Di MADDALENA FRAGNITO

È importante capire quali argomenti usiamo per pensare altri argomenti; è importante capire quali storie raccontiamo per raccontare altre storie; è importante capire quali nodi annodano nodi, quali pensieri pensano pensieri, quali descrizioni descrivono descrizioni, quali legami intrecciano legami. È importante sapere quali storie creano mondi, quali mondi creano storie.

Donna Haraway, Chthulucene: Sopravvivere in un mondo infetto

Nel maggio 2020, davanti al Congresso dei Deputati spagnolo, l’economista Amaia Pérez Orozco spiegava che, per capire cosa sia la cura, bisogna guardare a tutte quelle attività che non si sono mai fermate durante i provvedimenti per il contenimento della pandemia scatenata dal coronavirus.

Servizi ospedalieri, assistenza agli anziani, crescita dei figl*, lavoro domestico, “raccogliere la pattumiera il lunedì mattina”, trasportare lavoratori essenziali (e non solo) al lavoro, sanificare, coltivare i campi, pulire spazi, corpi e indumenti, preparare e distribuire cibo, dare supporto emotivo, denunciare la violenza domestica, le diseguaglianze, gli sfratti e l’impossibilità di essere curat*. Fino a giocare, discutere e prestare solidarietà a chi ne ha bisogno e restare in contatto attraverso le piattaforme digitali e i dispositivi tecnologici con i propri car*, amic* e comunità.

Queste attività – e altre ancora – non si sono mai fermate perché una loro interruzione riduce in modo drastico la capacità di mantenimento della vita umana e dei suoi ambienti materiali e affettivi.

Eppure, la quasi totalità delle attività che ci permettono di sopravvivere, e che ci hanno tenuto in vita in questi mesi, resta sottotraccia ed esclusa dalle forme più basilari del diritto: la loro scarsa visibilità equivale allo sfruttamento cui sono state condannate finora.

Dall’altra parte, il virus ha fermato il dispositivo. Una sosta improvvisa che ha messo in pausa un sistema economico perverso, i cui effetti sono ineguaglianza sociale e collasso climatico del pianeta. Il virus ha sospeso l’inevitabile del sempreuguale: ha interrotto per un attimo la “crescita” svelando quelle attività che – al contrario di ciò che Pérez Orozco indica come “cura” – accelerano le ingiustizie e l’esaurimento delle risorse sulla terra.

Osservare alcuni degli effetti prodotti dal rallentamento di molte di queste attività è indicativo. Alcuni ricercatori della NASA dimostrano che le restrizioni dovute all’emergenza hanno ridotto, da febbraio 2020, la concentrazione globale di biossido di azoto del 20%[1]. Il biossido di azoto è un inquinante atmosferico prodotto dall’uso di combustibili fossili da parte dell’industria e dei trasporti.

Si parla di veicoli, industrie meccaniche, tessili e di elettrodomestici, come anche di turismo e compagnie aeree che, secondo il report dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, sono i due settori più colpiti del 2020. A seguito di questa ricerca, uno degli autori ha poi comparato i dati del biossido di azoto con quelli del PIL di diversi paesi. Emerge che ogni 10% in meno di biossido di azoto in aria, corrisponde a una contrazione media del 5,3% del PIL. Questa corrispondenza non sorprende, se si considera quanto le attività produttive siano connesse con l’emissione di nubi di diossido. Potrebbe invece sorprendere un’analisi della contrazione del PIL per ogni 10% in meno di lavoro di mantenimento della vita in vita tra generazioni.

I livelli di biossido di azoto spesso diminuiscono durante le celebrazioni del capodanno lunare in Cina e poi si riprendono. Tuttavia, nel 2020 non è stato evidenziato alcun rialzo su Wuhan (Cina) e i livelli di biossido di azoto sono rimasti molto più bassi rispetto al 2019.

Al dunque, le attività di cura che non si sono mai fermate hanno permesso a molt* di sopravvivere e le attività produttive che si sono dovute fermare hanno rallentato la folle corsa verso la crisi ecologica (e lavorativa, culturale, migratoria), mettendo in luce la sconcertante frenesia, la smania e il fiato corto di ieri.

Nonostante i segnali di questa sospensione, il paradosso rimane: ciò che ci toglie il fiato risulta a pieno titolo negli indici economici, mentre ciò che ci mantiene in vita è omesso, taciuto, svalorizzato e scarsamente sostenuto dalla ricerca economica.

L’economia è cura

L’economia è anche definita come la “forma di organizzazione sociale volta a soddisfare il bisogno umano di preservare la vita e la qualità della vita” (Ulrich, 2008) e anche come la scienza che ha il compito di esaminare in che modo i “bisogni umani possano essere prodotti, distribuiti, usati e consumati nella maniera più sensata” (Ashauer, 1973).

Tutte le attività che hanno questo compito dovrebbero rientrare nella sfera d’interesse della ricerca economica ma questa, al contrario, si concentra su ciò che è scambiabile sul mercato, che ha a che fare con il denaro, in una parola, su ciò che è considerato produttivo.

La divisione fra le attività produttive e riproduttive, ovvero fra quelle inserite dentro al mercato e quelle sospese in uno spazio extra-economico, deriva dal pensiero greco. Con Platone e Aristotele si comincia a dividere il mondo, i mestieri e gli esseri umani in superiore e inferiore, spirito-corpo, teoria-pratica, cultura-materia (Weber, 2013), maschio-femmina, padrone-schiavo, pubblico-privato.

È su questa dicotomia originale che si basa la riduzione di ciò che è economico in ciò che è monetizzabile: la materialità del corpo e i suoi bisogni, infatti, sono considerati come una privazione della libertà, un fastidioso ostacolo dello spirito, e per questo rimossi a una sfera inferiore dove è necessario costringere altr* corpi a occuparsene.

Gli altr*, socializzati per interiorizzare il dovere della cura, sono considerati giacimenti di risorse infinite da sfruttare (come la natura) per garantire a una parte della popolazione l’impressione di essere indipendente, senza necessità né bisogni di cura. Una fantasia che si perpetua in occidente da oltre 2500 anni, motivo di divisione fra alcuni esseri umani e quegli umani che, di fatto, non rientrano nei destinatari dei diritti promossi dalle dichiarazioni universali. Motivo di demarcazione fra umani e animali, e umani e natura.

I dati parlano chiaro. Nel 1980, l’ONU pubblica l’esito di una ricerca: “le donne rappresentano la metà della popolazione adulta mondiale e un terzo della forza lavoro ufficiale, svolgono circa due terzi di tutte le ore lavorative, ricevono solo un decimo del reddito mondiale e posseggono meno dell’uno per cento della proprietà mondiale”.

Nel 2019 il report “Time to care” di Oxfam sostiene che il valore del lavoro di cura non retribuito su scala globale, fatto dalle donne dai 15 anni in su, equivale ad almeno 10,8 trilioni di dollari l’anno (per un’idea meno astratta di questa cifra, basti pensare che equivale a tre volte il valore monetario dell’industria tecnologica mondiale). Secondo i rapporti annuali di Ocse, sulle condizioni di vita nel mondo, le donne lavorano più degli uomini e in condizioni peggiori.In Italia, ad esempio, lavorano di media 5 ore in più al giorno: lavori domestici e di cura, casa, figl* e genitori anziani.

In questo contesto, è facile capire come durante la pandemia “il 60% delle donne [italiane] ha dichiarato di occuparsi da sola della cura di figli, anziani e disabili (contro il 21% degli uomini); e una donna su due ha dovuto abbandonare piani e progetti a causa del covid-19 (contro due uomini su cinque)”[2]. E perché, dei 444mila occupati in meno registrati nel 2020 in Italia, il 70% è costituito da donne (dati ISTAT).

La netta divisione del lavoro che, scrive la politologa Françoise Vergès, “divide i corpi tra quelli che hanno diritto a una buona salute e al riposo, e quelli la cui salute non ha importanza e che non hanno diritto al riposo” (2019), mostra come la scienza dell’economia perda sistematicamente di vista la metà di ciò che essa stessa definisce come: “la soddisfazione dei bisogni umani”. Come sostiene l’economista Ina Praetorius, la riduzione dello spazio economico a solo ciò che viene scambiato, allontana l’economia da quello per cui è nata (2019).

L’economia come un Iceberg. J K Gibson-Graham.

La pandemia non è un portale

Nell’ininterrotta catena di crisi che attraversiamo da decenni (…, 2001, 2008, 2020, …), “il futuro appare chiuso, destinato nella migliore delle ipotesi a riprodurre il passato” (Di Cesare, 2020). A ogni intensificazione della crisi emergono i limiti della governance neoliberale del mondo e a ogni sua distensione, quegli stessi limiti sono riabilitati in forme sempre più spietate.

Benché impigliati in un sistema che la filosofa Donna Haraway definisce come questa cosa scandalosa[3], l’immagine di un’umanità che lotta contro la sua autodistruzione è emersa con più freddezza in questi mesi:

  1. Siamo interdipendenti e materialmente connessi. Ognun* di noi dipende, almeno una volta nella vita, dal tempo del lavoro di cura di altr*. Di conseguenza, la dicotomia fra autonomi e dipendenti è un’astrazione: una contraddizione che rende invisibile la natura del/nel corpo e che nasconde come la vita non sia affatto una certezza bensì una possibilità: la vita ha bisogno di comunità e di risorse per essere vissuta.
  2. Siamo eco-dipendenti, interagiamo con il medio della natura, le sue risorse e i suoi limiti. Di conseguenza, una crescita illimitata ed espansiva dentro uno spazio mutevole ma finito è un’astrazione: il modo economico e di sviluppo che si svincola dei limiti della terra si schianta dentro un’inevitabile contraddizione.

Da una parte ci sono le condizioni di base che garantiscono la vita, dall’altra c’è un tetto ecologico: è fra questi margini che bisogna trovare una forma di vita vivibile per l’umanità e per il resto del mondo vivo sul pianeta. L’imprescindibilità dei limiti, come sostiene l’antropologa Yayo Herrero, fa sì che la necessità di tenerne conto non sia solo una corrente di pensiero fra “ecologisti”, ma una certezza materiale da attraversare.

Da questa prospettiva, rimane una sola domanda per affrontare l’inevitabilità del collasso capitalista: il limite si dà per fascismo o per equità? Ovvero, come ci si schianta (meglio)? O, anche, che cos’è una vita vivibile?

Che cos’è essenziale?

Per capire cosa sia una vita vivibile bisogna parlare di lavoro in senso ampio. Per ora chiamiamo lavoro solo quello salariato e definiamo produttivo la generazione di valore di scambio e l’accumulazione di capitale. Chi genera ricchezza è chi lavora e chi ha ricchezza è chi decide come ci organizziamo politicamente e socialmente. Ciò porta a organizzare e dividere la vita e le risorse in settori economici che tendono a dare priorità al profitto[4].

Parlare di sostenibilità della vita, di cosa si intenda per una vita vivibile e di chi ne ha accesso, è il tentativo di uscire dalla dicotomia fra cura e produzione, fra riproduzione e salario, una separazione che resta funzionale all’asse del mercato. Che senso ha produrre qualcosa se non per riprodurre vite che meritano di essere vissute? Il superamento di questa dicotomia non ha però il solo scopo di includere ogni forma di lavoro nel mercato, bensì di affermare come, allo stato attuale, ciò che si definisce produzione è spesso in conflitto con la vita stessa. Quali vite stiamo ri-producendo quando produciamo?

Una necessaria trasformazione culturale di ciò che è inteso per economico, chiama a un rovesciamento di priorità che passa dallo scambio sul mercato, organizzato nella forma capitalista, al soddisfacimento del bisogno umano di preservare la vita e la qualità della vita. Un’istanza che oramai arriva da più parti: dalla scienza “Jineolojî” del movimento delle donne curde (2012) al paradigma del “Buen vivir” di tradizione Abya Yala[5] (2008); dalla “Gross National Happiness” introdotta nella Costituzione del Buthan (2008) alla definizione di “dignità della creatura” che si trova nella Costituzione svizzera (1992); finanche i Manifesti e gli appelli per una democrazia e una società della cura pubblicati recentemente in diversi paesi occidentali.

Queste esperienze figurano un’organizzazione della società incentrata su un concetto di cura del vivente allargato. Sono pratiche che generano un nuovo quesito: di quali attività abbiamo veramente bisogno come società e di quali possiamo fare a meno? Si intensificano così le pratiche di rifiuto del lavoro che riproduce ulteriore distruzione socio-ecologica, come la rabbia verso la moltiplicazione dei lavori inutili al solo scopo di non intaccare l’ideologia del padrone (Graeber, 2018).

Oltre alla ridistribuzione della ricchezza, anche il condividere il lavoro di mantenimento della vita e del pianeta diventa una misura centrale di giustizia sociale. Insieme alla necessità di democratizzare le scelte intorno a cosa sia essenziale e per chi.

Il paradosso della resilienza

In Italia, durante la pandemia, abbiamo assistito al paradosso di un welfare pubblico in funzione della cura di capitali delle aziende prima che delle componenti sociali. La gestione della crisi economica ha puntato sulla frammentazione dei settori lavorativi e sulla provvisorietà degli aiuti, confermando la logica cinica delle politiche economiche degli ultimi decenni e una scarsa capacità di mettere in discussione il primato della produzione sulla riproduzione.

La condizione di subalternità del lavoro di cura e le logiche interne al lavoro produttivo (salariato) non hanno subito alcuna modifica: ovvero, quale vita stiamo ri-producendo mentre produciamo? O, meglio, come stiamo? non è la domanda che ha guidato scelte e interventi governativi.

La frammentarietà degli aiuti ha perpetuato l’esclusione di tutte quelle attività e soggetti che si occupano di sostenere la vita, basti pensare alla totale invisibilizzazione nei decreti di colf, assistenti familiari (“badanti”) e babysitter, come anche dell’intero settore culturale, o alla sanatoria mancata di braccianti e agricoli. Insomma, di tutti quei lavori dove il corpo è al centro, non solo in termini di manualità, ma perché rappresentativo dell’interdipendenza e dell’ecodipendenza dell’umano.

La provvisorietà degli aiuti stanziati ha dimostrato invece che, neanche questa volta, il governo italiano ha voluto accogliere forme più universali di sostegno economico – come ciò che è stato definito “reddito di emergenza” – né attuare misure volte al riequilibrio delle disuguaglianze economiche nel paese: un sistema di tassazione progressivo, un’imposta patrimoniale, l’innalzamento dell’aliquota (fra le più basse d’Europa) sulla successione di grossi patrimoni o la tassazione delle piattaforme.

D’altronde, il rifiuto di svincolare, o quanto meno di allentare, la remunerazione dalla prestazione lavorativa è funzionale a una gestione economica, del sociale e dell’ambiente, solo in termini di ricapitalizzazione produttiva: la cura diviene terreno di nuove privatizzazioni e la riconversione energetica di nuovi profitti prima che di trasformazione strutturale.

Meme trovato online

Il paradigma di intervento economico messo in atto durante la pandemia si rispecchia nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) approvato a fine aprile senza alcuna interlocuzione con la società civile, le parti sociali, né (quasi) con il parlamento stesso[6]: un piano destinato alla gestione di ingenti e inediti fondi europei per la spesa pubblica italiana. Già dal titolo del documento, il termine “resilienza” sembra indicare una prospettiva generale di adattamento alle diseguaglianze di fondo, annullando ogni possibile alternativa.

Nel documento del PNRR le parole “solidarietà”, “disuguaglianza” e “diritti” appaiono in totale una trentina di volte, mentre “competitivo”, “competitività” e “concorrenza” sono pronunciate circa quattro volte tanto. A partire da questi pesi, non stupisce come la “questione femminile” sia circoscritta a ciò che riguarda il “sostegno alla famiglia” e alla “conciliazione vita-lavoro”.

Come per le librerie, dove autrici e pensatrici sono spesso relegate in scaffali separati, anche per il governo, metà del paese è considerato una sottocategoria. L’obiettivo generale sembra quello di portare il tasso di occupazione femminile ai livelli medi europei (attorno al 60%), una misura considerata di inclusione sociale prima ancora che l’esercizio di un diritto e della cittadinanza.

La finalità ultima di questo obiettivo è l’aumento del PIL, un indicatore di crescita economica che è spesso risultato inadeguato e ingannevole perché incapace di dare conto della distribuzione del reddito, delle esclusioni sociali e della qualità della vita. Nel documento si parla quindi di traguardi senza tenere in conto, né nominare in modo trasversale, l’intreccio delle cause strutturali alla base della discriminazione nei confronti delle donne*[7].

Dalla prospettiva dell’interdipendenza, al contrario, è necessario indicare gli squilibri dell’organizzazione del sistema di riproduzione per nominare la “crisi della cura”, ovvero l’assottigliarsi, negli ultimi decenni, del tempo dedicato a tutte quelle attività che mantengono la vita in vita.

La crisi della cura è uno dei sintomi dell’entrata delle donne nel mondo del lavoro. A questo movimento, infatti, non ha mai corrisposto un movimento uguale e contrario di uomini che hanno assunto il carico di gestione della riproduzione. Il fatto che non si sia verificata una ridistribuzione di queste attività, comporta il doppio e triplo lavoro delle donne, dentro e fuori casa, nel privato e nel pubblico. In un contesto occidentale dove il carico di cura è aumentato a causa di una popolazione più anziana, delle trasformazioni interne alle famiglie e di una crescita delle città che ha seguito logiche incapaci di pensare altre dimensioni che quelle del lavoro e del domestico (se parchi e spazi di prossimità pubblici si riducono, ad esempio, ostacolando l’accesso esterno ai minori, questo implicherà un maggiore investimento di cura genitoriale fra delle mura domestiche).

La conseguenza della crisi della cura, accompagnata dal progressivo smantellamento del welfare statale dagli anni Ottanta in avanti, è stata la sua privatizzazione. Quel comprare prestazioni di cura, da parte di chi può permetterselo, che ha finito per rafforzare le catene di sfruttamento e di precarietà intorno e sul versante della riproduzione sociale.

Sono donne* povere e migranti – in gran parte provenienti dai paesi da cui l’occidente estrae risorse alimentari e minerali – a svolgere lavori di cura in sostituzione del welfare familistico e statale, istituito nel dopoguerra come necessario compromesso fra capitale e lavoro (salariato). In questo senso, il lavoro di cura retribuito si incrocia con quello non retribuito, dentro un contesto culturale e giuridico che lo misconosce e lo disprezza, e lo relega di volta in volta a gruppi sociali considerati “inferiori” o, come si diceva prima, non del tutto umani.

Non è un caso che la parola “migrazione” compaia 19 volte nel testo del PNRR, ma per riferirsi alla trasformazione digitale della Pubblica Amministrazione: la cosiddetta migrazione al cloud. Mentre la parola “immigrazione” compare una sola volta per giustificare gli investimenti in “capitale umano”, volti a rafforzare l’Ufficio del Processo del sistema giudiziario.

Le politiche pubbliche tracciate dal PNRR sembrano così affrontare il problema delle discriminazioni sociali e delle ingiustizie ambientali attraverso risposte che continuano a basarsi sul principio dell’integrazione di gruppi, presumibilmente deficitari, all’interno di un ordine dicotomico che resta immutato (anche la proposta “critica” sviluppata e promossa in questi mesi da Il Giusto Mezzo, “un gruppo di donne della società civile”, non esce dallo stesso orizzonte).

Eppure, il volume del lavoro di cura non sparisce quando alcune persone non-del-tutto-umane entrano nella sfera dei privilegi degli umani; come, anche, la giustizia ambientale non si risolve nella sola transizione energetica della sfera produttiva, piuttosto bisogna cominciare dal “liberarci dalla morale ecologica che pesa sulle nostre spalle, che maschera le relazioni di potere, le asimmetrie sociali e la violenza di questo mondo” (Désobbéissance Écolo Paris, 2020).

Nel PNRR si dichiara che i grossi investimenti annunciati nell’innovazione tecnologica e nella conversione ecologica sono funzionali a creare nuovi posti di lavoro e ad aumentare la competitività al fine “di migliorare la vita dei cittadini”. Ma quali posti di lavoro? E per fare cosa? E in che condizioni?

Siccome i conti della riproduzione quotidiana della vita non tornano più, rispondere a queste domande è diventato sempre più urgente. Non è più possibile programmare la produzione senza farsi carico della riproduzione delle persone, dell’ambiente e del pianeta. In questo contesto, si capisce come la parola “cura”, citata varie volte lungo tutto il documento, risulti di un’ambiguità sconcertante, proprio perché riflette, senza una critica sostanziale, la dicotomia originale tra produzione e riproduzione.

Di conseguenza, il modello di cura presentato nel PNRR italiano risulta frammentario, incapace di dare al paese livelli essenziali di prestazioni per colmare le diseguaglianze reali e, inoltre, manca di una visione che in altri documenti europei, come nel piano di ripresa spagnolo, si tenta di imprimere attraverso l’idea che il welfare non sia una spesa ma un investimento sociale (ad esempio, con la proposta di una economia della cura).

Forse è anche per questo che in Italia, a differenza del documento spagnolo – dove si dedicano diverse pagine al processo di consultazione e monitoraggio dei progetti, in cui viene esplicitato il rapporto con i corpi intermedi, le comunità territoriali, gli enti locali e incontri con la cittadinanza attiva – il monitoraggio del PNRR è assegnato a una sorta di metodo McKinsey con matrici, indicatori e software.

Il mancato coinvolgimento delle parti sociali, nella scrittura come nel monitoraggio di una manovra determinante il prossimo futuro, rende tutto il documento simile a una grande finanziaria che, senza sorpresa, non indaga le cause delle cause delle discriminazioni tra umani – e della conseguente ingiustizia ambientale – ma alimenta quella logica sacrificale in nome del profitto, dove la crescita dell’economia vale sempre la pena. Anche se si compromettono vite e territori, anche se le nostre condizioni di vita, in fin dei conti, non sono migliori.

Viabilità Planetaria Incondizionata

In questi anni, la proposta di un reddito di base universale (UBI, Universal Basic Income) si è fatta spazio fra accademie, policy makers e sperimentazioni su territori e città. L’idea è quella di svincolare la retribuzione dalla prestazione lavorativa. Ciò comporterebbe la ridistribuzione della ricchezza attraverso la tassazione di grossi profitti; una sostenibilità di base per tutt* incondizionatamente; una maggior autonomia economica, in particolare di quei soggetti esclusi regolarmente dal salario; infine, più autodeterminazione nelle scelte riguardanti il lavoro. Ovvero, la possibilità di dire “NO” a ciò che non si vuole, o non si può più fare.

Durante la pandemia, si è rafforzata anche un’altra proposta che punta al rafforzamento del settore pubblico per l’universalizzazione di servizi di base come sanità, casa, trasporti, scuola: UBS (Universal Basic Services, servizi di base universali).

Nonostante UBS nasca in contrapposizione con il reddito di base, alcuni degli elementi di riflessione che apporta sono cruciali. Nello specifico, UBS critica la misura di reddito incondizionato di appoggiarsi alla sola moneta come forma di ridistribuzione e, per questo, di non tenere in conto alcuni limiti che potrebbero darsi in questa prospettiva. Ad esempio, la privatizzazione totale del servizio pubblico che, di fatto, vanificherebbe qualsiasi cifra di base pattuita.

Come scrive il collettivo femminista La Laboratoria, “se hai buoni servizi pubblici, avrai meno bisogno di lavorare tante ore, se hai un accesso dignitoso all’alloggio senza dover pagare affitti enormi, sarai meno soggetto ad accettare eventuali condizioni di lavoro, se non sei obbligato a indebitarti, alla fine del mese sarai meno esposto ad accettare qualsiasi condizione di lavoro” (2020).

L’altra criticità che UBS porta al centro del dibattito riguarda il tema del consumo e della produzione. Intensificare la rete dei servizi pubblici e l’accesso alle esigenze di base, secondo gli autor* della proposta, rappresenta la promozione di una forma di consumo pubblico e condiviso piuttosto che privato e individuale, ed è volto a una gestione dello stesso entro certi parametri di sostenibilità. Come scrive Anna Coote, una delle promotrici, “l’obiettivo è di ottenere sicurezza e giustizia per tutti, ora e in futuro; la sfida è identificare i limiti [fra una base sociale e un tetto ecologico] e considerare come potrebbero essere realizzati nella pratica” (2019).

L’apporto sostanziale di UBS è quello di includere la questione ecologica tra i nodi della trasformazione sociale. Il punto debole della proposta sembra invece essere quello di prevedere misure mirate e non universali, ovvero, entrare in una complicata discussione su chi ha il diritto di accesso ai servizi di base e chi no. Da questo punto di vista, la rivoluzione che ha portato il modello di reddito incondizionato sta proprio nello smettere di dividere le persone in target e di trasformare le nostre relazioni in sistemi di valutazione.

Nonostante le due proposte si definiscono in contrapposizione, penso sia più utile stratificare che sottrarle. Per questa ragione, avanzo una terza proposta speculativa che chiamo “Vivibilità Planetaria Incondizionata”, per unire il desiderio di autodeterminazione che sta alla base della proposta di reddito con il potenziamento delle infrastrutture sociali e la necessaria riduzione dei consumi globali.

“Vivibilità” sta per l’urgenza di definire le nostre esistenze fra plausibili margini di sostenibilità e il bisogno materiale di servizi pubblici e comuni. “Planetaria” si contrappone al falso mito dell’universalismo dei diritti e li ricostruisce in un comune allargato anche di animali e terre. “Incondizionata” sta per quel radicale esercizio di fiducia che la proposta di un reddito per tutt* ha messo al centro, rifuggendo ogni suddivisione fra esseri umani.

È il momento per tendere l’arco

Nel 2019, la scrittrice Arundhati Roy scriveva: “Per prepararci a quanto ci aspetta, per attrezzarci di strumenti con cui pensare l’impensabile, le vecchie idee non serviranno”. Guarire dalla malattia culturale che ci affligge necessita infatti di parole che rompano i vincoli del linguaggio esistente: osare sporgersi per ri-cominciare quel paziente lavoro di decostruzione e ricostruzione fatto di nuove pratiche, segni e simboli. Abbiamo bisogno di figurazioni e di tentativi, pensare pensare dobbiamo.

Ursula K. Le Guin, in un discorso di ringraziamento per The Medal for Distinguished Contribution to American Letters. Illustrazione di Dylan Meconis.

Se il PNRR è costellato di parole vuote e riferimenti superati come crescitaconsumo e impresa, e punta sulla grande industria, l’infrastruttura pesante e l’alta velocità, senza tenere in conto quanto la fragilità dei nostri territori e dell’ambiente sia la fragilità dei nostri corpi e delle nostre vite; al contrario, le pratiche di cura dal basso, che ri-emergono a ogni intensificazione della crisi su territori e network digitali, ci mostrano un’altra idea di welfare.

La proliferazione delle reti sociali, risultate necessarie anche in pandemia, prefigura un welfare che non sia più compromesso fra capitale e lavoro (salariato) ma fra pianeta e vivibilità; un welfare non più misura di protezione del salario ma esercizio planetario di vivibilità. Attraverso pratiche di vicinanza radicale, queste fragili intuizioni definiscono nuovi sistemi di valore e altre forme di organizzazione.

Si confrontano sulle parole di cui abbiamo bisogno e su quelle che dobbiamo saper scartare per rinominare il mondo. Mettono in pratica quella “Vivibilità Planetaria Incondizionata” verso cui i governi nicchiano e delegano. E continuano a generare domande: sopra il muro di chissà quale città, c’è chi chiede se un’altra fine del mondo è possibile.

[1] I risultati della ricerca sono stati presentati alla conferenza “2020 International Conference for High-Performance Computing, Networking, Storage, and Analysis”.

[2] Secondo lo studio condotto dall’istituto di sondaggi Ipsos per la onlus We world e intitolato La condizione economica femminile in epoca covid-19.

[3] In Situated Knowledges: The Science Question In Feminism And The Privilege Of Partial Perspective (1988)Donna Haraway rinomina il sistema capitalista, etero-patriarcale, colonialista, razzista, estrattivista, distruttivo di ambiente e vita, … come “questa cosa scandalosa”.

[4] Basti osservare, in piccolo, la crescente concentrazione di ricchezza in Italia: fra il 1995 e il 2016, circa 25 milioni di persone hanno sperimentato un forte declino del reddito, mentre i 500 mila più ricchi hanno aumentato la loro ricchezza dal 16% al 22%; di questi, lo 0,01% ha triplicato i profitti passando dall’1,8% al 5%.

[5] Abya Yala è il nome usato dalle prospettive decoloniali per riferirsi all’America Latina.

[6] In tal senso, la profusione di organismi tecnici per la gestione del PNRR è indicativa del totale scollamento fra scelte e società.

[7] Donne* sta qui a indicare un’accezione molto più ampia dei corpi discriminati dal sistema economico capitalista, come, ad esempio, le persone lgbtqi+.

Bibliografia

  • Ashauer, Günter. 1973. Grundwissen Wirtschaft.
  • Désobbéissance Écolo Paris. 2020. Écologie sans transition.
  • Di Cesare, Donatella. 2020. Virus sovrano? : l’asfissia capitalistica.
  • Dinerstein, Ana C. 2019. Dov’è la sinistra?
  • Graeber, David. 2018. Bullshit Jobs.
  • Pérez Orozco, Amaia. 2015. La sostenibilidad de la vida en el centro… ¿y eso qué significa?
  • Praetorius, Ina. 2019. L’economia è cura.
  • Roy, Arundhati. 2019. Il mio cuore sedizioso.
  • Ulrich, Peter. 2008. Integrative Wirtschaftsethik. Grundlagen einer lebensdienlichen ökonomie.
  • Vergès, Françoise. 2019. Un femminismo decoloniale.
  • Weber, Andreas. 2013. Towards a fundamental shift in the concept of nature, culture and politics.

Questo articolo è stato pubblicato su Qcodemag il 3 giugno 2021.

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