di MIGUEL MELLINO.
You can crush us
You can bruise us
But you’ll have to answer to
Oh-the guns of Brixton
The Clash, London Calling (1979)
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Dobbiamo iniziare con un’affermazione diretta e provocatoria: nonostante l’ascesa di partiti e ideologie che rilanciano xenofobia e sentimenti anti-immigrazione come risposte necessarie all’Europa in crisi – vedi il recente referendum svizzero sulla questione – razzismo e anti-razzismo continuano a essere trattati dai movimenti europei in generale e italiani in particolare come argomenti “accessori”. Per accessorio non itendo semplicemente “secondario”, ma qualcosa di diverso, e per certi versi più problematico. “Accessorio” sta qui a indicare il fatto che razzismo e anti-razzismo vengono spesso semplicemente “aggiunti” – in modo lineare e pacificato – a un’agenda politica che si sta costituendo a partire da altri argomenti e lotte specifiche considerati come più strategici o all’ordine del giorno. Le “contro-narrazioni” della crisi ci sollecitano a “re-immaginare” l’Europa – a de/scrivere la sua crisi attuale, e a pensare una possibile ricomposizione politica – partendo dalle lotte contro l’austerità, contro la precarietà, contro il debito, contro il blocco della libertà di movimento dei migranti, contro i confini, contro la violenza finanziaria, contro la mercificazione progressiva di ogni “bene comune”. Basti pensare all’agenda politica abbozzata all’interno di due degli eventi più importanti di questi giorni: la stesura della carta di Lampedusa e il dibattito attorno alla candidatura di Alexis Tsipras alla Commissione Europea. Possiamo davvero dire che all’interno di questi due spazi il posto occupato dall’antirazzismo come pratica teorica e politica sia all’altezza dei tempi? In altre parole, possiamo dire che il discorso antirazzista uscito da questi due spazi abbia una centralità davvero inversamente proporzionale alla forza del vento razzista che soffia sull’Europa? La risposta mi sembra ovvia, e il suo effetto paradossale: mentre la destra (e non solo) politicizza sempre di più il razzismo come modalità di governo della crisi, l’antirazzismo dei movimenti, relegato a elemento “accessorio”, appare sempre più spoliticizzato. Come spiegare questa situazione? Ripropongo due tesi piuttosto note e discusse, ma mai affrontate fino in fondo, soprattutto in Italia: a) la ricerca della “tendenza” più avanzata del “ciclo attuale di accumulazione” e quindi di un “Soggetto” chiave nella trasformazione insieme a b) la mancata decolonizzazione dell’inconscio, della cultura e dei saperi occidentali nel periodo post-coloniale non stanno facendo che alimentare in Europa quello che possiamo chiamare un’epistemologia politica “race-blind”. Mancata decolonizzazione sta qui a significare mancata problematizzazione delle proprie categorie teorico-politiche a partire dal definitivo “venire alla rappresentazione” del supplemento della razza (Hall 1988).
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Ma cerchiamo di spiegare meglio. Adottando un linguaggio teorico ormai diffuso, si può dire che la contro-narrazione europea sta prendendo corpo come movimento costituente a partire dalle lotte contro i nuovi dispositivi di “accumulazione per espropriazione” (per stare alla nota definizione di Harvey) di ciò che viene sempre più denominato come “capitalismo estrattivo”. L’espressione “capitalismo estrattivo” sta a sottolineare qualcosa di piuttosto specifico: non solo la violenza materiale di una logica di accumulazione fondata sull’appropriazione delle diverse forme della “richezza sociale”, ma soprattutto l’aspetto “escludente”, “predatorio” ed “espropriatorio” del capitale globale contemporaneo, ovvero il fatto che la sua articolazione materiale dominante non appare più imperniata sull’integrazione soggettiva attraverso il lavoro salariato, la cittadinanza e il consumo (inteso qui come accesso allo “stile di vita” dominante anzichè come mera ricezione di merci, materiali e immateriali). Se si accetta questa concettualizzazione dell’attuale esercizio del comando capitalistico – il divenire “nuovamente” estrattivo del capitale – non è difficile concludere che l’intelaiatura del capitalismo globale contemporaneo viene a costituirsi a partire dall’articolazione di una molteplicità di processi di “inclusione differenziale” (gerarchizzazione) di soggetti, territori, saperi, culture. Aihwa Ong, per esempio, ci chiede di pensare quale tratto distintivo del “capitalismo postcoloniale” la produzione di “sovranità graduali”. Meno chiaro però, sia nella prospettiva di Ong sia nei discorsi correnti (o meno presente, nonostante tutto ciò che si è scritto sul “colonialismo come laboratorio di modernità”, per riprendere l’espressione di Sandro Mezzadra) è il fatto che questa logica di accumulazione globale non può essere spiegata senza prendere in considerazione “il divenire coloniale del capitalismo” durante la fase moderna della sua espansione, ovvero il suo intreccio sempre più costitutivo con logiche di dominio coloniali, razziali, e imperiali. Un contributo importante sul rapporto di “dipendenza storica” del capitalismo dal colonialismo – e quindi dalle lotte anticoloniali dei soggetti razzializzati – ci viene da Couze Venn nel suo The Postcolonial Challenge (2005). Quello che vogliamo ribadire è che il capitale globale contemporaneo resta imperniato su logiche coloniali, imperiali e razziali di dominio; e questa “colonialità del comando capitalistico globale” – per riprendere l’espressione di Anibal Quijano (2001) – è un aspetto che nè le analisi di David Harvey, nè il dibattito più generale sulle nuove logiche di accumulazione del “capitale finanziario” mettono adeguatamente in luce. Proprio per questo, credo sia importante mettere a critica l’attuale discorso antirazzista europeo. Mi sembra importante per affrontare, per esempio, il dopo Lampedusa, senza sopravvalutare nè sottovalutare la produzione della Carta come evento. Diciamo subito che la “Carta di Lampedusa” può certamente costituire un riferimento importante nella costruzione di un’altra Europa, ovvero di una contronarrazione politica transnazionale da opporre al riemergere del fantasma della sovranità come risposta reattiva alla crisi. Non solo: Lampedusa, con tutte le sue contraddizioni, può essere vista come un passaggio importante per cominciare a codificare, dal basso, un’Europa del comune. E’ estremamente significativo poi che l’Europa costituente riparta proprio da Lampedusa, un luogo divenuto significante chiave dell’Europa postcoloniale. Credo sia importante “nominare” l’Europa in questo modo. Postcoloniale qui non è semplicemente un altro significante, ma sta a connotare un soggetto (l’Europa) che non può pensarsi e ripensarsi senza chiamare in causa il suo passato coloniale, ovvero gli effetti materiali e culturali sul presente di un passato rimasto irrisolto. Ed è chiaro che questo “passato coloniale” si rifrange oggi, in forme diverse dal passato, sul governo europeo delle migrazioni. Ricorrendo a una nota espressione di Lacan, si può dire che il significante postcoloniale barra il soggetto Europa: lo attraversa e lo deborda ricollocandolo o riscrivendolo come soggetto “storico”, lo apre e lo decompleta; lo provincializza, potremmo dire con Chakrabarty. Postcoloniale come significante sta qui a indicare che la costituzione dell’Europa come “significante padrone” per altri “significanti schiavi” (e’ cosi che si puo’ leggere il soggetto a partire da Lacan) si è data dentro (e non fuori) l’esperienza coloniale. Etienne Balibar (2004), anche se da una prospettiva diversa, ha insistito sulla centralità dell’Europa coloniale nella produzione strategica dei “confini” come dispositivi essenziali del comando capitalistico moderno. Per questo, non finisce di stupire il fatto che all’interno dei movimenti tanto il dibattito sulla “cittadinanza europea” quanto quello sulla “crisi dell’Europa” non venga mai posto in una prospettiva storica. E su questo punto Lampedusa non ha fatto eccezione al processo eurocentrico di “rimozione”. Il discorso della Carta pone i confini – in quanto dispositivi di controllo e di sfruttamento del capitale globale contemporaneo – come causa del razzismo (istituzionale, dei media, mentre non si fa alcun riferimento al razzismo “popolare”, quello sedimentato nelle “strutture del sentire europee” dall’azione dei discorsi interpellanti dell’imperialismo coloniale novecentesco) e non viceversa. Questo modo di porre la questione, rimuovendo la sedimentazione storico soggettiva del dispositivo razzista, finisce per forcludere l’eredità del colonialismo, della schiavitù e dell’imperialismo sul presente dell’Europa; poichè è chiaramente questo passato a rendere interpellante sia a livello materiale che simbolico il dispositivo del confine nella gestione dell’immigrazione e dei soggetti postcoloniali europei. Il razzismo come modalità di gestione delle crisi capitalistiche non potrebbe funzionare se esso non si fosse costituito come un “fenomeno interpellante”, per dirla con Althusser (1969), o come parte dell’”equipaggiamento collettivo deterritorializzato” prodotto dal desiderio perverso dell’altro delle borghesie moderne, per dirla con Guattari (2011). La razza, come il nazionalismo e l’impresa, è una forma nociva di comune (Hardt, Negri 2010). Dal discorso della Carta trapela invece una concezione “sovrastrutturale” del razzismo, ovvero l’idea che esso sia riducibile a “mera discriminazione”, a una sorta di “tara mentale”, per riprendere la critica di Frantz Fanon, o alla mera ricerca di capri espiatori in momenti di crisi. E’ quanto lascia intendere il riferimento al “razzismo differenziale” come chiave di comprensione dell’attuale discorso razzista. La prospettiva “differenzialista”, pur avendo colto in modo efficace alcuni dei più importanti tratti distintivi del discorso “neorazzista” emersi negli anni ‘80, ha finito per sottovalutare la dimensione “materiale” del razzismo, la sua centralità storica nel conformarsi della catena di comando capitalistico; si tratta di una centralità storica emersa durante il periodo coloniale e supportata dallo sviluppo del discorso occidentale della razza. Forse è proprio questo limite nell’approccio al razzismo a spiegare un altro degli elementi problematici della Carta: l’eccessivo embedding, per usare la vecchia espressione di Polanyi, della “questione migrante” nella grammatica storica del “linguaggio dei diritti”, ovvero la sua iscrizione in una pratica teorica e politica improntata a una riconfigurazione in chiave “includente” e dal basso della cittadinanza. La nuova geografia del capitale postcoloniale ha portato alla luce la “colonialità” di questo istituto anche in Europa, mettendone in mostra il suo lato più oscuro e “necropolitico”, per stare al concetto di Achille Mbembe (2001), ovvero la sua genealogia storica in quanto strumento di esclusione, gerarchizzazione e razzializzazione dell’umanità. La cittadinanza, in quanto dispositivo di dominio del capitalismo moderno e delle sue “repubbliche coloniali e proprietarie”, è parte del problema e non la soluzione. E’ stata l’irruzione dei margini nel centro (Hall 2000), la lotta antirazzista dei migranti postcoloniali nello spazio europeo dal secondo dopoguerra in poi in quanto complemento storico del processo di decolonizzazione, a barrare il significante Europa, a svelare la bianchezza costitutiva dell’istituto della cittadinanza, il suo portato storico di violenza materiale, simbolica, politica ed epistemica.
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Diciamo subito però che l’Europa deve restare il punto fermo – lo spazio sociale e politico di riferimento – di ogni lotta per il comune e quindi di ogni ipotesi costituente. Il che, come è stato ripetuto fino alla noia, non significa avvallare la forma attuale dell’Unione Europea, al di là della retorica isituzionale dei diritti, bensì mettere in moto quella che vorrei chiamare qui una “decostruzione” dell’Europa (ovvero delle sue istituzioni politiche ed economiche) a partire da una grammatica politica insorgente e incentrata sulla materialità effettiva delle diverse forme della cooperazione sociale, che vengono a costitutire, come sappiamo, l’ossatura del capitalismo biopolitico contemporaneo. Propongo qui decostruzione, un’espressione comunque problematica, in una prospettiva che va forse oltre il decostruzionismo stesso, e lo propongo per due motivi. Innanzitutto, perchè la decostruzione comporta sempre un doppio movimento: a) il disinnesco del significante (Europa, in questo caso) dal suo intreccio con i dispositivi storici di potere; b) la sua ri-costituzione come topologia sociale inedita, ovvero la liberazione delle sue potenzialità costitutive e costituenti (chiaramente quando queste vi sono). E’ questo che hanno fatto con il significante “modernità”, per esempio, e ovviamente da prospettive diverse, autori assai diversi come Marx, Du Bois, C.L.R. James, Fanon e Foucault e movimenti come il femminismo. Si tratta inoltre di qualcosa che è alla base della stessa prospettiva postcoloniale, si ricordi ancora la nota enunciazione di Chakrabarty “Provincializzare l’Europa”. Si può dire che l’archivio costruito da questi autori ci interroghi sulla possibilità di (ri)pensare la modernità non solo al di là di tutto ciò che ne imbriglia le sue potenzialità (il capitale, il biopotere, il colonialismo, il sessismo, il razzismo), ma soprattutto come un processo in contraddizione con se stesso (in quanto lotta per quello che Balibar ha chiamato egalibertè), sempre aperto e mai dato e/o pacificato e, più importante, come una grammatica discorsiva aperta dalle lotte dal basso, ovvero da tutti coloro che la stessa costituzione materiale della modernità capitalistica aveva escluso. Per dirla con Linebaugh e Rediker (2005), il moderno inteso come pratica materiale di costruzione del comune è il prodotto storico delle resistenze e delle lotte delle molte teste dell’Hydra. Questo archivio ci fa capire dunque qualcosa di più importante ancora, dell’interdipendenza storica tra capitalismo e colonialismo: significanti come “democrazia”, “cittadinanza”, “diritti umani” hanno da sempre chiamato in causa dei “precisi confini dell’umano”, una linea demarcatoria (di classe, di razza, di genere) di appartenenza o meno allo stesso genere umano, ovvero alla stessa “condizione naturale politica”; si può dire che tali significanti si siano configurati come “discorsi del padrone” sulla base di un monopolio borghese, maschile e occidentale dell’umano. La decostruzione, dunque, nel senso in cui l’abbiamo intesa, può essere vista come come ciò che Althusser ha chiamato “pratica teorica”: come la produzione di una “contro-narrazione” legata alla prassi politica materiale, all’emergere delle nuove soggettività politiche che hanno caratterizzato lo sviluppo (e l’allargamento dei confini progressivi) della modernità; la lotta di classe nel capitalismo industriale nascente (Marx), le lotte dei neri americani contro la supremazia bianca (Du Bois), le lotte anticolonali dei “gloriosi trenta”, 1945-1975 (C.L.R. James e Fanon), il ’68 e l’irruzione dei movimenti sociali euroamericani (Foucault-Derrida), le lotte post-coloniali dei subalterni nelle ex colonie e dei migranti post-coloniali nelle metropoli (Chakrabarty, cultural e postcolonial studies, ecc.). Secondo questa accezione, il termine “decostruzione” sta anche a significare “decolonizzazione”. D’altronde i vincoli storici e materiali tra l’emergere della decostruzione e la lotta per la decolonizzazione sono già stati messi in luce in modo piuttosto efficace da Robert Young in Postcolonialism: an Historical Introduction (2001). E’ questo il secondo motivo per cui proponevo di parlare di decostruzione dell’Europa; nel senso che re-immaginarla o re-inventarla a partire dalla stessa materialità del comune – e data l’eredità della storia coloniale sul presente – sta quindi a significare la necessità di una sua ulteriore decolonizzazione. Mi sembra che si tratta di qualcosa che buona parte delle attuali “contro-narrazioni” della crisi non riesce a mettere del tutto a fuoco.
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Nelle contronarrazioni europee della crisi, tuttavia, l’antirazzismo stenta a trovare un luogo di reale rilievo. E’ chiaramente il caso di parlare di una nuova “crisi dell’antirazzismo europeo”. Se l’emergere di un nuovo discorso razzista all’inizio degli anni ottanta – il cosiddetto “New Racism” (Barker 1981; Hall 1980; Gilroy 1987) o “razzismo differenzialista” (Taguieff 1988; Wieviorka 1992; Balibar, Wallerstein 1992) – costrinse l’antirazzismo europeo a ripensare l’architrave epistemologica della propia pratica teorica e politica, è altrettanto chiaro che oggi siamo di fronte ad una nuova “impasse”. L’antirazzismo nato da questa congiuntura sembra aver fatto il suo tempo. Il suo limite prinicipale è stato quello di aver preso troppo “alla lettera” il discorso “neorazzista” dei movimenti xenofobi europei nati dalla disintegrazione del welfare state e dall’ascesa del neoliberismo. L’antirazzismo “differenzialista” è rimasto irretito nella stessa “trama discorsiva” fissata dal neorazzismo, ovvero in una “problematica” (nel senso in cui Althusser intendeva questo termine) imperniata attorno ad alcuni enunciati “neorazzisti” chiave: a) fine o definitiva sconfitta del discorso occidentale e coloniale della razza nel periodo post-coloniale; b) sostituzione lineare – e a somma zero – della logica biologicista del razzismo con quella culturale; c) accento sulla differenza culturale anzichè sulla gerarchia; d) contrapposizione tra “razzismo coloniale” improntato allo sfruttamento materiale e “razzismo post-coloniale” o moderno improntato al dominio simbolico, alla mera “ricerca di capri espiatori in tempi di crisi”. E’ cosi che l’antirazzismo differenzialista ha finito per “rimuovere” dalla propia mappa concettuale e cognitiva la centralità del discorso della razza e del razzismo in quanto dispositivi essenziali di sfruttamento del “capitalismo storico” (per riprendere l’espressione di Wallerstein). Questa impostazione non ha fatto che contribuire ulteriormente al declassamento del razzismo ad “atteggiamento meramente discriminatorio”, e a fare dell’antirazzismo una pratica fondata su quello che possiamo chiamare una “solidarietà di principio”, ovvero una pratica politica non teoricamente o epistemologicamente fondata. Sta tutto qui il declassamento di razzismo e antirazzismo a elementi “accessori”. Tuttavia, la “rimozione” del razzismo in quanto dispositivo fondamentale del capitalismo postcoloniale può essere desunta anche dai consueti “soggetti politici” di riferimento di ogni contronarrazione europea della crisi, di ogni discorso sui movimenti di resistenza all’Europa noeliberista dell’austerity: i movimenti greci, gli indignados, il 19 ottobre italiano, più di recente Gezy Park (Turchia), con estensione agli occupy di New York e Londra. Non si vuole qui semplicemente denunciare una presunta “whiteness” nella composizione di questi movimenti. Porla in questi termini è superfluo e politicamente sterile. Ciò che intendo porre come problema è: perchè quando si parla di resistenza all’Europa costituita – tanto per usare un’espressione di comodo – non vengono quasi in mente le rivolte del 2005 nelle banlieues francesi, i riot londinesi del 2011, i recenti riot di Stoccolma, o le rivolte di Castelvolturno e Rosarno, o le “bocche cucite” di questi giorni in diversi CIE, per restare all’Italia, se non in termini eccessivamente “accessori”? Perchè facciamo tanta fatica a re-immaginare o re-impostare un discorso europeo – una contronarrazione europea – partendo proprio da questo tipo di rivolte? Eppure, a me pare che queste insorgenze – in particolare quelle di Londra, Parigi e Stoccolma – ci dicano cose piuttosto importanti da tenere in considerazione quando parliamo di “crisi dell’Europa” o di “Carta di diritti”, come nel caso di Lampedusa. Mi pare che queste insorgenze di dicano molto su quello che ho chiamato “la bancarotta dell’Europa” e che inoltre siano in estrema sintonia con una delle insorgenze globali più significative degli ultimi anni: la cosiddetta “primavera araba”.
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La prima cosa che queste insorgenze ci dicono è che ridurre eccessivamente la “questione migrante” dell’Europa di oggi ai “diritti di cittadinanza” rischia di giuridicizzare troppo la questione e di rafforzare il “feticcio” (capitalistico) di questo istituto; poichè, come sappiamo, la codificazione giuridica dei diritti costituenti è stata sempre indispensabile, ma mai sufficiente. E’ noto infatti che i soggetti di questi riot sono stati per la maggior parte “cittadini” europei, almeno dal punto di vista formale. Eppure, parte di ciò che hanno reso piuttosto evidente queste insorgenze è sia la profonda sedimentazione storica (gli effetti di “lunga durata”), sia la materialità (intesa in senso sia economico che spaziale) della “razzializzazione” come dispositivo centrale della catena di comando di tutto il capitalismo post-coloniale europeo; si tratta di una situazione che affonda le radici nella stessa costituzione della UE negli anni del dopoguerra, e quindi in un processo di decolonizzazione “interna” rimasto in buona parte incompiuto. Negozi assaliti, macchine bruciate, scontri con le forze dell’ordine, tentativi di distruggere ogni istituzione legata allo stato (scuole, commissariati, agenzie di lavoro interinale, collocamenti pubblici, ecc.) ci fanno ricordare che il dispositivo razzista trae buona parte della sua forza da elementi, per così dire, extragiuridici e venuti alla luce con il capitalismo coloniale moderno e la schiavitù. Ci sembra dunque davvero difficile parlare di “crisi dell’Europa” senza una messa a fuoco più nitida del ruolo della razza e del razzismo nella stessa costituzione materiale della UE sin dalla sua nascita. I riot razziali e le lotte antirazziste dei migranti in Europa, già dall’immediato dopoguerra, ci parlano di una “razzialiazzione delle migrazioni” per cosi dire “originaria”, rendendo quindi problematico ogni “sguardo nostalgico” sui cosiddetti “gloriosi trenta” del Welfare europeo. Il dispositivo razzista europeo ha alterato la struttura di classe (e la percezione dell’identità) sin dagli albori del capitalismo. Si tratta di un dispositivo che attraversa tutti gli altri dispositivi riplasmandoli e generando una percezione soggettiva della realtà, possiamo dire con Gilroy (2006), “allucinatoria”. Cosi, pensare oggi sia la composizione di classe, sia il movimiento di ricomposizione politica della crisi non può non tener conto della distribuzione di “gerarchie e privilegi” che il dispositivo razzista comporta. Per questo, l’anti-razzismo non può costituirsi come mera solidarietà, nè può essere declassato a pratica semplicemente accessoria, ovvero a qualcosa che riguarda soltanto i “migranti” o determinati gruppi e soggetti o, ancora peggio, che sia facilmente equiparabile ad altri dispositivi di sfruttamento e gerarchizzazione del lavoro e della cittadinanza (come la flessibilità, la precarizzazione, ecc.). Porre il problema però non significa negare la possibilità della ricomposizione, la possibilità della (ri)costituzione delle differenze in uno “spazio comune di soggettivazione”. La storia e anche il presente ci offrono numerosi esempi a riguardo. Il primo ci viene direttamente dalla composizione di queste stesse insorgenze, poichè esse ci hanno mostrato il rovescio della stretta interdipendenza esistente tra la classe e la razza, ovvero la formazione di un proletariato metropolitano meticcio e multicolore come risposta al divenire sempre più “deterritorializzato” del dispositivo della razzializzazione nell’Europa postcoloniale. Mi sembra inoltre che Parigi, Londra e Stoccolma presentino una certa continuità sotterranea con le rivolte della cosiddetta “primavera araba” non ancora del tutto indagata. Non intendiamo quindi naturalizzare la frammentazione veicolata dai dispositivi del comando capitalistico. Vogliamo semplicemente evitare semplificazioni politicamente sterili. Su questo punto, può venirci in aiuto il Fanon di Razzismo e cultura (1956): non si può combattere il razzismo – come non si poteva combattere il vecchio colonialismo – senza mettere in discussione l’intero sistema di cui è il prodotto. L’antirazzismo quindi non può non configurarsi come una pratica di soggettivaziobe radicale. La seconda cosa che queste insorgenze rendono chiara è che questioni come quella del “ruolo dei confini” nell’attuale cittadinanza europea – del “confine come metodo” (come messo in luce dal recente libro di Sandro Mezzadra) – devono essere considerate alla luce della colonialità costitutiva del capitalismo moderno, ovvero come effetti nel presente del capitalismo coloniale moderno e delle lotte che lo hanno caratterizzato. E questo per due motivi. In primo luogo, perchè buona parte dei dispositivi di “accumulazione per espropriazione” tipici del comando capitalistico contemporaneo traggono origine dal passato coloniale e furono testati prima nelle colonie e poi nelle metropoli: si pensi, per esempio, al “debito” come disciplinamento della “vita” e del futuro. Come diversi autori hanno messo in luce – Vijay Prashad (The Darker Nations, 2005) – il debito (come mecanismo base del successivo “riaggiustamento strutturale”) ebbe un ruolo centrale nell’assassinio del Terzo mondo, nello strangolamento dell’utopia anticoloniale nata durante i movimenti di liberazione del secondo dopoguerra e non solo (anche in America Latina). Annanya Roy (sociologa indiana), per citare un altro esempio, ci ricorda come la concessione del microcredito alle donne povere del sud del mondo, a partire dagli anni ’80, è venuta a configuarsi attraverso la pratica e il discorso delle ONG come una nuova “frontiera dell’impero”, come un altro dispositivo coloniale di disciplinamento e assoggettamento. Ma la colonialità della logica di accumulazione del capitale globale contemporaneo sta soprattutto nella crescente gerarchizzazione dell’umanità in virtù del possesso di diversi tipi di capitale, ovvero della cittadinanza. In questo senso, lo spazio “eterogeneo” e “necropolitico” della colonia – caratterizzato dalla consegna alla morte (o all’esclusione) fisica, economica e sociale di una parte delle loro popolazioni – è oggi lo spazio caratteristico dell’intero globo, Europa compresa. In secondo luogo, perchè quello che possiamo chiamare (con Sylvia Winter e Paul Gilroy) “analitica coloniale della razzialità” continua ad offrire al capitale globale buona parte della sua discorsività. Si pensi per esempio a quanto diversi autori (Denise Ferreira da Silva e Paul Chakrabarty, in American Quarterly 2012) hanno scritto sui “subprime” in quanto significante razziale dei motivi della crisi finanziaria globale. L’analitica della razzialità ha consentito la produzione discorsiva di neri e latini degli USA come soggetti ad alto rischio nel ripagamento dei debiti (date le loro “mancanze” economiche e culturali – irresponsabilità, pigrizia, sfruttamento del welfare anzichè lavoro e investimento nel sè, ecc.), e poi ha favorito la costruzione dei “subprime” (e dei soggetti a cui sono stati concessi) come detonatori della crisi finanziaria. A me pare che questa “analitica coloniale della razzialità” sia al lavoro anche nell’Europa della crisi: basti pensare alla “costruzione” dei paesi del Sud dell’Europa come PIGS, alla costruzione sicuritaria del migrante come soggetto “problematico” (criminale, sfruttatore di quello che resta del welfare (casa, lavoro, sussidi, ecc.) in tempi di crisi. In un caso (gli Usa) come nell’altro (l’Europa) si tratta di costruzioni discorsive generate dalla produttività dell’archivio coloniale globale, dalle rappresentazioni coloniali di certi soggetti e luoghi come perennemente “deficitari”, “mancanti”, “pericolosi”. Da questo punto di vista, la costruzione della questione meridionale in Italia può rappresentare un importante precedente storico.
- Vorrei concludere dicendo che per fare dei passi avanti nella comprensione della composizione di classe dell’attuale capitalismo globale dobbiamo prendere sul serio razza, razzismo e colonialismo come dispositivi storici e materiali di sfruttamento della modernità capitalistica. E prenderli sul serio non vuole dire semplicemente “annettere” queste problematiche a una prospettiva teorica e politica già data: significa problematizzare le proprie categorie di comprensione e di agire politico. Significa in poche parole decolonizzare il nostro sguardo. Le insorgenze di Parigi, Londra, Stoccolma e le lotte dei migranti ci parlano di un limite costitutivo dello stesso significante Europa. Non si può de-scrivere la crisi – la sua bancarotta – senza attraversare e disarticolare tale limite. Di questo limite ci parlava già Fanon, quando nell’epilogo de I dannati della terra ci sollecitava ad “abbandonare l’Europa, poichè essa sta correndo a tutta vertigine verso la catastrofe”. Abbandonare l’Europa può significare oggi decentrarla, sconfinarla, allargarla ad Est e alla sponda Sud del Mediterraneo. Si tratta di un primo e necessario passo verso una sua materiale decolonizzazione. Le parole di Fanon dunque tornano a interpellarci. Devono interpellarci ogni volta che parliamo della “Crisi dell’Europa”.