica emancipatrice del secondo genere di conoscenza (attraverso le cause: la ragione) dissipando l’illusione del «soggetto-supposto-sapere». A mille miglia da un preteso scientismo althusseriano, lo spinozismo di Althusser faceva valere la forza de-soggettivante di una pratica di sapere opposta insieme al positivismo (conformità del sapere ai fatti) e alla tecnocrazia (autorità dei competenti, cioè degli esperti).
La svolta di Althusser non fu un’odissea solitaria. Vi contribuì in maniera decisiva uno dei suoi giovani collaboratori, Pierre Macherey che, alle porte degli anni Sessanta, aveva realizzato con la direzione di Canghuilhem una tesi su «Filosofia e politica in Spinoza», in un’epoca in cui, in Francia, ci racconta, «la letteratura sul soggetto era inesistente: si scoprirono terre ignote; Spinoza politico non esisteva, se non in Unione Sovietica»15. Nel 1979, Macherey pubblicò un’opera chiave: Hegel o Spinoza. Mettendo in discussione le sintesi hegelo-marxiste, Althusser aveva rifiutato il posto di genitore povero che riservavano ad uno Spinoza ancora ignorante della contraddizione dialettica, della forza della negazione, della conflittualità nella storia. Il gesto di Macherey, che dice di assumere ancora oggi da Althusser una «formidabile incitazione a lavorare»16, fu scoprire in questa pretesa «mancanza» un’autentica resistenza anticipata che il pensiero di Spinoza, nel suo rifiuto di qualunque finalismo, avrebbe opposto, in anticipo, alla dialettica hegeliana. La causa, già avanzata in termini differenti da Deleuze, con la sua «grande identità Nietzsche-Spinoza» versus Hegel, era da tempo nell’aria: quattro anni dopo, lo scrittore Jean-Bernard Pouy la riassunse in termini meno eleganti ma del tutto efficaci, intitolando un romanzo Spinoza incula Hegel.
Benché avesse indicato più tardi che la «o» di Hegel o Spinoza dovesse essere intesa non solo come esclusione reciproca, ma anche, e simultaneamente, nel senso del sive latino, come equivalenza (alla stregua del Deus sive Natura di Spinoza), Macherey indicava allo stesso modo che la svolta verso Spinoza aveva smesso di avere come finalità il ritorno al buon porto marxista-leninista; esso costituiva un vero tornante irriducibile alla problematica della costituzione di una «filosofia marxista» introvabile in Marx. Macherey proseguirà su altre vie la sua esplorazione della potenza della provocazione permanente del pensiero di Spinoza nei confronti di qualunque codificazione della storia delle idee (Avec Spinoza, 1992) prima di produrre una monumentale Introduction à l’Ethique de Spinoza in cinque volumi. Rendendosi autonomo, il riferimento a Spinoza si è emancipato dalle questioni immediate in cui più generazioni di intellettuali marxisti infilavano il filosofo olandese. Alle porte degli anni d’inverno, lo spinozismo di sinistra aveva abbandonato l’anticamera del PCF ma, prima di rifugiarsi nel recinto delle università, doveva scriversi su un’altra scena, tra le mura di una prigione italiana.
Spinoza oltre Marx: potenza della moltitudine, o paura delle masse
Alla fine degli anni Settanta, passeggiando nei corridoi dell’ENS, si sarebbe potuto incrociare un filosofo italiano di una quarantina d’anni che non era al suo primo soggiorno in Francia e vi avrebbe trovato rifugio all’inizio del decennio a venire. Antonio Negri, figura di spicco dell’operaismo e dell’Autonomia italiana, avanzava carico di esperienza nelle organizzazioni rivoluzionarie di cui molti dei suoi anziani compagni avrebbero voluto potersi vantare. Teneva allora, su invito di Althusser, un corso sui Grundrisse di Marx che diede luogo alla pubblicazione nel 1979 di Marx oltre Marx, spesso considerato come il manifesto filosofico dell’Autonomia. Ma il 1979 è anche l’anno in cui Negri fu incarcerato per via di una presunta partecipazione all’assassino del deputato Aldo Moro. Migliaia di militanti sospettati di appartenere alle Brigate Rosse popolarono le prigioni italiane. «L’Autonomia era stata sconfitta» si ricorda: bisognava «scoprire la necessità di ciò che si stava vivendo», «ritrovare qualcosa di solido mentre tutto stava crollando». Secondo Negri, per cui i problemi politici sembrano essere immediatamente convertibili in problemi metafisici e inversamente, questa ricerca di terraferma non impegnava niente di meno che una «ricostruzione del marxismo su basi ontologiche», «al di là della critica dell’economia politica», anche al di là di Marx; non più perciò a partire da Marx stesso, ma da un filosofo il cui pensiero era pronto a rivelare le «forme di essere che sottendono la nostra azione»: Spinoza17.
Scritta in prigione, L’anomalia selvaggia. Potenza e potere in Spinoza apparve in italiano nel 1981. Nutrendosi dei lavori dei neo-spinozisti francesi — Matheron, questo «maestro universitario», e più ancora Deleuze — senza ignorare la tradizione dello spinozismo italiano, la prospettiva di Negri resta fermamente ancorata in un materialismo storico di cui aveva intrapreso la rifondazione dagli anni Settanta in un opera seminale (non ancora tradotta in francese): Descartes politico18. Al centro del complesso narrativo-teorico esposto da Negri, la tesi per cui la filosofia di Spinoza avrebbe conosciuto due «fondazioni» successive, la cui cesura si sarebbe manifestata con la brutale interruzione della scrittura dell’Etica a favore di quella del Trattato teologico-politico. Scoprendo l’immaginazione come potere di produzione del reale piuttosto che come suo riflesso degradato, questa saggio apriva la strada a un capovolgimento del rapporto tra la sostanza (una) e i «modi» (molteplici), cioè gli esseri-individui singolari, ormai «egemonici» nel sistema spinoziano. Orientandosi verso un immanentismo sempre più radicale, verso una pura filosofia dell’affermazione, Spinoza rompeva con qualunque pensiero della mediazione e del potere (potestas) a favore di un pensiero, selvaggio, della costituzione e della potenza (potentia), o di ciò che potremmo chiamare una «metafisica dal basso». Là dove il «primo Spinoza» era un «promotore dell’ordine del capitalismo», il secondo partecipava già alla «fondazione del materialismo rivoluzionario», non alla stregua di un precursore, poi superato, ma come l’autore di una «filosofia dell’avvenire», mai così attuale come in questa fine del secolo XX19.
È ne L’anomalia selvaggia, nella sua fine, che apparve il concetto di moltitudine; poiché tale sarebbe stata l’ultima parola dello stesso Spinoza nel Trattato politico. La moltitudine (multitudo), che era stata sempre considerata negativamente, come informe e incapace di riformarsi, era in realtà la condizione positiva dell’autocostituzione (immanente) della comunità politica, che invalida qualunque teoria (trascendente) del contratto sociale e dello Stato borghese. Per mezzo di questa riabilitazione, Spinoza si vedeva indissociabilmente messo al servizio di una critica della categoria di classe operaia, sostituendo all’operaio-massa (indifferenziato) l’operaio-sociale (singolarizzato) e richiedendo la formazione di una nuova «ontologia del comune»; progetto che occupò Negri e i «negriani» durante i decenni successivi, in un dialogo ininterrotto con Spinoza – di cui l’interessato ammette aver sempre avuto una «concezione strumentale»20: basti qui citare Il potere costituente e il saggio Spinoza sovversivo apparso negli anni Novanta, l’immenso cantiere aperto con Michael Hardt nel 2000 con la pubblicazione di Impero, o ancora la fondazione nello stesso anno della rivista Multitudes che, nel suo secondo numero, celebrava «L’evento Spinoza» promettendo di «ritornarci spesso e con determinazione»21.
La traduzione francese de L’anomalia selvaggia apparve un anno dopo l’originale, arricchita da prefazioni firmate da Deleuze, Macherey e Matheron. Era comunque necessario per dare un incondizionato sostegno politico al suo autore, ancora incarcerato. Deleuze avrebbe allora potuto ripetere ciò che aveva affermato nel 1979 a proposito di Marx oltre Marx: «Questo libro è letteralmente una prova d’innocenza»22. Questo non impedirà sicuramente agli amici francesi di Negri, Macherey in particolare23, di sottoporre ad un esame critico la sua interpretazione. Ma col senno di poi, possiamo affermare che la più importante critica allo Spinoza di Negri fu lanciata da un altro vecchio compagno in althusserismo, Étienne Balibar, in maniera d’altronde più sorprendente in quanto egli sostiene che all’epoca dei fatti non aveva ancora letto L’anomalia selvaggia. Questo accadde nel 1982, durante un colloquio internazionale a Urbino in occasione del 350 anniversario della nascita di Spinoza, organizzato da Emilia Giancotti, autrice di un erudito Lexicon Spinozanum, le cui affinità comuniste non avranno contribuito poco alla circolazione internazionale dello spinozismo di sinistra24.
Balibar che, stufo di «professare il bachelardo-marxismo althusseriano», si era lanciato qualche anno dopo nello studio e nell’insegnamento di Spinoza25, vi presentò un saggio di cui si avranno più versioni e che conosciamo oggi con il titolo «Spinoza, l’anti-Orwell. La crainte des masses». Il concetto di multitudo aveva catturato anche la sua attenzione. Sottolineando la sua plurivocità, non privilegiava meno la sua traduzione con «massa». Ciao che rivelavano i due trattati politici di Spinoza era l’ambivalenza passionale delle masse, la loro incessante fluttuazione, la loro tendenza a trasformarsi in folle incontrollabili; ma è anche l’ambivalenza dello stesso Spinoza ai cui occhi qualunque sedizione, qualunque rivolta di massa dovevano inevitabilmente terminare nella sostituzione di una tirannia con un’altra. Se c’era un’attualità di Spinoza, questa non risiedeva dunque tanto nella prefigurazione di un divenire-rivoluzionario quanto nell’ispirazione che poteva dare ad un pensiero dei paradossi della democrazia nell’«epoca delle masse»26.
Perciò, il minimo comun denominatore tra Negri e Balibar era un’acuta consapevolezza della necessità di un riesame delle aporie della tradizione comunista nella quale, althusserismo compreso, l’istanza delle masse suonava come la parola mana. Insistere sulla loro ambivalenza permetteva a Balibar di sfuggire d’un colpo alla ricusazione e al disconoscimento, all’alternativa tra invocazione melanconica di un’illusoria età dell’oro e rilancio maniacale di una grande sera trionfale. È in questa prospettiva che rileggerà il freudo-marxista Wilhelm Reich (La psicologia di massa del fascismo), ritrovando così le preoccupazioni di Deleuze e Guattari che, ne L’Anti-Edipo, erano ritornati sulla sequenza fascista degli anni Trenta e vi avevano rintracciato il problema centrale della filosofia politica di Spinoza: perché gli uomini combattono per la loro servitù come se si trattasse della loro salvezza?
Spinoza nelle scienze sociali: nuovi cantieri per nuove lotte?
Se la fine degli anni Sessanta aveva segnato un ritorno a Spinoza, la fine dei Novanta ne iniziò indubbiamente un secondo che a sua volta beneficiò di un potente radicamento universitario. Trovò il suo epicentro nel seminario organizzato da Pierre-François Moreau, poco dopo la pubblicazione della sua tesi Spinoza. L’expérience et l’éternité (1994), all’ENS Fontenay-Saint-Cloud, a cui hanno preso parte — fino ad oggi — anche Chantal Jaquet, Pascal Sévérac e Ariel Suhamy. Per quanto riguarda il libro di Laurent Bove, La Stratégie du conatus (1996), anticipò la migrazione, all’inizio dei 2000, dello spinozismo di sinistra verso la logica spinoziana degli affetti. Il raggio di questo nuovo spinozismo è di contro più difficile da definire di quello del suo predecessore e forse gli converrebbe più l’immagine della rete informatica, essa stessa ripensata a partire da quanto Balibar,in Spinoza et la politique (1985), intravvedeva come una teoria della comunicazione generalizzata. Ad alcuni oggi piace riconoscere, nel tessuto reticolare e a-centrato che struttura l’«ordine geometrico» dell’Etica, con il suo sistema di riferimenti tra proposizioni, dimostrazioni e scolii, una prefigurazione delle strutture iper-testuali che il World Wide Web ci ha reso familiari.
Il seminario internazionale «Spinoza oggi» organizzato a Cerisy nel 2002 è ricordato da alcuni partecipanti27 come una svolta in cui si rivelò un’inedita configurazione: ai filosofi ormai si affiancavano un biologo teorico dell’auto-organizzazione dei sistemi viventi (Henri Atlan), un economista che scoprì in Spinoza la «filosofia implicita della teoria della regolazione»28 (Frédéric Lordon) o ancora uno specialista della letteratura del VIII secolo vicino alla rivista Multitudes (Citton). Divenne chiaro che puntare tutto sulla coerenza filosofica interna del sistema spinoziano non esauriva la sua fecondità in altri campi. Citton e Lordon puntarono proprio su questo con l’opera collettiva Spinoza et les sciences sociales (2008) che si propose di dimostrare l’efficacia della filosofia di Spinoza in dominii così diversi, se non antitetici, come la teoria micro-sociologica di Gabriel Tarde (Citton) in dialogo con la filosofia di Gilbert Simondon (Philippe Zarifian), la sociologia dei campi di Bourdieu (Christian Lazzeri), il metodo regolazionista in economia monetaria (Lordon e André Orléan) e la microfisica foucaultiana del potere (Sévérac e Aurélie Pfauwadel).
L’introduzione del libro, in forma di manifesto, si proponeva, con un pizzico di eclettismo, di rispondere riunendo gli assiomi unificanti di questo «divenire spinozista delle scienze sociali» e accentuando le frontiere polemiche che ripercorrevano un campo di battaglia intellettuale largamente riconfigurato durante l’interregno degli anni Ottanta e Novanta. Con la parola d’ordine del «ritorno del soggetto», la sociologia aveva resuscitato l’antinomia astratta tra autonomia dei soggetti e determinismo delle strutture e vantato i meriti dell’individualismo metodologico contro lo spauracchio «olistico»: l’antropologia spinozista reclamava per sé un pensiero razionale e non sostanziale del trans individuale, superando questa falsa alternativa e rimettendo in discussione «sia la sovranità dell’ego sia la sovranità dello Stato»29, come dice oggi Citton riferendosi alle opere di Brian Massumi. Una filosofia politica ricostituita sulla base di un universalismo formalista aveva imposto l’agenda di una «razionalità comunicativa» che garantirebbe il regno del consenso a società «post-democratiche» che hanno preso ultimamente atto delle oscure complicità tra utopia egalitarista e totalitarismo; l’etica spinoziana ha introdotto a sua volta una comprensione materialista della produzione delle norme, indissociabile dai rapporti di potenza, e una concezione della comunicazione aperta alle sue dimensioni intellettuali e passionali, socio-tecniche ed economiche, attraverso cui lo spinozismo diventava compatibile con le nuove ricerche sul capitalismo cognitivo nell’epoca delle forze «immateriali».
Non fu meno precario l’equilibrio tra la retorica federativa delle convergenze e la difforme posta in gioco di uno spinozismo che non prescriva in anticipo alcuna «visione del mondo sociale» comune. Le linee di forza del «socio-spinozismo» si mostrarono molto tese. Il convettore fu nuovamente il concetto di moltitudine: Negri vi aveva condensato l’immaginario democratico radicale di cui l’ontologia spinozista era portatrice; Matheron, poi, ne aveva fatto la pietra angolare di una modellizzazione della genesi delle istituzioni e della sovranità. Entrambi volevano risolvere, con due percorsi diametralmente opposti, il problema dell’incompiutezza del capitolo sulla democrazia al termine del Trattato politico. Se si vuole passare da una prospettiva all’altra, è necessaria un’integrazione. Se ne rintraccia una in una metafora biologico-politica che traduce l’idea spinozista della sostanza come «causa di sé» nel linguaggio dei sistemi autoproduttivi o autopoietici30. Ne si troverà un’altra nell’idea dei «territori auto-trascendenti» (Jean-Pierre Dupuy) che iscrive nella dinamica dei rapporti sociali «la maniera in cui dei meccanismi strettamente immanenti sono capaci di generare effetti che dominano i loro stessi produttori»31.
Non senza paradossi, il socio-spinozismo riproduceva tale e quale la problematica — sviluppata da Feuerbach e il giovane Marx — della produzione delle trascendenze religiose e politiche (Dio e Stato) nelle quali gli uomini alienano la loro potenza collettiva32. Lordon, che aveva firmato nel 2001 un articolo in Actuel Marx con il titolo «Il conatus del capitale», ha portato al culmine il paradosso sperimentando una nuova «co-implementazione» critica di Marx con Spinoza e spingendosi a formulare sotto il nome di «strutturalismo delle passioni» una dialettica di orizzontalità (immanenza) e verticalità (trascendenza), di «strutture degli affetti» e delle strutture «macroeconomiche»33. Da un lato, ha rimarcato l’adeguamento dell’economia spinozista degli affetti alle forme di mobilitazione salariale delle passioni gioiose nell’epoca post-fordista, la trappola della ragione neoliberale che realizza l’ideale spinoziano di governo: «Condurre gli uomini in maniera tale che abbiano il sentimento, non di essere condotti, ma di vivere secondo la loro fisionomia e il loro libero arbitrio»34. Dall’altro, ha attribuito ai meccanismi dell’indignatio e della sedizione la genesi di un contropotere antagonista inseparabile dalla formazione di una nuova economia del desiderio35, come Deleuze e Guattari avevano suggerito a loro tempo rivendicando uno «spinozismo dell’inconscio»36.
Eretto, malgrado lui, a intellettuale organico dell’inorganico movimento Nuit debout nel 2015, Lordon per l’occasione lodò il documentario Merci Patron! di François Ruffin per la sua capacità di suscitare passioni gioiose opposte a qualunque forma di vittimismo. Invocava a questo fine l’assioma spinozista secondo cui i desideri possono essere impediti o distrutti solo da altri desideri potenti almeno quanto quelli. Il fatto che Lordon sia il solo ad aver cercato una reale connessione del pensiero spinoziano con le attuali lotte sociali — se si mette da parte il topos pseudo- spinozista della lotta come affermazione gioiosa — tende almeno a mostrare che tra i due Spinoza, quello che ci dà un arsenale analitico- critico adatto ad esaminare gli ingranaggi affettivo- istituzionali del neoliberalismo e quello che ci invita (o inviterebbe) alla resistenza e alla rivolta, vi è ancora un abisso.
Ritorno all’antropologia, fine dello spinozismo di sinistra?
Concludendo, resta da vere come questo scarto, anziché essere riassorbito, continui a suscitare nuove linee di indagine tra le quali potrebbero essere comprese le teorie dell’emancipazione. Mentre l’assioma della «potenza della moltitudine» sembra ritornare ad essere il nome di un problema piuttosto che di una soluzione, vediamo che viene rilanciata la questione, che la maggior parte delle varianti dell’antiumanismo teorico avevano creduto chiusa, dello statuto dell’antropologia filosofica nella teoria critica. Gli spinozisti di sinistra della prima ora si erano impegnati a cercare in Spinoza una filosofia per il marxismo; ormai, agli occhi di qualcuno come Lordon, la sfida è ricostituire, con Spinoza, l’«antropologia mancante di Marx»37.
«Il marxismo, e Marx stesso» ci dice Balibar «si erano tenuti alla convinzione che la critica della religione fosse acquisita. Non c’è niente di meno sicuro»38. André Tosel, che aveva firmato nel 1984 un saggio sul Trattato teologico-politico (Spinoza ou le Crépuscule de la servitude), ha dedicato i suoi ultimi anni a riaprire tale questione in vista di un’analisi del «ritorno del religioso» sulle scene nazionale e internazionale. Contro i riduzionismi simmetrici dell’economia e del culturalismo, la filosofia spinoziana doveva nuovamente essere mobilitati per interrogare le ambivalenti potenze del religioso nella vita intellettuale, immaginativa ed affettiva. Altri si dirigono oggi verso il ruolo dei dibattiti con le scolastiche medievali cristiana, ebrea e araba39 nella genesi del pensiero di Spinoza. È in ultimo il problema dell’ebraismo di Spinoza ad essere reinvestito: contro il peso del tradimento che gli intellettuali ebraici, che trovano in Jean-Claude Milner il loro ultimo «profeta», hanno fatto pesare per almeno un secolo su Spinoza, Ivan Segré ha cominciato a reinscrivere il suo razionalismo integrale, «fuori dalla Legge» in una tradizione rivoluzionaria secondo la quale il «nome Ebreo» e il «nome operaio», lontano dall’escludersi reciprocamente, siano «come uno solo»40. Per Segré, che sostiene la possibilità di tre tipi di lettura dello Spinoza politico, «rivoluzionaria, conservatrice e liberale», il problema fondamentale, o quantomeno attuale, che ci ha lasciato il filosofo è quello dell’invenzione di un «collettivo che non sia più sotto l’imperio della paura, passione triste per definizione41.
Più in generale, osserva Moreau42, l’attuale vitalità delle ricerche su Spinoza viene meno da studi sistematici quanto invece da un dibattito critico su ciò che un’«antropologia non umanista» può apportare all’analisi della storicità delle forme di vita individuali e collettive. Ne sono testimonianza una serie di recenti lavori: sui concetti, che si tende a non tradurre più, di ingenium e imperium e su quanto essi condividano delle contraddizioni delle formazioni nazionali o nazionaliste (Lordon); sulle nozioni di divenire, attività o disposizione, che conduce a una rivalutazione del ruolo della contingenze e dell’evento nell’etica spinoziana (Sévérac, Jacques-Louis Lantoine, Julie Henry); o ancora sulle risorse che dà la filosofia di Spinoza per ripensareuna pedagogia emancipatrice sulla scia di Vygotski (Sévérac) e reinterrogare il posto dell’infanzia nel pensiero politico di Spinoza, come aveva già fatto François Zourabichvili in Le Conservatisme paradoxal de Spinoza (2002). Per un verso differente, alcuni riprendono l’assioma che Deleuze aveva posto al cuore dell’antropologia spinozista: la potenza si esprime in un «potere di affettare», ma anche in un «potere di essere affetti», in quanto i problemi etici possono insieme sorgere e risolversi esclusivamente in una zona di indiscernibilità tra attività e passività, autonomia ed eteronomia.
È chiaro che lo Spinoza contemporaneo non possa restare estraneo ai dibattiti in corso che, tra lotte ecologiste, indigene e contadine, cercano di trasgredire le frontiere dell’impero antropo-sociocentrico per pensare i rapporti tra i mondi umani e non-umani. Il ricorso a Spinoza nel pensiero ecologista non è perciò nuovo: dal 1977, il padre della deep ecology, Arne Næss, vi si richiamava per considerare la vita umana come spoglia di qualunque privilegio ontologico rispetto ad altri esseri che compongono l’ecosistema globale43. A un tale greenwashing hanno comunque resistito molti punti della dottrina spinozista. Rifiutando di pensare la natura in termini di ordine o disordine e ponendo al cuore delle logiche socio-passionali un meccanismo di «imitazione degli affetti», Spinoza respingeva qualunque possibilità di una comunità affettiva, anche immaginaria, tra uomini ed animali. Facendo della potenza del conatus, che nell’uomo equivale a dire del desiderio, la misura del diritto naturale, promuoveva un utilitarismo senza dubbio originale, ma che allo stesso tempo rinnovava un diritto sovrano degli uomini ad appropriarsi di tutti gli altri esseri naturali in funzione del loro proprio interesse… per quanto questo spinga infine a incitarli a conservare la natura per conservare sé stessi. La deep ecology segnalava così un ritorno allo Spinoza panteista- tutti i corpi sono espressione di un’unica e sola potenza infinita — eliminando le conseguenze antropocentriche che Spinoza stesso aveva potuto trarne. Delle recenti ricerche mostrano come il dibattito non sia chiuso e che, rimuovendo i limiti immaginari che riducono l’«imitazione degli affetti» all’identificazione dei «simili», la logica spinozista potrebbe impegnarsi nel campo delle connessioni trans-specifiche tra umani e non-umani di cui l’antropologia contemporanea testimonia44.
Eccoci ritornati al nostro punto di partenza: l’osservazione della diffusione di riferimenti a Spinoza in una molteplicità di campi teorici e critici, autorizzando usi locali selettivi e strategici del suo pensiero. In questo contesto, chiedersi se vi sia ancora uno spinozismo di sinistra non sembra aver praticamente più alcun senso, così come chiedersi se Spinoza stesso, uomo del XVII secolo, fosse di sinistra. Non brilleremo per originalità sottolineando che una tale dispersione è oggi quella della stessa sinistra e che è diventato impossibile fare di quest’ultima una «costante» in funzione della quale potremmo valutare la posizione della «variabile» spinozista nello scacchiere politico. Nell’epoca della decomposizione e delle ricomposizioni della sinistra, più che determinare se lo spinozismo sia «di sinistra», la questione è senza dubbio valutare in quale misura la sinistra è «spinozisa» e ciò che guadagnerebbe o perderebbe nell’essere tale; e ciò non solo dal punto di vista delle sue idee o della sua ideologia ma, come impone il parallelismo spinoziano, anche dei suoi modi di esistenza e organizzazione come corpo e insieme di corpi, «convenienti» o convergenti sotto alcuni aspetti, «sconvenienti» o divergenti sotto altri: lo spinozismo come scansione delle pratiche militanti, tutto un programma.
(Traduzione di Marco Spagnuolo)
Questo articolo è stato pubblicato il 28 agosto 2020 su OperaViva Magazine.
NOTE
1. | ↩ | Le Magazine littéraire, «Spécial Spinoza», novembre-dicembre 2017, n° 585-586, p. 84 e 88-89. |
2. | ↩ | A. Schopenhauer, Le Monde comme volonté et comme représentation, PUF, 2004, p. 539 |
3. | ↩ | Intervista a Yves Citton, 30 novembre 2017. |
4. | ↩ | S. Žižek, Organes sans corps, Éditions Amsterdam, 2008. |
5. | ↩ | Intervista a Pierre Macherey, 26 ottobre 2017. |
6. | ↩ | A. Tosel, «Pour une étude systématique du rapport de Marx à Spinoza», in A. Tosel, P.-F. Moreau et J. Salem (a cura di), Spinoza au XIX siècle, Publications de la Sorbonne, 2007, pp. 127-147. |
7. | ↩ | G. Kline (a cura di), Spinoza in Soviet Philosophy, Routledge/Kegan Paul, 1952. |
8. | ↩ | A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Gallimard, 1989, p. 351 e 354. |
9. | ↩ | J.-T. Desanti, Introduction à l’histoire de la philosophie, PUF, 2006. |
10. | ↩ | «À propos de Spinoza. Entretien entre Alexandre Matheron, Laurent Bove et Pierre-François Moreau», Multitudes, n°3, novembre 2000. |
11. | ↩ | Intervista a Pierre-François Moreau, 8 febbraio 2018. |
12. | ↩ | L. Althusser, «Éléments d’autocritique», in Solitude de Machiavel, PUF, 1995, p. 181. |
13. | ↩ | L. Althusser, É. Balibar, R. Establet, P. Macherey et J. Rancière, Lire le Capital, PUF, 1996, p. 288. |
14. | ↩ | L. Althusser, «Éléments d’autocritique», in Solitude de Machiavel, cit., p. 183. |
15. | ↩ | Intervista a Pierre Macherey, 26 ottobre 2017. |
16. | ↩ | Ibidem. |
17. | ↩ | Intervista ad Antonio Negri, 16 gennaio 2018. |
18. | ↩ | Ibidem. |
19. | ↩ | A. Negri, L’anomalia selvaggia. Potere e potenza in Spinoza, in Spinoza, DeriveApprodi, 2018 (1998), p. 37. |
20. | ↩ | Intervista ad Antonio Negri, 16 febbraio 2018. |
21. | ↩ | J. Ceccaldi, «L’événement Spinoza», Multitudes, n° 2, maggio 2000. |
22. | ↩ | G. Deleuze, «Ce livre est littéralement une preuve d’innocence», in Deux régimes de fous, Éditions de Minuit, 2003, pp. 160-161. |
23. | ↩ | P. Macherey, «Negri: de la médiation à la constitution», in Avec Spinoza, PUF, 1992, pp. 245-270. |
24. | ↩ | Intervista a Étienne Balibar, 12 febbraio 2018. |
25. | ↩ | Ibidem. |
26. | ↩ | É. Balibar, «Spinoza, l’anti-Orwell. La crainte des masses», in La Crainte des masses, Galilée, 1997, p. 58. |
27. | ↩ | Intervista a Yves Citton, 30 novembre 2017; intervista a Frédéric Lordon, 14 dicembre 2017. |
28. | ↩ | Intervista a Frédéric Lordon, 14 dicembre 2017. |
29. | ↩ | Intervista a Yves Citton, 30 novembre 2017. |
30. | ↩ | Y. Citton, L’Envers de la liberté. L’invention d’un imaginaire spinoziste dans la France des Lumières, Éditions Amsterdam, 2006. |
31. | ↩ | Y. Citton et F. Lordon (a cura di), Spinoza et les sciences sociales, Éditions Amsterdam, 2008, p. 51. |
32. | ↩ | F. Fischbach, La Production des hommes. Marx avec Spinoza, PUF, 2014. |
33. | ↩ | Intervista a Frédéric Lordon,14 dicembre 2017. |
34. | ↩ | F. Lordon, Capitalismo, desiderio e servitù. Antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo, DeriveApprodi, 2015. |
35. | ↩ | F. Lordon, La Société des affects, Seuil, 2013 |
36. | ↩ | G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, 1975. |
37. | ↩ | Intervista a Frédéric Lordon, 14 dicembre 2017. |
38. | ↩ | Intervista a Étienne Balibar, 12 gennaio 2018. |
39. | ↩ | Y. Djedi, «Spinoza et l’islam», Philosophiques, vol. 37, n° 2, 2010, pp. 275- 298. |
40. | ↩ | I. Segré, Le Manteau de Spinoza, La Fabrique, 2014. |
41. | ↩ | Intervista a Ivan Segré, 7 dicembre 2017. |
42. | ↩ | Intervista a Pierre-François Moreau, 8 febbraio 2018. |
43. | ↩ | E. de Jonge, Spinoza and Deep Ecology, Ashgate, Aldershot/Burlington 2004. |
44. | ↩ | E. Viveiros de Castro, Métaphysiques cannibales, PUF, 2009. |