di COLLETTIVO EURONOMADE.

Partiamo da un dato che ci appare inconfutabile: nella situazione attuale, caratterizzata da un mutamento di indirizzo della globalizzazione e dall’emergere di nuove linee di conflitto sul livello mondiale, la questione degli spazi (se si vuole, la questione geopolitica e geo-economica) diviene decisiva per gli sviluppi della lotta di classe. Su quali scale si pensa e si pratica l’antagonismo tra capitale e lavoro, dentro quali dimensioni – locali, metropolitane, regionali, nazionali, continentali – è possibile immaginare e costruire un rapporto di forze favorevole agli sfruttati, che cosa significa oggi, dentro queste condizioni, internazionalismo: sono domande essenziali per la riqualificazione di un progetto comunista in questo scorcio iniziale del ventunesimo secolo. Non sono domande nuove per noi: le abbiamo formulate negli ultimi vent’anni seguendo il ritmo delle lotte a livello globale, indagando le trasformazioni degli assetti imperiali e le costellazioni emergenti dei confini. Abbiamo cercato di svolgerle politicamente, partendo dal nostro “qui e ora”, in un discorso sull’Europa: le lotte dei precari, dei disoccupati e dei migranti, sin dagli anni Novanta, i Forum sociali europei, Blockupy – per limitarci a qualche esempio – ci hanno offerto il tessuto materiale su cui incardinare un europeismo radicale, tutt’altro che astratto. Oggi, evidentemente, tutto questo non basta più.

Si può dunque cominciare a ripensare l’Europa attraverso un’autocritica? Crediamo di sì. Autocritica è in primo luogo la riflessione sulla vicenda greca di tre anni fa, quando, schierandoci con Tsipras, non comprendemmo che la macchina neoliberale stava chiudendo ogni possibilità di riforma dell’Unione – legandoci mani e piedi ad un destino neoliberale e togliendo anche l’illusione della trasparenza democratica delle istituzioni. Quella greca, in un modo o nell’altro, la considerammo – affidandoci ad uno sguardo realistico – una dolorosa ma inevitabile vicenda di riassetto dell’ordinamento europeo, al cui interno pensavamo fosse possibile rilanciare la lotta e la resistenza. Oggi non possiamo più mantenere quel giudizio. A concludere violentemente la primavera greca, quel formidabile momento di insorgenza costituente in cui confluirono anni di lotte contro l’austerity, fu qualcosa di più di un pur terrificante esempio di una governance in quelle condizioni necessaria: fu piuttosto un «normale» atto amministrativo, la figura «non eccezionale» di come dovessero essere regolate le cose negli Stati dell’Unione. La subordinazione della democrazia alle regole del funzionamento neoliberale del politico fu in quell’occasione mostrata nella sua pienezza – organizzando in una azione repressiva quel che doveva divenire materialmente la costituzione neoliberale dell’Unione Europea dopo la crisi finanziaria del 2008.

L’autocritica è tuttavia attenuata da una seconda considerazione: dove avrebbe potuto portare una strenua resistenza di Tsipras in quella condizione? Da nessuna parte, si deve rispondere, se quella resistenza si fosse indirizzata verso il recupero della sovranità nazionale vilipesa. Probabilmente, in questo caso, avrebbe portato a un disastro e a sofferenze ancor più grandi di quelle che il popolo greco ebbe (e continua) a patire. Fu chiaro, in quei giorni di luglio del 2015, che non c’era più un «fuori» (in Grecia o dalla Grecia) al quale affidarsi o sul cui terreno o con il cui aiuto costruire un’alternativa. Qui siamo e qui dobbiamo lottare. Ma se non si può più uscire dall’Europa, è evidente che questa Europa, quella cioè che ha piegato ferocemente la Grecia alla regola neoliberale e che, non meno ferocemente, anche se con maggior garbo, ne chiude gli Stati nel blocco di un capitalismo che succhia il sangue di tutti i lavoratori, quella che condanna i migranti alla morte per mare o alle prigioni nel deserto – bene, questa Europa va disfatta. Se questa è la situazione, se non c’è più «fuori» (il Brexit ne è un paradossale esempio nell’affannosa ricerca di un accordo che riproponga quel che si era sciolto), il problema di fare l’Europa si presenta nell’ingiunzione contradditoria: per fare l’Europa occorre disfare le politiche dell’Unione attuale.

Prima di approfondire questa contraddizione, consideriamo le condizioni che la determinano. Certo, l’integrazione europea è stata un progetto capitalistico e “atlantico”, con un’impronta ordoliberale presente fin dal principio: ma ci sono state anche due grandi spinte alla costruzione dell’Europa, entrambe di grandissima potenza democratica. La prima fu il desiderio di farla finita con le secolari guerre interne al continente, sempre pagate dal proletariato; la seconda fu la necessità di costruire un blocco economico-politico che potesse esprimersi efficacemente sul livello globale, in termini non imperialistici. Finché durò la «guerra fredda» queste proposizioni fondatrici dell’Unione furono tollerate, anche se mai sollecitate, dal padrone imperiale americano. Ma tutto questo terminò con il 1989, con la fine dell’Impero sovietico e la riunificazione tedesca. Da quel momento l’Europa unita è divenuta un ostacolo potenziale (e talora effettuale) alla potenza americana, tanto più temibile quanto più diviene evidente che quella potenza è entrata in un relativo declino. Un declino che appare ormai su diversi livelli, a partire dall’incapacità di regolare il disordine globale, dopo il fallimento, con l’11/09 e con le guerre successive, di un breve e relativo controllo imperiale del mondo intero.

Dopo questo fallimento, la difesa dal e al comando imperiale statunitense è venuta manifestandosi in forme assai omogenee e comunque non troppo diverse all’interno di un persistente disordine mondiale. Le resistenze si sono essenzialmente espresse nella tendenza a costruire contropoteri attraverso associazioni di Stati nazionali entro dimensioni continentali (oltre all’Europa, in Asia attorno alla Cina, in un processo tuttora aperto; in America Latina attorno a politiche democratiche fondate sullo sfruttamento di risorse estrattive – un tentativo ora fortemente indebolito; ed ancora, con diverse intensità e in forme sempre aperte alla guerra, in Medio Oriente attorno a Russia e Iran, con il nuovo protagonismo regionale di attori come Arabia Saudita e Turchia e con la persistente questione palestinese; ecc.) che cominciavano a mostrarsi come alternative efficaci alla governance imperiale. In queste condizioni l’amministrazione americana propone, con maggiore determinazione, un rifiuto attivo ad ogni politica ed alternativa democratiche nell’Unione Europea. Ciò si rende evidente nel dar voce alla destra più ribalda nei paesi dell’Est europeo, nel tenere aperta la guerra sui bordi russofoni dell’Ucraina, nel corrompere le élites dell’Unione, ma soprattutto nel forzare, dal punto di vista militare attraverso la NATO, l’EU alle politiche del declinante impero.

Potremmo continuare a segnalare «sine ira ac studio» le mille altre contraddizioni che segnano oggi la politica imperiale americana su tutti i fronti sui quali, al blocco del suo soft-power si risponde da parte di Trump con rissosi ricatti e minacce. Non è questo il nostro problema qui ed ora. È invece quello di rilevare come, in una situazione globale completamente trasformatasi nel «dopo-guerra-fredda», la dimensione globale che esigeva un ordine per fissare i vantaggi che la globalizzazione dei mercati determinava, anziché allargarsi e procedere, sia stata da ultimo bloccata. L’impero non c’è sul livello politico mentre c’è e si è approfondita la mondializzazione dei mercati e dei movimenti del sapere e dell’umanità. La tendenza alla costituzione di blocchi continentali, in queste condizioni, si irrigidisce, da una parte aprendo fronti di potenziale conflitto in molte aree (dal “Grande Medio Oriente” alla penisola coreana), dall’altra parte esasperando nazionalismo e autoritarismo e determinando l’emergere di mutevoli combinazioni tra questi ultimi e un neoliberalismo che assume caratteri sempre più marcatamente disciplinari. La rottura di queste combinazioni tra nazionalismo, autoritarismo e neoliberalismo è il problema all’ordine del giorno oggi in molte parti del mondo, in Russia come negli Stati Uniti, in Cina come in America Latina.

L’Europa deve costituirsi su questo terreno, su un terreno di rottura. L’Europa va disfatta nella sua figura di vecchio attore della «guerra fredda», di strumento americano di divisione e di provocazione – va ricostruita come autonomo attore globale, sulla base di una trama di cooperazione, di lotte e di contropoteri che le consenta di operare contro la guerra e per la costruzione di un ordine mondiale finalmente libero dall’eredità del colonialismo e da ogni forma di imperialismo. L’Europa va tolta al neoliberalismo del mercato atlantico, va liberata dalle forme risorgenti di nazionalismo e autoritarismo, e va sviluppata nell’assetto globale che ormai molti poteri continentali configurano ed agiscono. Qui, come altrove, è dunque necessaria una rottura, e dobbiamo scommettere sul fatto che l’attuale ricomposizione degli assetti istituzionali europei non sia in grado di contenere e disciplinare i movimenti, le rivendicazioni, le forme stesse di vita e cooperazione dei soggetti sfruttati. Una nuova stagione di insubordinazione, a cui alludono già oggi in particolare le lotte delle donne e dei migranti, è la condizione necessaria per immaginare e costruire la nuova Europa di cui abbiamo bisogno. E questa nuova Europa potrà operare efficacemente come attore globale soltanto nella misura in cui saprà dotarsi di un programma sociale e politico all’altezza delle sfide poste dal capitalismo contemporaneo.

È certo un compito che può apparire arduo nelle condizioni attuali. Rappresenta per noi un orizzonte al cui interno collocare le più minute lotte quotidiane, progetti politici che incidono su scala municipale, regionale o nazionale, e soprattutto la formazione di una nuova generazione di militanti. Il fronte che su questo programma può essere costruito, è in ogni caso largo. Esso si apre a tutte le forze che non ne possono più di un’Europa che è diventata il sostegno essenziale dei dispositivi estrattivi del capitale finanziario e di corrotte élites nazionali aggrappate al principio di sovranità. Per coloro che hanno immaginato un’Europa senza guerre, era il principio della sovranità nazionale che andava distrutto. A questo feticcio lasciato indenne da ogni trasformazione unitaria dell’Europa, agito come frontiera contro ogni diritto alla mobilità e alla fuga dalla miseria, dalla guerra e dall’oppressione, l’Unione Europea, così come è fatta, presta il suo sostegno. E al feticcio del confine, raffigurato nella sovranità nazionale, accompagna l’altro feticcio: quello della proprietà privata e del suo assoluto dominio. Confine nazionale e confine proprietario, indissolubilmente uniti, sono le trame di una sovranità neoliberale, costruita, mantenuta e trasfigurata dall’Unione, che li vuole indistruttibili. E che invece han dimostrato, in queste figure, di non poter essere altro che – a livello interno –produttrici di miseria per i proletari e per lo stesso ceto medio; a livello internazionale, succubi del dominio imperiale ed incapaci di trasmettere i valori dell’esperienza civile e delle lotte sociali delle moltitudini europee. L’Unione Europea è, in particolare, blocco che oggi soprattutto si oppone alle lotte delle popolazioni europee per istituire il comune.

La parola d’ordine di una repubblica globale che si opponga alla monarchia imperiale va fatta risonare nella lotta interna ai singoli paesi europei, sia per la loro ricostruzione repubblicana, sia per una nuova radicale spinta costituente a livello dell’Europa intera. Ma in che orribile mondo viviamo, se solo dei comunisti sono capaci di gridare il generale disprezzo per questo liberalismo diventato dittatura a livello europeo? Di questo liberalismo distruttivo di ogni forma di «benessere istituzionale» per le popolazioni povere (ma sempre più lavoratrici)? E come è possibile che da parte di chiassose minoranze – che pur si dicono socialiste – si pensi che solo la rinascita di un modello di azione nazionale e sovrano possa liberarci dal neoliberalismo? L’Europa era nata sostenuta da una forte aspirazione federalista – ed è solo la ripresa di un federalismo non delle nazioni e neppure delle regioni, ma delle metropoli e dei distretti produttivi che può oggi costituire un contropotere effettivo ad ogni revanchismo liberale e statuale, a livello nazionale come a livello comunitario.

Attorno a questi temi c’è molto da fare. Apriamo una discussione larga che attraversi i movimenti e sappia organizzarsi nella società. Sì all’unità dell’Europa contro le élites corrotte che la dirigono e contro le politiche neoliberali. Sì a un’Europa che costruisca il comune contro lo sfruttamento e che sia ridisegnata quotidianamente dalle lotte, dai desideri, e movimenti di tutti gli uomini e tutte le donne che si battono contro il razzismo, il sessismo e la distruzione dell’ambiente.

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