di SANDRO MEZZADRA.
È davvero una buona notizia che la casa editrice Meltemi riprenda le pubblicazioni, dopo essere stata rilevata da Mimesis. Nel catalogo della «Melusina», come anche la si è sempre chiamata per via del suo bel logo, ci sono infatti volumi importanti, che ora potranno tornare a essere disponibili. In particolare, per via dell’impegno e dell’intelligenza di Luisa Capelli (direttrice editoriale e amministratrice unica di Meltemi dopo la prematura scomparsa di Marco Della Lena nel 2003), la casa editrice romana svolse un ruolo fondamentale nell’introdurre in Italia gli studi postcoloniali – proponendo testi classici, per esempio di Paul Gilroy, Dipesh Chakrabarty, Homi Bhabha, Achille Mbembe e Partha Chatterjee. La Critica della ragione postcoloniale di Gayatri Spivak (1999) uscì nel 2004, nell’impeccabile traduzione di Angela D’Ottavio, e ne discussi i temi di fondo in una recensione pubblicata su queste colonne (il manifesto, 1.02.2005).
Molte cose sono cambiate in questi dieci anni. In Italia il postcoloniale è entrato nel dibattito critico, attraverso molteplici iniziative – tra cui la rete inteRGRace – e i lavori di una nuova generazione di studiosi e studiose (faccio solo due esempi: Gaia Giuliani, autrice di studi importanti su James Mill e il colonialismo britannico, sulla «bianchezza» nella storia italiana e sulle nuove figure della paura, e Gabriele Proglio, di cui è appena uscito Libia. 1911-1912. Immaginari coloniali e italianità, Le Monnier).
Nel mondo anglofono, dove sono nati, gli studi postcoloniali sono nel frattempo in qualche modo implosi, anche per via di una serie di critiche che in qualche modo Spivak anticipava nel suo volume del 1999. Ma questa «implosione» è stata felice, perché i temi e le categorie al centro del postcolonialismo si sono come diluiti all’interno di una serie di dibattiti critici (da quelli femministi all’analisi del capitalismo contemporaneo, dagli studi urbani alla teoria politica), influenzandoli in modo spesso molto produttivo.
E che dire di Gayatri Spivak? È difficile tenere il conto delle sue pubblicazioni dopo l’uscita della Critica. Ricordo solo – oltre alla nuova edizione della Grammatologia di Derrida, da lei tradotta nel 1976 (ne ha parlato sul manifesto Federico Zappino lo scorso 23 giugno) – il dialogo con Judith Butler sul grande movimento dei latinos negli USA (Che fine ha fatto lo stato-nazione?, anch’esso uscito da Meltemi nel 2009) e un bel libro sulla necessità di ripensare l’Asia in quello che da molte parti viene definito l’Asian Century (Other Asias, Wiley-Blackwell, 2008). Ma si dovrebbero menzionare molti altri testi e interventi di un’intellettuale che, amata incondizionatamente o detestata per l’«oscurità» del suo stile, continua comunque a essere protagonista dei dibattiti critici globali. Come quando lessi il libro per la prima volta, in ogni caso, è ancora oggi la sezione intitolata «Storia» in Critica della ragione postcoloniale a colpirmi maggiormente. Spivak rielabora qui i temi di un suo celebre intervento del 1988, Can the Subaltern Speak?, tenendo al contempo ben presente un altro suo saggio, del 1985: Deconstructing Historiography (lo si può leggere in traduzione italiana in Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, ombre corte, 2002).
Si tratta di saggi che hanno fatto epoca, e che continuano a fare discutere. Basta sfogliare le pagine di un numero da poco uscito della rivista Cultural Studies (il 5 di quest’anno, intitolato “Relocating Subalternity” e ben curato da Jamila Mascat e Sara de Jong) per rendersi conto di quanto in profondità i due interventi appena richiamati condizionino il dibattito internazionale sulle categorie, di originario conio gramsciano, di «subalternità» e «subalterno». E si tratta di un dibattito che ha avuto echi molto importanti anche in Italia, come si può ben vedere per esempio dal volume Subalternità italiane, a cura di Valeria Deplano, Lorenzo Mari e Gabriele Proglio, o dal lavoro di «Orizzonti Meridiani» (Briganti o emigranti. Sud e movimenti tra conricerca e studi subalterni, ombre corte, 2014).
Mi rendo conto di avere dato fin qui a questo articolo il tono di una rassegna bibliografica (molto lacunosa, per altro). Era in qualche modo inevitabile, per un volume che viene riproposto a più di dieci anni dalla sua prima pubblicazione. Ma è venuto il momento di domandarsi quali erano i problemi teorici (e politici) posti da Spivak nei suoi saggi degli anni Ottanta, e poi rielaborati in Critica della ragione postcoloniale.
Al centro della sua critica c’era il lavoro del collettivo dei Subaltern Studies (e del suo principale esponente, Ranajit Guha), che avevano avviato un lavoro di radicale revisione dei paradigmi storiografici prevalenti nel dibattito sul colonialismo britannico in India, in particolare con una serie di formidabili studi sulle rivolte contadine nell’Ottocento (va almeno citato il più importante, di Guha: Elementary Aspects of Peasant Insurgency in Colonial India, Oxford University Press, 1983).
Spivak si sentiva molto vicina ai Subaltern Studies. Ma ravvisava nei loro lavori un’«ingenua» fiducia nella possibilità di recuperare la «voce» autentica dei «subalterni» dall’interno degli archivi coloniali, e faceva giocare le provocazioni della decostruzione contro quello che le appariva un residuo di «umanesimo» ed «essenzialismo». Ne sono derivati infiniti dibattiti, che hanno molto influenzato lo stesso sviluppo successivo dei Subaltern Studies, conducendo – per dirla molto in breve – alla ridefinizione in termini «relazionali» della categoria di «subalternità».
Ora, il punto non è seguire Spivak in tutte le infinite pieghe della sua analisi decostruttiva: molte sono le critiche che sono state rivolte nel corso degli anni ai suoi interventi (e in particolare a Can the Subaltern Speak?), alcune senz’altro condivisibili. Ma occorre riconoscere che in particolare la sua critica al modo in cui molti intellettuali «radicali» rappresentano i «subalterni» coglie spesso nel segno (e la questione della rappresentanza/rappresentazione è al cuore di alcuni dei passaggi teoricamente più importanti e impegnati della Critica della ragione postcoloniale).
Assumendo come bersaglio critico un celebre dialogo tra Deleuze e Foucault (due autori con cui Spivak ha a sua volta dialogato per tutta la vita), quel che viene messo in discussione dall’autrice di origini bengalesi è il dispositivo attraverso cui – specchiandosi nell’immagine del «subalterno» da lui stesso prodotta – l’intellettuale radicale (o il «militante») appaga un sostanziale narcisismo, cadendo preda della logica della rappresentazione nel momento stesso in cui pretende di criticare radicalmente la rappresentanza.
Non mancano risonanze nel nostro presente italiano ed europeo di questa critica – sia in immagini caricaturali della «militanza» che continuano a circolare, sia nei dibattiti sul «populismo» (e sarà bene ricordare che Dipesch Chakrabarty, in un articolo uscito nel secondo numero del 2004 della rivista Studi culturali, ha paragonato la prima fase dei Subaltern Studies proprio al populismo russo del tardo Ottocento, per altro sottolineando sia l’importanza sia i limiti di quell’esperienza). Non credo tuttavia di essere molto lontano dallo «spirito» di Spivak, se aggiungo che – pur tenendo conto della sua e di altre critiche che sono state formulate dall’interno dei movimenti sociali, e in particolare femministi, degli ultimi decenni – il problema della militanza rimane fino in fondo un nostro problema, di cui dobbiamo riappropriarci.
Scriveva Spivak nel 2011, nel suo contributo al primo numero di Tidal, il giornale di Occupy Wall Street: «oggi la forza lavoro globale è profondamente divisa di fronte a una globalizzazione che opera attraverso un sistema finanziario largamente autonomo da quella forza lavoro. È per via di questa divisione che è di nuovo venuto il momento di rivendicare e proclamare lo Sciopero
Generale». Ecco, il nostro «Sciopero Generale» ha bisogno di una nuova militanza, che occorre inventare collettivamente tenendosi a distanza di sicurezza da retoriche tanto virilmente roboanti quanto in ultima istanza sacrificali.
questo articolo è stato pubblicato sul manifesto del 23 novembre 2016