Riprendiamo dal sito di Impunita – Festival della cultura critica dell’infanzia, un intervento sulla scuola.
di GIROLAMO DE MICHELE.
Vorrei prendere le mosse dall’assegnazione del premio Nobel a Kazuo Ishiguro, «che, in romanzi di grande forza emotiva, ha scoperto l’abisso sotto il nostro illusorio senso di connessione con il mondo». E immaginare quale potrebbe essere, invece il giudizio dell’OCSE sui suoi romanzi:
I suoi personaggi non posseggono un adeguato livello di competenze, l’autore appare carente sulle strategie di recupero, in particolare incapace di indicare una tempistica certa e misurabile, e poco consapevole della necessità di implementare conoscenze e abilità imprenditoriali.
Perché questo confronto? Perché uno dei mali della scuola attuale è quella della pedagogia delle competenze: una concezione della didattica che intende il sapere finalizzato a uno scopo determinabile a priori, lineare, uniforme, discreto, quantificabile in unità uniformi e discrete. Con le parole di Miguel Benasayag, «insegnare gli strumenti utili ad andare sempre per la via retta è sbagliato e controproducente. Dobbiamo proteggere i bambini da questa specie di terrorismo dell’urgenza, di una male interpretata efficienza, ricettività: l’urgenza non è la risposta ai problemi, è il problema» [L’esercito degli “adulti biologici”. Bambini ossessivi e superficiali, «La Stampa», 21 settembre 2017]. Don Milani la chiamava «gerarchia delle urgenze»:
Quando la scuola è poca va fatta badando solo alle urgenze [704]. Una scuola fatta con l’ossessione della campanella, con l’incubo del programma da finire prima di giugno. Non avete potuto allargare la visuale, rispondere alle curiosità dei ragazzi, portare i discorsi fino in fondo. Così è finito che avete fatto tutto male e siete rimasti scontenti voi e i ragazzi. È la scontentezza che v’ha stancato, non le ore [TO, I, p. 752].
Questo significa: una scuola che si prende tutto il tempo e tutti i tempi di cui ha bisogno. L’opposto della scuola delimitata dalla condizione giuridica dell’insegnante, che è, oggi, dipendente pubblico con contratto di diritto privato; per il quale, il centro della propria professione non è lo scopo – educare, insegnare, trasmettere, formare: cose così –, ma il sinallagma contrattuale, ovvero lo scambio fra ore prestare e salario ricevuto. In altri termini, per lo Stato (a partire dalla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici col dlgs 29/1993) ciò che conta è il valore di scambio, e non il valore d’uso dell’insegnamento. Quanto all’insegnante, viene equiparato al produttore generico che riceve dalla società uno scontrino da cui risulta la quantità di lavoro prestato, e sulla base del quale ritirerà dal fondo sociale una equivalente quantità di mezzi di consumo. E qui giova ricordare, a chi non ha buona memoria o buone letture, la fondamentale critica del diritto enunciata da Pašukanis, che vede nel diritto privato l’unica vera forma del diritto, essendo quello pubblico una mascheratura ideologica di quello:
La regolamentazione dei rapporti sociali in determinate condizioni assume carattere giuridico […]. La condotta delle persone può regolarsi secondo le norme più complesse, ma l’elemento giuridico, in questa regolamentazione, nasce solo dove ha inizio l’isolamento e la opposizione degli interessi. [Evgenij Bronislavovič Pašukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo (1927), Bari, De Donato: 1975, pp. 90, 132]
Per parafrasare un politico d’altri tempi che sapeva amare la voce della pedagogia – il Lenin di Stato e rivoluzione – il rapporto di diritto privato è un angusto orizzonte giuridico «che costringe a calcolare con la durezza di uno Shylock: non avrò per caso lavorato mezz’ora più di un altro, non avrò guadagnato un salario inferiore a un altro?» [Su tutto questo mi permetto di rimandare al mio Per farla finita con Shylock. Dalla scuola del privatus alla scuola del comune].
La seconda questione che pongo è quella dell’insegnare agli ultimi. Don Milani, com’è noto, insegnava ai figli dei contadini. Ed è nota la critica fatta alla pedagogia donmilaniana, che viene fatta coincidere col ’68 tout court, e da ultimo sintetizzata con la ricerca pedagogica e linguistica di Tullio De Mauro: quella pedagogia, affermandosi, ha distrutto una scuola che funzionava e creato una fabbrica di ignoranti. E allora andiamo a vederla, quella scuola.
La ricerca sulle competenze alfabetiche degli italiani, a cavallo tra secondo e terzo millennio, ha fotografato una situazione preoccupante: circa un terzo degli italiani ha competenze alfabetiche modeste, al limite dell’analfabetismo. Stiamo parlando della capacità di comprendere un articolo di giornale, di trovare l’informazione nel tabellone degli orari ferroviari, di compilare un bollettino di conto corrente. Per contro, poco meno del 10% degli italiani è in possesso di un patrimonio di competenze linguistiche e di un numero di vocaboli conosciuti medio-alti. Ebbene, se prendiamo il 1968 come discrimine, scopriamo che fra gli italiani che hanno terminato gli studi prima del ’68 la percentuale di soggetti ai limiti dell’analfabetismo, riferito alla comprensione dei testi in prosa sale al 63%, mentre quella che si colloca nelle fasce medio-alte è di appena l’1.9%. Se il livello di alfabetizzazione degli italiani ci appare oggi, a giusta ragione, preoccupante, è perché la scolarizzazione di massa è gravata dalla zavorra di quell’Italia analfabeta di un passato ancora recente. La scuola pre-Sessantotto generava una società analfabeta. Ma a parlare della scuola, a suonarsela e a cantarsela fra loro, erano — e in buona parte sono — sempre gli stessi: quel 2% di istruiti che avevano superato una selezione neanche darwiniana, ma malthusiana, ai quali i ragazzi di Barbiana non la mandavano certo a dire: «Che siete colti ve lo dite da voi. Avete letto tutti gli stessi libri.» [TO, I, p. 705]
Come si declina questo problema, oggi? In primo luogo, constatando che la scuola non è riuscita – e non poteva, da sola, riuscire – a svolgere la funzione di ascensore sociale: riesce al più a chiudere provvisoriamente quella forbice sociale, che la società si incarica di riaprire ben presto. Con buona pace di ripetuti e risaputi libri scritti senza conoscere una tabella o un dato ministeriali, cioè ufficiali – ho presente da ultimo un libro di Antonio Polito che parla di studenti aviotrasportati alla fine del corso degli studi sorvolando su ogni loro lacuna; ma potrei citare Galli della Loggia, Mastrocola, e via dicendo – i dati forniti dall’Indire ci dicono che la dispersione scolastica è ancora del 30%, e che la determinazione sociale, cioè l’influenza della famiglia di origine, è strutturale. Quella italiana è ancora una scuola di classe, all’interno di una società classista la cui rigidità è inferiore, nel mondo occidentale, alla sola Gran Bretagna [cfr. da ultimi Marco Romito, Una scuola di classe, Guerini scientifica, 2016; Christian Raimo, Tutti i banchi sono uguali, Einaudi: 2017].
È noto che la Scuola di Barbiana produsse una mole impressionante di dati, raccolti dalle fonti statistiche e riordinati in grafici di grande effetto per chiarezza, attraverso quegli strumenti poveri e semplici che sono le matite colorate. Quella ricerca ci mostra l’abisso che intercorre fra chi lavora con serietà su dati materiali e che si riempie la bocca di pre-giudizi spacciati per osservazioni. Ma ci mostra anche una straordinaria capacità di lettura del dato grezzo; con le categorie dell’operaismo, si può dire che alla Scuola di Barbiana in quei dati è fotografata la composizione di classe della popolazione scolastica italiana: non solo la composizione tecnica, ma anche quella politica. Che dentro il figlio del contadino si coglie il potenziale operaio sindacalizzato in lotta, o insegnante militante. E questo ci dice un’altra verità: che non ci sono dati neutrali o apolitici, che occuparsi di scuola significa fare politica. Don Milani lo dice a chiare lettere: è politica la lettura del giornale «strappata all’avarizia», anche se nulla di quel che c’è sul giornale serve all’esame. Nella lettura del giornale si esemplifica la differenza fra una scuola che serve alla vita, e una scuola rimasta ai cartelli fascisti che recitavano: «Qui non si parla di politica» [TO, I, p. 703]. Un’ingiunzione fascista che va ricordata, in un tempo nel quale il ministro dell’interno Minniti si fa vanto di aver appeso un tempo il cartello: «Qui si lavora e non si fa politica» [Il ministro Minniti parte da Gramsci, «Corriere della sera», 15 agosto 2017]. Un ministro che considera eroi e servitori della patria suo padre e suo zio, arruolati nell’aviazione fascista, massacratori di civili in Spagna ed Etiopia [cfr. l’intervista al «Corriere della sera» del 30 setmbre 2017]. Don Milani non avrebbe avuto dubbi sul lato della barricata su cui stare:
Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. [TO, I, pp. 929-30]
Non sono considerazioni estemporanee, queste: la Lettera a una professoressa dice a chiare lettere che il fine onesto che bisogna cercarsi, il “fine giusto”, è: «Dedicarsi al prossimo». Un fine politico: come si può amare, in questo secolo, se non con la politica e la scuola? Ma non una scuola qualunque: «Contro i classisti, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali». Se questo è il fine ultimo, quello immediato «da ricordare minuto per minuto è d’intendere gli altri e farsi intendere. E non basta certo l’italiano. Gli uomini hanno bisogno d’amarsi anche al di là delle frontiere» [TO, I, p. 760]: qui il dovere di amare come anima della didattica si sostanzia nell’educazione non solo alla lingua, ma al plurilinguismo.
Tempriamo nell’acqua gelata dell’oggi il ferro rovente di queste parole. La scuola è attraversata da una questione dell’eguaglianza forse più radicale di quella degli anni Sessanta. Una questione che nasce dall’uso politico, sotto forma di strumento di governo, di controllo, di disciplinamento e di assoggettamento, della segmentazione sociale. Una segmentazione messa in luce ormai anche dalle fonti istituzionali: il recente report La povertà in Italia dell’Istat [13 luglio 2017] attesta un allargamento della forbice fra ricchi e poveri, con un «peggioramento addirittura catastrofico, per almeno tre categorie cruciali: i minori, gli operai, e i membri di “famiglie miste”» [Marco Revelli, Italia, a che punto è la notte, «Il manifesto», 16 luglio 2017]. Aumenta la povertà assoluta fra i minori – fra i quali la povertà è quadruplicata in 10 anni; fra i working poor, «dove si può leggere con chiarezza l’effetto-Renzi e l’impatto del Jobs Act sul potere d’acquisto e sulla stabilità del lavoro»; e fra «le “famiglie miste”, quelle in cui cioè uno dei due coniugi è un migrante: nel loro caso la povertà assoluta è quasi raddoppiata nell’Italia settentrionale (dal 13,9 al 22,9%) e quella relativa ha raggiunto nel Meridione il 58,8% (era il 40,3 nel 2015), con buona pace di chi ha fatto dell’urlo tribale “Perché a loro e non a NOI” la propria bandiera e considera privilegio lo jus soli in nome della propria miseria» . In altri termini, i dati di lieve ripresa economica attestano che in realtà il motore di questa ripresa è la vampirizzazione della ricchezza sociale dei poveri, ai quali viene tolto persino il necessario per dare ai ricchi.
All’interno di questa dinamica di segmentazione ed estrazione della ricchezza sociale, agisce quella comunità del rancore analizzata da oltre 10 anni da Aldo Bonomi, e che oggi è illustrata da una ricca fenomenologia del risentimento dalla ricerca di Leonardo Bianchi sul gentismo [La gente. Viaggio nell’Italia del risentimento, minimum fax: 2017]. In parole povere, la prassi politica di chi si inserisce fra gli ultimi e i penultimi per tenerli separati, e offrirsi in aiuto ai penultimi in una guerra contro gli ultimi.
Se mai un appunto dovesse essere fatto a Nicola Bianchi, sarebbe questo: non aver dedicato un capitolo ad hoc non alla scuola, ma anche ai discorsi sulla scuola. La scuola è attraversata da questa segmentazione, e non può non esserlo. Al tempo stesso, è chiamata in causa da quell’opera che Bonomi chiama «fare comunità», mettersi nel mezzo fra ultimi e penultimi per fare legame sociale. Non è quindi un caso che nelle fogne social la scuola risuoni in tutte le variazioni e sfumature del razzismo: dal disagio creato dalla presenza dei migranti allo jus soli, dai posti in asilo alla carenza di mediatori linguistici. I migranti, com’è noto, sono in buona parte collocati negli strati sociali più bassi: quelli che non solo hanno una minore retribuzione, ma ricevono prestazioni sociali – casa e scuola in primo luogo – di valore inferiore alla ricchezza sociale prodotta col loro lavoro, e ai contributi previdenziali versati. In altri termini, hanno il torto di essere poveri: la colpa dei poveri è di esistere, il loro scopo simbolico è di sostanziare il bisogno di un capro espiatorio, la loro funzione sociale di produrre ricchezza che li sorvola senza che nulla di questa ricchezza sgoccioli su di loro – è il neoliberismo, bellezza!
Rispetto a questo scenario la scuola è posta davanti a due alternative non eludibili: o diviene complice strumento di allargamento della disuguaglianza, della segmentazione sociale, dello sfruttamento bestiale dell’uomo sull’uomo; o assume il compito etico di mettersi in mezzo fra i segmenti che la attraversano, per produrre connessione del comune, nella consapevolezza che la contraddizione fondamentale non fra garantiti e non (dove mai ci sono stati garantiti?), ma fra l’1% e il 99% dell’umanità non è aggirabile né ricucibile.
È del tutto evidente che solo una profonda rivoluzione del sistema-istruzione può dare risposta, nella continuità di quel «testo cinese», come lo definì Elvio Fachinelli, che è la Lettera a una professoressa, alla domanda su qual è la scuola del futuro di cui abbiamo bisogno: una rivoluzione che trasformi quel luogo di lavoro nel quale gli insegnanti vagano come tanti piccoli Shylock, ognuno col suo viaggio ognuno diverso, ognuno in fondo perso per i fatti suoi, in una scuola del comune e per il comune.
Ma accanto alle condizioni di sistema, è necessaria anche un’etica: quella di una scuola militante. Dove per “militante” si intende quel dovere fondato sul vivere e agire nella verità, producendo verità, liberi da qualsivoglia direttore della coscienza estrinseco: sulla concatenazione fra il Beruf weberiano, la parrhesía stoico-cinica che ci ha (re)insegnato Foucault, e quella rivoluzione che don Milani faceva, perché era la rivoluzione. Una scuola di donne e uomini, insegnant@, student@ e genitor@, che non ricercano il consenso o l’agire maggioritario, ma attraversano come militanza etica i campi del sapere, per produrre verità nel comune, con chi è disposto ad agire per il comune e nel vero. Una scuola che faccia propria l’ingiunzione di don Milani:
Mirare in alto (per noi e per gli altri) e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira in basso. Rinceffargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza. Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce» [TO, II, p. 362].
Una scuola militante è una scuola dove ognuno sa che la barricata ha due lati, e sa da quale parte della barricata stare. Perché una scuola che, nel vivo della guerra di classe scatenata, non milita e non si schiera, che si adegua e depone le armi, è una scuola che diserta.