di COLLETTIVO EURONOMADE. 1. Durante la formazione del governo gialloverde, il suo nome fu elevato a epicentro di tutte le preoccupazioni nazionali. Paolo Savona, lunga carriera tra partecipazioni statali e banche, eminenza nelle strategie dell’intervento pubblico della Prima repubblica, era stato promosso dalle fanfare nazionalpopuliste a simbolo della strenua lotta per forzare i parametri di bilancio dettati dall’UE. Con una recente fama di nemico pubblico dell’Europa in nome di un fantomatico “piano B”, innestata però su una ben più radicata nel tempo confidenzialità con industria assistita e sistema bancario, Savona aveva condotto i suoi prodi a rivendicare il grande assalto allo sforamento del rapporto deficit/Pil: 2,4, fissarono come linea del fronte i gialloverdi. Proprio a Savona è toccato dare il segnale alle truppe di abbassare gli scolapasta da combattimento e di accettare la completa resa sul fronte UE. Il realismo si impone: tra rigidità UE e stime di crescita assai rallentate, tutto va rinviato a una futura fase postelettorale. Nel frattempo, la rinuncia a quello che pure era stato sbandierato come obiettivo di bilancio non negoziabile, nientemeno che questione decisiva di “sovranità”, viene accettata tranquillamente da tutto il governo. Chiunque avesse ancora dubbi, è servito: quando il gioco si fa duro, i “piani B” smettono di giocare. L’attacco all’UE nel nome della sovranità nazionale si rovescia immediatamente nell’accettazione dell’odioso ricatto: accettazione davanti alla quale possono fare tutti spallucce, come se niente fosse. E in fondo hanno ragione. Perché, in realtà, non è che l’“assalto al neoliberismo UE” sia fallito: il punto è che non c’è mai stato nessun assalto al neoliberismo. Paradossalmente, hanno ragione: è vero che hanno fatto un gran fracasso sul 2.4 di rapporto Pil/debito e ora va bene anche il 2 o l’1,8., ma la riduzione di risorse disponibili in deficit, non cambia granché la natura della manovra. La rende semplicemente più chiara.

La manovra finanziaria di questo governo è, fondamentalmente, una perfetta esemplificazione della fase autoritaria attraversata da un neoliberalismo che risponde alla sua crisi esacerbando i meccanismi di comando. Le domande sociali che pure avevano animato parte dei consensi raccolti dalle forze di governo – soprattutto la fortissima richiesta di protezione, unita a un sacrosanto disgusto per la classe dirigente, espressa dal Sud con il voto massiccio al Cinque Stelle – sono state letteralmente sacrificate sull’altare del neoliberismo comunitario. E questo non solo per effetto del peso ricattatorio dei vincoli di bilancio UE, pure indiscutibilmente e catastroficamente evidente, ma soprattutto perché tutta la manovra risponde a quelle domande sociali in un modo saldissimamente innestato dentro una torsione autoritaria e disciplinare delle politiche neoliberali. La grande promessa sulle pensioni si risolve, per esempio, nel rimandare a ciascuno il calcolo della sostenibilità dei costi dell’anticipazione del pensionamento: con la strizzata d’occhio alla logica populistico-punitiva della propaganda del “taglio “delle pensioni più alte (che in realtà è soprattutto una mancata rivalutazione delle medie), cui non corrisponde nessuna reale redistribuzione. Il confronto con la determinazione politica, intensamente egualitaria, con cui i gilet jaunes francesi insistono, in ogni rivendicazione, sull’aumento delle pensioni, mostra in tutta chiarezza come tutta l’operazione “quota 100” – al di là dei particolari ancora di là da venire sulla sua applicazione – resti tutta solidamente dentro l’impianto neoliberista.

La vicenda del “reddito di cittadinanza” è ancor più rivelatrice. Cominciata tra le mille incertezze e oscillazioni del M5S, e sempre lontanissima da un reddito di base universale e incondizionato, aveva in partenza almeno il merito di essere meglio finanziata rispetto allo striminzito REI del governo a guida PD, il quale pure aveva provocato file di richiedenti che, solo a saperle guardare, avrebbero già detto molto su quali sarebbero stati i comportamenti elettorali del Sud. Quello che, invece, viene fuori dalla manovra è non solo un mero sussidio di disoccupazione, fortissimamente condizionato e controllato, ma uno strumento di ulteriore flessibilizzazione della forza lavoro, di governo della povertà e della mobilità interna in direzione Sud-Nord, sino al punto di trasformarsi, sotto pressione della Lega, in un incentivo versato alle imprese contro assunzioni anche precarissime e temporanee, sulla scia del tanto deprecato Jobs Act renziano. Lavoratori sfruttati, controllati e però “preferiti” rispetto agli stranieri, contro i quali si inventa il requisito del soggiorno oltre i 10 anni: sempre su impulso leghista ma con il consenso sempre più attivo del M5s, davvero concelebrante di questo “sacrificio” del reddito, sull’altare dei neoliberismi convergenti della Lega e dell’UE. In questo modo, tra l’altro, il governo celebra anche il suo tradimento dell’elettorato meridionale, completato e aggravato dalla retromarcia, sempre in nome di uno sviluppo già scritto e senza alternative, su tutte le promesse sulle grandi opere, dalla TAV al TAP alle trivellazioni, sino all’ultrarivelatrice vicenda dell’ILVA, vero simbolo di continuità serrata con le politiche precedenti.

Una manovra quindi tutta nel segno del governo dei poveri e di una gestione della crisi che, se si distanzia dalla precedente austerity, lo fa solo per segnare un maggiore utilizzo di leve di intervento per rafforzare le linee di inclusione/esclusione e la produzione di disuguaglianze, materialmente e simbolicamente affermata attraverso la ferocia dell’azione governativa nel Mediterraneo. Tutto questo non fa evidentemente nessuna difficoltà a Salvini, che accelera consapevolmente sul programma neoautoritario. Si accetta il compromesso sui livelli di spesa, ma si intensifica ancora il carattere disciplinare degli interventi di workfare. Contemporaneamente, si prosegue con il programma ispirato al più classico “punire i poveri”: la sera stessa della resa alla UE sui livelli di debito, il leader leghista dichiara a tutti (e specie agli alleati…) che la prossima priorità sarà la riforma della legittima difesa. Pochi soldi, molto controllo sociale, meno tasse con la flat tax e magari se serve anche più armi e libertà di usarle. E intanto difesa strenua del decreto sicurezza e insistenza sulla “chiusura dei porti”, mentre, non certo per ultimo, anzi forse norma fondamentale nella restaurazione autoritaria, il disegno di legge Pillon si incarica di minacciare le donne attraverso la sacralizzazione dell’ordine gerarchico della famiglia patriarcale. Insomma: perfetta sintesi della torsione identitaria, razzista e machista del neoliberismo. A sintetizzare in fascismo non si sbaglia di tanto, e comunque si rende l’idea. L’Europa sta a guardare e tutto sommato è ben soddisfatta di non andare allo scontro: ci sarà ancora da battagliare un po’ con questo governo italiano, ma, magari dando un po’ di fiducia ad un redivivo presidente del Consiglio, una qualche mediazione si troverà, specie sulla pelle dei migranti, sempre autentica pietra di inciampo rivelatrice della vergogna comune che unisce i populisti “nazionali” e la governance europea nel loro comune neoliberismo “armato”.

 

2. Il punto decisivo è che proprio questa pace armata e autoritaria tra populisti e UE fa saltare ogni illusione di mediazione. Ogni promessa espansiva è ormai esplicitamente interrotta: la crisi non è più assunta come un passaggio, neanche più come un sacrificio necessario per rilanciare la produttività, ma è presentata semplicemente come un orizzonte permanente di governo. Contemporaneamente, le politiche di attivazione della forza lavoro si trasformano in puro e semplice disciplinamento della povertà. In questo modo, però, ogni organizzazione duratura del consenso diventa impossibile. La richiesta di reddito può anche riversare opportunisticamente il proprio consenso su chi promette protezione: ma è un tipico – e comprensibilissimo, e a suo modo sano – opportunismo precario, che va a caccia di reddito, ma rifiuta ogni pretesa di rappresentanza, di unificazione politica, come è accaduto con il voto al M5S nel Mezzogiorno italiano. Nessuna raccolta di consenso riesce a stabilizzarsi in queste condizioni. L’equilibrio tra controllo e libertà, tra comando e sviluppo, nella prima fase del neoliberalismo, presupponeva comunque un orizzonte “progressivo”. Ora, invece, il neoliberalismo armato non può che farsi mera difesa politica e autoritaria della proprietà contro la cooperazione sociale. La governance – tendenzialmente – si spacca così in dispositivi di comando e in disposizioni alla resistenza, tra i quali il rapporto si rompe, si introduce un elemento di irrisolvibile intransitività. Il problema insolubile, che non conosce mediazione possibile, è che a questa povertà di reddito corrisponde capacità cooperativa, ricchezza comunicativa e cognitiva, biografie densissime di esperienze, trasformazioni, mobilità geografica ed esistenziale, produzione di affettività e relazionalità. Su tutto ciò, il governo della povertà del neoliberalismo armato non può che provare a imporre il comando, non a creare una seppur condizionata capacità di mediazione. Significativamente, l’illusione di una pur estenuata mediazione, di una possibile armonia tra controllata apertura “europeista” e neoliberismo, da giocare come freno al nazionalismo populista, salta anche nel suo modello originario, il populismo di centro di Macron in Francia.

Macron, a sua volta, voltate le spalle al muro della rivolta in nome dell’insostenibilità del saccheggio del lavoro e delle vite esercitato in nome di quella pretesa mediazione, urla che i gilet jaunes hanno cancellato dal loro cuore ogni patto sociale e mostra la faccia della pura repressione, dopo aver visto fallire tutti i tentativi di trovare una forma di concertazione. Salvini in Italia è già in sintonia con questo crollo della mediazione: occupa già consapevolmente il posto di un neonazionalismo ultrautoritario, ma ormai disposto ad elidere i tratti più retoricamente “antieuropeisti” per offrirsi a modello per una governance europea senza più carte “neocentriste” da giocare. La destra non salviniana si allinea: i residui berlusconiani – al sud già da tempo in travaso verso la Lega – si allontano da velleità centriste, e infatti alzano i toni contro migranti e in difesa delle leggi securitarie, a far intravvedere il possibile cambio di maggioranza. Le manovre renziane di costituzione di un macronismo italiano girano nel vuoto: dopo che la mediazione moderata s’è rotta, non c’è più da vaneggiare già implausibili fronti antipopulisti che somiglino a nuovi En Marche o a nuovi Ciudadanos. I Cinque Stelle sbandano allo stesso modo. Il loro progetto populista era quello di una mediazione, in nome del “prima gli italiani”, tra protezione e obbedienza, stabilizzazione conservatrice e protezione sociale: ma ora che salta ogni equilibrio, la promessa di protezione si rivela richiesta di sottomissione al governo autoritario delle vite, la richiesta di cittadinanza si fa sudditanza.

E comincia ad aprirsi la crepa più interessante, tutta ancora da comprendere pienamente: sta di fatto, però, che questo esaurimento della mediazione, sia di quella centrista sia di quella populista, fa riapparire sulla scena una capacità di mobilitazione di una società che recalcitra profondamente alla riduzione autoritaria, che considera ricchezza sia le differenze che l’attraversano sia la capacità di cooperare e di produrre comune. Illuminante è l’immagine del povero Di Maio che lamenta, sconsolato, che invece di pensare ai “diritti sociali” qui si lotta invece per aprire i porti e contro il decreto sicurezza. Fa quasi pena, è stupido quasi come quelli che per una breve stagione hanno furoreggiato come populisti di sinistra: con un’idea tutta loro del “vero” conflitto sociale, del “lavoro” come si deve, degli autentici “diritti sociali”, sempre separati da tutto il resto, un “conflitto” che per loro doveva svolgersi tutto tra nazionali, una cosa tra i garantiti, tutto gestibile dentro l’immaginario “popolo” della sintesi nazionalista. Ma c’è una nuova composizione sociale che, proprio perché nata e cresciuta dentro un intreccio non riducibile di socializzazione dell’intelligenza, degli affetti, della vita e del lavoro, alla fine risulta incomponibile nella riduzione all’unità – sovrana e nazionale – su cui giocavano sia i Cinque Stelle che le variegate ipotesi “populiste di sinistra”. Mentre Di Maio si aspettava le piazze sulla sfida fasulla, tra l’altro fallita, intorno allo sfondamento dei parametri di indebitamento, la lotta emerge invece lì proprio dove si mettono in discussione i confini dell’inclusione, della cittadinanza, le decisioni su quali vite sarebbero centrali e quali no, su chi sarebbe un “vero” cittadino e chi no.

Si delinea, piuttosto, una sfida dai contorni netti tra una cooperazione che ora appare compiutamente come moltitudine, animata e tessuta da differenze e singolarità, e un nazionalismo che si offre come modello europeo di gestione autoritaria della crisi. L’emergere di questa ricchezza di relazioni e di esistenze, di capacità produttive e comunicative, che si sottraggono alla rappresentazione populista e cominciano a far girare a vuoto quella promessa autoritaria, è stata anticipata con grande forza e intelligenza politica dalla mobilitazione femminista, che ha colto in tutta la sua portata l’intreccio tra populismo, chiusura neoautoritaria del neoliberalismo e violenza patriarcale, e non a caso ha posto la sfida radicale sul terreno della sicurezza, mettendo al centro delle sue fortissime e durature mobilitazioni un’idea di reddito e di welfare dell’autodeterminazione e dell’autonomia, contro ogni declinazione securitaria e patriarcale, autoritaria e workfaristica della “protezione”.

Questa composizione sociale ha creato le condizioni perché solidarietà antirazzista e umanitarismo si politicizzassero in una diffusiva pratica della disobbedienza. La netta presa di posizione da parte dei sindaci “disobbedienti” è un evento politico che produce un impatto importante, ma intanto può spingersi alla sfida aperta al ministro dell’Interno perché incontra, all’interno delle città “ribelli”, quella composizione moltitudinaria, sociale e generazionale, che non è richiamabile all’ordine nazional-patriarcale e che moltiplica incroci produttivi con le esperienze e le lotte migranti. Per verificarlo, basta osservare come attorno a piattaforme di tipo “ibrido”, che attraversano in modo diverso impegno politico, volontariato, ricerca, come quella dell’Operazione Mediterranea si siano coagulate solidarietà e attivismi che hanno riacceso entusiasmi e riattivato, in modo espansivo, biografie che avevano attraversato le esperienze dell’Onda, dello sciopero sociale, producendo incontri felici con percorsi diversi.

 

3. A questa emersione moltitudinaria capace di ostacolare il ritorno all’ordine autoritario, a questo irrompere imprevisto, in modalità molto diverse ed eterogenee in Europa, di disobbedienza e di rifiuto dei dispositivi di produzione/governo della povertà, si deve guardare per trovare un modo politicamente saggio di affrontare questo spazio che non riconosce più mediazioni. Fuori da ogni illusione di trovare la chiave per resistere nella difesa delle ultime garanzie della cittadinanza nazionale, un programma contro i nuovi fascismi non potrà che impiantarsi dentro questa composizione emergente, sviluppare quello che emerge già dalle esperienze dello sciopero femminista come dalle lotte sui confini della cittadinanza, dalle lotte precarie, dalle esperienze transnazionali dei lavoratori dentro e contro il capitalismo delle piattaforme e dei nodi della logistica. La costruzione della mobilitazione antirazzista e antifascista nelle città può essere approfondita sino all’incontro con le lotte per un welfare universale, nel segno finalmente non del controllo sociale e della disciplina, ma dell’autonomia e dell’autodeterminazione. Partendo dalle disobbedienze delle città, dalla forza trasformativa di NonUnadiMeno proiettata verso lo sciopero globale dell’otto marzo, la resistenza contro i nuovi fascismi europei si può sostanziare così nella lotta per il reddito di base universale e incondizionato (contro il “reddito di sudditanza” che è venuto fuori dalla manovra finanziaria del governo, ma anche contro l’assoluta incomprensione per la necessità di un reddito sganciato dalla prestazione lavorativa, che caratterizza buona parte dell’opposizione istituzionale); nella rivendicazione di una tassazione autenticamente progressiva, che attacchi seriamente proprietà e patrimoni; nella rivendicazione della libertà di muoversi e di stabilirsi e di diritti fondamentali legati alla residenza e non alla cittadinanza; di un welfare universalista delle persone e non solo dei “salariati”, o delle “famiglie” e tantomeno dei “capofamiglia” (maschi); dell’accesso gratuito a mobilità e a comunicazioni, della gratuità della formazione avanzata, della riconversione ecologica…

Insomma le lotte antifasciste possono sviluppare un buon programma intelligentemente “riformista”, che può tracciare un orizzonte generale, una riapertura di una prospettiva programmatica di una politica del comune: un orizzonte comunista per la ricomposizione di una classe profondamente segnata e trasformata dall’intersezionalità delle lotte e dalla differenza. Una prospettiva comunista che si fa tanto più realisticamente necessaria e irrinunciabile, quando ogni pretesa “liberale” di mediare austerità e mantenimento dell’equilibrio europeo sta rapidamente saltando, e l’alternativa si pone tra lo sviluppo di queste lotte per il comune o l’accentuazione, in senso neo-nazionalista e patriarcale, della violenza estrattiva del capitale. È essenziale, tuttavia, che alla massima determinazione nel perseguire questa alternativa, e alla capacità di individuare un livello di mobilitazione all’altezza delle esigenze di liberazione di una composizione sociale così variegata, complessa e matura, corrisponda anche la saggezza politica di rispettare la sua irriducibilità alle vecchie sintesi organizzative e/o rappresentative.  Diventa imprescindibile mantenere, riguardo alla forma  politica di una tale composizione di forze per il comune, un’attitudine massimamente aperta e sperimentale: il passaggio dall’emersione delle resistenze alla loro organizzazione è tutto da ripensare, senza alcuna nostalgia per le forme del “politico” classico, in una forma che si ridefinisce nelle città, nelle disobbedienze, nelle piattaforme, nelle infrastrutture di solidarietà che nascono – a guardare alle strade delle periferie francesi si direbbe anche letteralmente! – a ogni crocevia. Solo una capacità di sviluppare risonanze e connessioni tra stili e livelli di azione eterogenei potrà in questo momento bloccare le onde nere e riaprire, com’è necessario, un orizzonte comunista molto più che qualsiasi nostalgia astrattamente riunificante.

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