di ANTONIO NEGRI.
Recensione di: Peter D. Thomas, The Gramscian Moment. Philosophy, Hegemony and Marxism. Historical Materialism Book Series, Vol. 24, Brill, Leiden-Boston, 2009.
Il libro di Peter D. Thomas è innanzitutto importante perché traduce, dall’Italia al mondo, il pensiero di Gramsci, introducendolo in particolare sulla scena anglofona. Lo scopo del lavoro di Thomas è esplicitamente quello di aprire il dibattito su Gramsci all’interno del marxismo anglosassone, luogo oggi centrale nell’elaborazione della filosofia marxista. Inutile aggiungere che, a questo proposito, egli sviluppa una lettura di Gramsci non solo adeguata al rinnovamento degli studi compiuto dopo la pubblicazione integrale dei Quaderni e dell’epistolario a metà degli anni settanta, ma ricentrata ed arricchita dal confronto con la letteratura più rilevante (Althusser e Anderson) che ha, per così dire, costruito l’experientia crucis nella transizione atlantica di Gramsci.
Qualche osservazione sull’interpretazione gramsciana di Thomas. Voglio subito dire che mi convince solo parzialmente il passaggio attraverso Althusser. Sia la liquidazione iniziale di Gramsci in Lire le Capital, sia l’ambiguo avvicinamento nell’ultima fase del suo pensiero (la cosiddetta “filosofia dell’incontro”) avvengono all’interno di un apparato epistemologico (tipicamente francese e connesso alla critica del linguaggio scientifico della scuola di Canguilhem) estraneo al marxismo gramsciano. Bisogna comunque riconoscere che Thomas non gioca molto sulle similitudini, anzi, schiettamente le rinega. Ma perché allora questo confronto? Perché – a detta di alcuni althusseriani – questo episodio (lo scontro Althusser-Gramsci) costituirebbe “l’ultimo grande dibattito” attorno alla definizione della “filosofia” di Marx. Ma questo dibattito fu davvero tanto importante?
Molto più convincenti sono invece l’approccio di Peter Thomas alla lettura del Gramsci di Anderson e la conseguente critica. Anderson, nel suo importante scritto “The Antinomies of Antonio Gramsci” del 1976, sosteneva che “le ricerche di Gramsci in carcere fossero caratterizzate da una seria di ambiguità che avrebbero originato una progressiva trasformazione e deformazione delle sue tesi, in particolare di quelle riguardanti lo Stato e del suo centrale concetto di egemonia”. Secondo Anderson l’errore dunque sta nel manico ed originaria è la conseguente ambigua molteplicità degli usi del pensiero gramsciano. Il concetto di “rivoluzione passiva” rappresenterebbe, in particolare, uno scivolamento di Gramsci verso Kautsky; il concetto di egemonia, in secondo luogo, esprimerebbe una soverchia insistenza sulla potenza della società civile contro il potere statale (tesi che anche Bobbio aveva hegelianamente sottoscritto), ecc. Non sarà difficile (anche se laborioso) per Thomas rintuzzare queste interpretazioni che pur sono divenute opinioni ferme e diffuse nel pensiero anglosassone.
Ora, Thomas contesta sia filologicamente (essenzialmente sulla base dell’ottimo contributo di Gianni Francioni) che politicamente la lettura critica che Anderson fa di questi concetti fondamentali e ne ricompone, invece, una figura sostanzialmente nuova e forte. Lo fa in maniera efficace (val la pena, incidentalmente, di ricordare che questo libro riproduce, per l’intensità e l’acribia del suo incedere, la grande tradizione marxologica tedesca e russa – cosa che ne conferma la validità scientifica). Dunque, selezionando alcuni motivi di questa opera, a me sembra ottima la discussione del concetto di “rivoluzione passiva” che ci è offerta, con risonanze che superano la semplice ricostruzione e che ci trasferiscono su un terreno ormai “biopolitico”. Vale a dire che qui la “rivoluzione passiva” della borghesia è mostrata attraverso passaggi molecolari, fissati e riconfigurati nella durata – passaggi che incidono egualmente (e reciprocamente, cioè dialetticamente) sulle strutture e sulle soggettività del processo storico. Sono particolarmente sensibile a questa definizione di “rivoluzione passiva” – uno strumento concettuale del quale fui, più o meno consapevolmente, un utilizzatore nel mio sforzo di descrivere, fra Descartes e Spinoza, la genesi dell’ideologia borghese, fra accumulazione primitiva del capitale, configurazione dello Stato assoluto ed alternative repubblicane.
Altrettanto forte e completa è l’analisi che Thomas conduce del concetto di “egemonia”, quando ne costruisce l’originalità sia a fronte della storia prerivoluzionaria della Russia sia a fronte delle esperienze del bolscevismo costituente e fino alla Nep. Questa originalità consiste nel rifiuto radicale di considerare l’egemonia come una teoria generica del potere sociale e nel collegarla invece alla definizione della “forma-Stato”, così come essa è venuta configurandosi nel mondo occidentale, e nelle sue rivoluzioni. Rinata nella figura della dittatura del proletariato, l’egemonia è un’arma da conquistare e da applicare nel processo di lotta per la realizzazione del socialismo. Anche qui l’analisi gramsciana integra momenti di estrema preveggenza nel considerare l’egemonia proletaria come radicamento su un contesto biopolitico (quello dovuto all’esperienza rivoluzionaria di classe operaia) ovvero – di contro – come espressione della dittatura della borghesia, del fascismo, egemonia che dallo Stato investe la società, configurando quest’ultima come “biopotere”. Me è solo il primo concetto di egemonia, quello di classe, che contiene quella potenza costitutiva che lo rende un dispositivo ontologico. In questo mio uso di categorie foucaultiane, non mi sembra di strapazzare le categorie gramsciane. Credo il contrario di dare, con questi riferimenti, ancor più attualità alle innovazioni interpretative di Thomas (sarebbe davvero tempo che qualche studioso ripercorresse il pensiero di Gramsci dal punto di vista foucaultiano).
Bon, una volta condotto a termine questo lavoro di ridefinizione dei concetti, andando oltre le tradizioni interpretative fin qui consolidate, Thomas cerca di comporre una definitiva figura del pensiero gramsciano. Mi permetto di riprendere a questo proposito un brano conclusivo di Thomas: “storicismo assoluto, immanenza assoluta e umanesimo assoluto. Questi concetti dovrebbero essere guardati come tre ‘attributi’ di un progetto (costitutivamente incompleto) di sviluppo di marxismo come filosofia della prassi. Presi in una dinamica in fertile interazione, questi tre attributi possono essere considerati come brevi dispositivi per l’elaborazione di un programma di ricerca autonomo per una filosofia marxista dell’oggi, come un intervento nel Kampfplatz di una filosofia contemporanea che tenti di aderire e di rinnovare l’originale gesto critico e costruttivo di Marx”. È dunque sul terreno di un’assoluta riduzione dei concetti alla storia che diviene possibile una grammatica aperta e traducibile per l’organizzazione egemonica delle relazioni sociali. È sul terreno dell’immanenza, del rifiuto di ogni forma di trascendenza che una pratica sociale può costruirsi come teoria, meglio, stabilire la costituzione di mutua e produttiva correlazione fra teoria e pratica. Ed infine, è solo un assoluto umanesimo che può porre le basi della realizzazione di una opera dialettico-pedagogica di egemonia – “in altre parole, la nozione di una nuova forma di filosofia come elemento nello sviluppo di un apparato egemonico alternativo di democrazia proletaria”.
Una sola osservazione, per finire. Perché mai questo pensiero gramsciano, così ricostruito, dovrà ancora rappresentarsi come una “filosofia”? Meglio, la praxis, il pensiero che la configura dentro i parametri dello storicismo, dell’immanenza e dell’umanesimo, possono ancora essere definiti come “filosofia”? La filosofia non diviene invece un’illusione insostenibile, uno strumento inutilizzabile una volta che quei criteri – storicismo, immanenza ed umanesimo – siano stati assunti come categorie della riflessione nella praxis? Che cos’è più infatti la filosofia quando siano stati distrutti i suoi riferimenti alla trascendenza del teologico-politico ed alle residue tematiche della secolarizzazione? La filosofia ormai costituisce – questo è il mio parere, confermato da un gramscismo alla Thomas – un relitto, buono o cattivo, una variante più o meno reazionaria del tentativo della borghesia di comprensione del suo proprio destino. Ma allora, una volta ricollocato il pensiero laddove Thomas lo colloca, perché voler conclusivamente considerare Gramsci un filosofo? Sarebbe mai interessata questa qualificazione a Gramsci stesso? L’oggetto dellapraxis non è filosofico ma storico, immanente, umano – dunque rivoluzionario. Il Gramsci di “Americanismo e fordismo” sottolinea: “in America, la razionalizzazione ha determinato la necessità di elaborare un nuovo tipo umano, conforme al nuovo tipo di lavoro e di processo produttivo.” È il continuo rivoluzionamento dell’uomo che la praxis addita.