di OMID FIROUZI TABAR.
Proviamo a venire subito al punto. Oggi, per leggere politicamente il contesto italiano, diventa più che mai necessario non traballare nemmeno un istante e assumere con decisione una delle costanti, potremmo quasi dire metodologiche, dell’approccio foucaultiano e della cultura politica operaista (e problematicamente chiamata post-operaista) a cui siamo storicamente più affezionati per la sua potenza interpretativa. Naturalmente, parliamo di quello sguardo interpretativo sulla realtà sociale segnato dall’idea che essa muti incessantemente per via di una costante – ma non per questo lineare o simmetrica – tensione, sempre aperta, tra ribellione e comando, tra resistenze e controllo; che essa si riconfiguri senza sosta a causa di molteplici e spesso poco appariscenti conflitti, negoziazioni, compromessi e scontri violenti tra le soggettività che tendono alla materiale conquista della libertà e dell’autodeterminazione e dispositivi di controllo al soldo della governance capitalistica europea e globale. È, soltanto, nell’immanenza delle lotte e delle resistenze, e nelle pieghe delle loro motivazioni e strategie, che possiamo individuare lo stato di salute di questo processo conflittuale tra forze, posizionamenti e relazioni di potere e, naturalmente, nella capacità del capitale di individuare di volta in volta efficaci tecnologie di comando e assoggettamento, preventive o repressive, riformiste o autoritarie. Ribadire che non c’è potere senza resistenza non è riproporre uno slogan, ma al contrario vuole indicare la natura di processi violentemente reali e attuali.
Salvini e Orban e la loro avvilente retorica fascista sono in buona parte una risposta – tutta interna alle esigenze di governance del capitale finanziario – alle resistenze diffuse dei migranti e all’esistenza stessa dei movimenti migratori, alle mobilitazioni di soggetti solidali in alcune città ribelli e, in termini più generali ma non per questo più astratti, a quell’autonomia delle migrazioni che è potenziale terreno per la costruzione di un Europa meticcia. Le loro soluzioni di gestione dei movimenti migratori sono, tra l’altro, segnate dall’esigenza di dare vita a un rinnovato esercito di riserva costituito dalla figura del richiedente le cui potenziali capacità di ribellione ed emancipazione, proprio nel terreno della messa al lavoro, devono essere oggetto di adeguati soluzioni di controllo e disciplina.
È un enorme campo di avanzamenti e arretramenti, mai uguale a se stesso, di salti e spostamenti laterali, di strappi e di attese, una dimensione spaziale e temporale mai del tutto pacificabile dove nulla si modifica e nulla si muove per via di interventi “esterni”. Non sarà l’Europa a salvarci (si intende quella delle banche, delle burocrazie e della finanza), e nemmeno lo Stato, la compassione umana o la carità cristiana, e nemmeno partiti, sindacati, soprattutto se tradizionali. E non ci salverà Saviano questo è sicuro! Nessuna sorte, tantomeno bella e magnifica, nessuna trascendenza, e pochi riscontri di “nuda vita”, di “non persone”. Piuttosto, un corpo a corpo dove le resistenze ibridano istinto, passione e tattica, ora muovendosi in quanto singolarità, trovando punti di fuga e liberazione individuali, ora scoprendo e rafforzando le strade della cooperazione, dell’azione collettiva, della costruzione di pezzi di “comune” e della ricomposizione. Tutto questo non afferisce a un piano di analisi astratto, non trascende nemmeno un istante i rapporti materiali di potere che nei territori si stanno dando: essi vivono un quotidiano animarsi di scontri, attriti e conflitti tra il feroce dispositivo populista che oggi turba profondamente i nostri pensieri e forme ( non sempre facilmente decifrabili e spesso frammentate) di fuga e ribellione prodotte dai migranti stessi e da una galassia di soggettività che, talvolta, con forme e linguaggi a noi poco familiari rendono, per l’appunto, il campo tutt’altro che immobile e pacificato. A dirci questo non è soltanto il recente sfondamento delle barriere di Ceuta e Melilla, le prime ribellioni nei campi libici, la coraggiosa ostinazione dei migranti a cercare lo sbarco e l’attraversamento dello spazio europeo, le diffuse e spesso radicali proteste dei richiedenti “ospitati” nei CPA, le rivendicazioni degli stessi per avere accesso all’istruzione e a nuove forme di welfare o le lotte dei braccianti nel sud. A indicarci le possibili future fisionomie di questo campo aperto sono le relazioni, le cooperazioni e i processi di mobilitazione che – spesso sottotraccia e raramente con il favore dei media – si stanno sviluppando diffusamente e che, giusto per fare un esempio, rappresentano quel mosaico sperimentale che, anche grazie all’intelligenza politica dei suoi promotori riluttanti alle vecchie dinamiche identitarie e autoreferenziali, sono sfociate in quella bella boccata d’ossigeno rappresentata dalla manifestazione tenutasi a Ventimiglia il 12 luglio.
Il “nostro” arretramento e l’orientamento dalla tendenza pericolosamente egemonica del dispositivo populista e razzista, di cui la governance capitalistica si sta servendo, deve essere letto alla luce della irriducibile presenza di queste soggettività che non si rassegnano e che, con enorme difficoltà, resistono alla miseria dei tempi presenti. L’attacco populista, è inutile cercare di nasconderlo, ci sta facendo fare passi indietro e perdere terreno, dobbiamo riconoscerlo con pragmatismo: anche questo vuole dire essere all’altezza delle trasformazioni del capitale. La diffusione e ancora la normalizzazione di comportamenti e culture razziste, la forza disarmante del dispositivo sessista e patriarcale, si accompagnano a una sorta di “occultamento” della questione di classe e della cristallizzazione della rabbia dei soggetti impoveriti intorno al più classico dei capri espiatori, lo straniero. In particolar modo, i richiedenti sono schiacciati tra infantilizzazione, assistenzialismo caritatevole e inferiorizzante, e segregazione violenta nei campi: è questa condizione a sovra-esporli a vecchie e nuove forme – quali la diffusione dei lavori socialmente utili, naturalmente, a titolo gratuito – di iper-sfruttamento lavorativo. D’altro canto si stanno infrastrutturando nuove tecnologie di criminalizzazione e stigmatizzazione che includono lo straniero tout court, sempre più a prescindere dalla sua condizione di irregolare, richiedente, rifugiato ecc., fino ad abbracciare migranti di seconda o terza generazione. Il migrante diviene corpo sacrificale su cui si traccia, funzionalmente alle esigenze della governance capitalistica, lo stigma della pericolosità che struttura un razzismo senza precedenti e simultaneamente lo trasforma in corpo – ad alta ricattabilità – docile e disciplinato a forme di violenta inclusione differenziale nel mercato del lavoro.
Il desiderio di autonomia e libertà dei migranti non può realizzarsi senza una, oggi più che mai, urgente costituzione di spazi nuovi di confronto e cooperazione politica nei quali poter sperimentare insieme una nuova grammatica del conflitto e una nuova postura politica all’altezza delle trasformazioni che viviamo intorno a noi. Migranti, operatori, mediatori, avvocati, precari, militanti delle vecchie e nuove espressioni dei movimenti autoganizzati, studenti, artisti, certi sindacati, parti del mondo cattolico e infine, molto più raramente, alcune espressioni istituzionali dei territori, stanno già producendo resistenze e conflitti che solo a partire dal loro potenziale ricompositivo possono trasformare un attivismo dalle caratteristiche potenzialmente e pericolosamente compatibile e sussumibile, in ribellioni costituenti di tipo innovativo e dal carattere rivoluzionario. La sfida è certamente quella di respingere la strisciante ombra xenofoba resistendo e ricompattando il più possibile le forze democratiche e antirazziste, ma la vera posta in gioco è la costituzione di connessioni ed alleanze nelle città che sappiano alludere direttamente a nuovi diritti e nuove forme di welfare direttamente funzionali ad armare le lotte di una società meticcia, assumendo senza mediazioni una prospettiva transnazionale. Lavorando dal basso e mettendoci a disposizione delle nuove forme di autorganizzazione già presenti e sfruttando senza timori certe opportunità aperte da alcune istituzioni locali dobbiamo cercare, non solo di respingere indietro il populismo, ma di spingerci a evocare nelle pratiche reali lungo i territori il suo superamento nella direzione della costruzione di forme di vita e di comunità e città ribelli, create dall’intreccio tra soggettività molteplici, che di questo tetro presente nulla vogliono difendere.
Non è, però, attingendo alle vecchie – e anche le più recenti – forme e metodologie della nostra organizzazione politica che questa prospettiva ambiziosa può avere chance di riuscita.
Nel fare questa immersione nel corpo vivo della società, nel setacciarla in cerca di espressioni e progettualità virtuose da conoscere e con cui misurarci dobbiamo avere un primo, essenziale, accorgimento di cui da tempo si sta discutendo in molte parti. L’obsolescenza dei “movimenti organizzati” – per come li abbiamo animati e conosciuti negli ultimi anni –, il forte blocco della loro potenza sperimentale, la loro bassa capacità non solo di leggere le trasformazioni sociali, ma anche di interpretare e implementare le lotte che si manifestano nei territori, e una loro possibile deriva identitaria e autoreferenziale, ci indicano l’urgenza di rompere definitivamente gli indugi e di andare oltre a noi stessi, di strapparci dalle nostre pratiche stantie e abitudini metodologiche e di sperimentare paradigmi organizzativi rivoluzionati, strettamente agganciati a ciò che intorno a noi si sta muovendo. È ancora il tema dell’Organizzazione a essere al centro e su questo dobbiamo, con una certa urgenza, aprire rinnovati spazi di confronto, ma anche di sperimentazione.
Si tratta prima di tutto d’essere sì all’altezza dell’attacco capitalistico alle nostre vite, ma soprattutto all’altezza dei nuovi claim emergenti, dei profili soggettivi e delle relative forme di espressione e rivendicazione che questi danno vita nei territori. Non si tratta però, si badi bene, di consegnarsi rinunciando al nostro discorso e abdicando ai nostri quadri interpretativi. Dobbiamo tornare ad affilare la nostra analisi teorica e strategica e munirci di questa quando ci affacciamo, attraverso nuove forme più adeguate, a questo campo innervato di contro-condotte e desideri. E dunque, in questo senso, non è solamente riconfigurando le forme del nostro agire politico sui territori che facciamo il vero salto di qualità. Dobbiamo anzi “contaminare” radicalmente il campo delle lotte e resistenze con una postura intersezionale che non faccia sconti alle tentazioni meramente resistenziali o ancor peggio rinunciatarie e conservatrici. Non è guerra di posizione questa, ma guerra a tutto campo, dove inseguire il nemico stando sul suo stesso piano semantico – e non solo – e seguendone lo stesso canovaccio narrativo è garanzia di una futura resa.
Il pericolo che oggi rischiamo di correre, che non dobbiamo eludere, ma affrontare senza timidezze, è che il senso di frustrazione dovuto all’asfissiante diffusione e normalizzazione di atti e pulsioni razziste (governative o private) arrivi a spingerci a negoziare con la cultura populista esponendo la nostra riflessione politica ad alcuni suoi quadri strategici di riferimento. Questa minaccia si annida, più di quanto si possa immaginare, negli interstizi del nostro spazio di azione politica, anche in seno a interessanti forme resistenziali e progetti alternativi. Si presenta, ad esempio, ogni qualvolta cediamo anche un solo piccolo passo alle pulsioni stataliste e sovraniste. Non sarà lo stato a salvarci per il semplice motivo che non siamo interessati a nessuna prospettiva sociale e storica che, nella considerazione di ciò che riguarda il lavoro, il reddito, l’autodeterminazione dei soggetti, i diritti e il welfare scelga di avere attenzioni e spendere risorse (comunque poche e pianamente dentro le esigenze di valorizzazione del capitale e della sua sopravvivenza) esclusivamente per una parte razzialmente selezionata dei soggetti e cioè i cittadini italiani, meglio se bianchi. Lo stato, le sue istituzioni e le sue leggi sono un corpo morto impregnato di violenza e sopraffazione che non solo riproducono pedissequamente il ruolo per cui esistono e cioè quello di difensori dei privilegi di una società razzista, sessista e divisa in nuove classi, ma hanno a più riprese abdicato anche al ruolo di governance delle nuove dinamiche sociali. Ne è la dimostrazione la centralità di strumenti amministrativi, informali e ibride di controllo e produzione di soggettività come gli hotspot e le molteplici tecnologia di comando che costituiscono l’accoglienza straordinaria dei richiedenti. Che cosa dovremmo fare? Fare il tifo per uno stato sovrano che condanni e incarceri Salvini insieme a Minniti? Appellarci alle leggi penali, affinché dentro i confini sovrani ci sia più giustizia, magari processando al meglio qualche “mela marcia” che specula nell’umanitario? Le leggi e le istituzioni della sovranità, laddove prevedono diritti e garanzie per la libertà dei soggetti, possono anche essere usate a nostro vantaggio, ma solo e soltanto se il loro utilizzo è simultaneamente accompagnato da processi materiali di lotta manifestamente orientati al superamento dei lacci e delle trappole del sovranismo stesso. Altrimenti si finisce dritti dritti a chiedere più case per gli italiani, più asili per i “nostri” figli, più “sicurezza” per le nostre donne, più ordine e meno degrado. La rivendicazione di potere per il popolo – che per definizione non può che essere sovrano – è solo uno dei tanti esempi, quello più appariscente, di come la tragica tentazione populista si possa annidare dappertutto e che l’allerta deve essere sempre al massimo. Non bisogna cadere in tentazioni, nemmeno un istante. Stato, sovranità e – dunque – confini: ecco una parola chiave. Confine come strumento sempre più mobile e malleabile di esclusione, selezione e controllo, ora dispositivo di espulsione e segregazione, ora dispositivo sempre violento, ma maggiormente “produttivo” di inclusione differenziale di persone da intrappolare nei circuiti dell’ipersfrutamento. Le vicende degli ultimi tempi, che riguardano Ventimiglia e la questione degli sbarchi nel mediterraneo, ci fanno capire sempre meglio quanto una certa gestione del confine, di questo dispositivo grondante sangue, rappresenti la colonna portante delle violente politiche populiste su scala nazionale ed europea. Stato, sovranità, confini: l’uno rimanda necessariamente all’altra e nessuno può avere esistenza senza gli altri; ben se lo ricordano i populisti di destra, lo facciano anche quelli di sinistra. Ma c’è da insistere troppo a lungo su questo, la “variante populista” ha avuto molti spazi di discussione e risulterebbe facile smontarne pezzo a pezzo le ragioni.
In molti abbiamo fatto una scelta precisa, al costo di risultare – per l’appunto – impopolari: la scelta di non farci tentare nemmeno nei momenti di disorientamento maggiore.
Si tratta, come è stato puntualmente ricordato in un recente contributo pubblicato su questo sito [⇒ qui], di “rifiutarsi di balbettare il lessico della sovranità e del confine”, perché farlo vorrebbe diventare immediatamente complici delle sopraffazioni e violenze che questi dispositivi sprigionano. L’ostilità al populismo è fatta di scelte nette e irrinunciabili, incarnate nelle relazioni e nell’intreccio di rabbie e desideri che viviamo e nelle materiali prospettive per le quali lottiamo. Si materializza ad esempio intorno a una questione cruciale e cioè intorno alla lotta al dispositivo patriarcale e sessista un asse imprescindibile intorno a cui orientare le nostre condotte e le nostre scelte politiche in ogni loro dettaglio. Un dispositivo di potere e assoggettamento – cuore pulsante del populismo – talmente insidioso e performativo che basta un piccolo passo indietro, una piccola svista o disattenzione che rioccupa violentemente la scena riguadagnando il suo violento ruolo nello spazio pubblico, nei comportamenti, nelle scelte, nelle modalità relazionali e nelle strategie di molti attori sociali, anche nel campo delle resistenze. Le recenti mobilitazioni globali ed italiane ci hanno trasmesso un messaggio chiaro e non derogabile, una lotta è femminista o non è lotta che ci possa interessare, su questo non ci deve più essere spazio alcuno di ambiguità e tentennamento. E non devono essercene quando, connettendoci con le soggettività e le istituzioni locali che progettano alternative antirazziste e solidali, dovesse affacciarsi lo spettro postcoloniale dell’infantilizzazione del migrante così caro a quel popolo bianco che proprio nel prendersi cura del migrante inteso come vittima e soggetto debole ribadisce la sua superiorità imponendo un’idea razzializzata e passivizzante di integrazione e inclusione. È assolutamente vero, ricorrendo nuovamente al contributo citato sopra che “Ciò che le lotte dei migranti ci consegnano – tanto sul piano dell’ostinazione con la quale pongono in essere il loro progetto di fuga, quanto su quello della soggettiva capacità di sottrazione alla violenza dei rapporti di produzione – è tutt’altro che un paradigma vittimario”.
Molte espressioni dell’umanitarismo assistenzialista (legato in primis al mondo cattolico, ma anche a pezzi di sinistra tradizionale) tendono a neutralizzare la forza conflittuale ed innovatrice che l’autonomia di alcune soggettività emergenti può imprimere ai territori ed propria questa una delle posture che dobbiamo combattere entrando a piedi pari con la forza evocativa del nostro impianto discorsivo, attraverso la continua ricerca, ma soprattutto coinvolgendo in prima persona gli stessi migranti che questa pericolosa tendenza rifiutano diffusamente. Il nesso intersezionale tra mobilitazioni antirazziste e i nuovi movimenti femministi diventa a questo punto uno snodo imprescindibile per le sfide del presente ed è su questo che dobbiamo discutere e confrontarci.
Naturalmente, lo abbiamo ricordato anche prima, evitare le trappole populiste non è sufficiente, ma base imprescindibile per riconoscere e contribuire a ricomporre virtuosamente i mosaici delle resistenze e dei conflitti, per individuare nuove tendenze comuni in divenire che evochino in prospettiva una società meticcia, solidale, femminista e libera dalla parassitaria estrazione di valori dai nostri corpi e dalle nostre vite intere!