di ANNA GUERINI.
Pubblichiamo la relazione di Anna Guerini al Seminario di EuroNomade: “Riproduzione sociale: sguardi, lotte, scenari”, 2-3 novembre 2024
Con questo intervento vorrei provare a indicare le questioni che l’analisi della riproduzione all’interno della congiuntura di guerra ci permette di vedere. In termini preliminari, penso che discutere di riproduzione sociale e congiuntura di guerra consenta una doppia operazione: da un lato, permette di guardare al modo in cui la guerra impatta la riproduzione sociale e la modifica, dall’altro, e viceversa, la riproduzione sociale può essere assunta come l’angolatura prospettica che, per eccellenza, consente di interrogare quello che abbiamo definito regime di guerra, i suoi elementi, la sua azione e i suoi effetti. Un regime di guerra che tale è perché si concretizza nella moltiplicazione e nell’estensione dei fronti di conflitto, ma anche perché la logica di guerra mira a definire e saturare l’orizzonte epistemico e i margini dell’intervento politico, istituzionale e non, su tutti i livelli. A mio modo di vedere, invece, assumere la riproduzione sociale come terreno, analizzandone le trasformazioni, consente di capire fino in fondo in che senso il regime di guerra implichi l’affermazione di una logica stringente che impone i suoi effetti anche dove e quando le bombe non cadono, e quindi, potenzialmente, di disertare da essa e dall’ingiunzione a ragionare per campi e fronti. Ciò significa che quello che abbiamo chiamato “arruolamento sociale” alla guerra, e quindi la diserzione sociale, passa per il riconoscimento di queste trasformazioni, o quantomeno delle direzioni tendenziali che le determinano.
Prima di approfondire l’impatto della guerra sulla riproduzione, ci tengo a sottolineare un punto rispetto alla riproduzione sociale, richiamando un testo di Alisa Del Re del 2016: quale che sia il piano in cui si svolge la riproduzione – biologico, materiale, affettivo, culturale –, la riproduzione è sempre sociale, è sempre determinata da forme di comando diretto e indiretto, organizzato da leggi, dalla spesa pubblica, da costumi, e ovviamente, da gerarchie razziali e di classe. La riproduzione scivola continuamente dal privato al pubblico perché le possibilità e le coordinate anche della riproduzione più semplice, fare un figlio, sono socialmente determinate, a conferma del fatto che quello tra i sessi e tra i generi è un rapporto sociale, e che dal modo di intenderlo dipende la visione complessiva sulla formazione, l’esistenza e le relazioni tra persone e tra persone ed ecosistema. Non intendo, con questo, negare che le attività che ascriviamo alla riproduzione siano mosse anche da affetti e richiedano un “plus di cura”, o che siano essenziali alla vita prima ancora che alla riproduzione della forza lavoro, e non intendo nemmeno sostenere che tutta la riproduzione è comandata e catturata sempre e necessariamente. Voglio piuttosto sottolineare una volta di più che la riproduzione si fonda sulla divisione sessuale del lavoro, richiamando il gesto demistificante proposto dal femminismo marxismo degli anni Settanta, che ci spinge a individuare la subordinazione e lo sfruttamento all’interno di relazioni e spazi che sembrano esterni alla dinamica della produzione e alla legge del valore, e che invece la rendono possibile. Negli ultimi decenni, la riproposizione di questo gesto ha mostrato che la riorganizzazione della riproduzione «a salario minimo e a sfruttamento integrale» a partire è basata sempre di più sulla privatizzazione dei servizi e su meccanismi di selezione del lavoro, soprattutto migrante, che articolano le “catene globali della cura”, le quali, insieme alle supply chains, organizzano i flussi di lavoro e di sfruttamento nel mercato globale.
Credo sia utile cartografare i diversi modi in cui la congiuntura di guerra si traduce in guerra alla riproduzione sociale, tenendo a mente il minimo comun denominatore di queste diverse modalità, vale a dire il fatto che durante i conflitti le donne subiscono una violenza specifica, il cui effetto, oltre che materiale, è simbolico, perché alle donne si attribuisce il compito di riprodurre non solo forza lavoro, ma anche gli insiemi identitari, tendenzialmente definiti attraverso il lessico del popolo e della nazione. Si deve partire da Gaza, dove assistiamo da più di anno – ma, a ben guardare, da un paio di decenni, e lo stesso vale per la Cisgiordania – al tentativo sistematico di smantellare la riproduzione. Da un lato perché le bombe israeliane hanno ripetutamente colpito le sue infrastrutture – ospedali, scuole, strutture per gli sfollati, e ovviamente, interi quartieri residenziali, tanto che sono state coniate espressioni nuove per descrivere quanto sta accadendo, domicidio, urbanicidio e genocidio riproduttivo. E le operazioni di sabotaggio da parte di gruppi sionisti alle catene di distribuzione degli aiuti al valico di Rafah, e gli attacchi mirati ad ambulanze, operatori di associazioni legate o meno alle nazioni unite perseguono il medesimo obiettivo. Dall’altro lato, lo stato di assedio dichiarato immediatamente dopo il 7 ottobre si è tradotto nel definitivo taglio delle risorse idriche, elettriche, dell’approvvigionamento alimentare, con l’obiettivo dichiarato di cancellare alla radice la possibilità di riprodursi per la popolazione Gazawi. Va rilevata una questione, che è vera in qualsiasi contesto di guerra, ma è particolarmente evidente in questo caso: la guerra ha la capacità di disattivare, o quanto meno di mettere tra parentesi, le mobilitazioni sociali che complicano l’unità del popolo, anche di un popolo come quello palestinese, che da più di 70 anni resiste all’insediamento coloniale di Israele, e con questo conflitto le rivendicazioni delle donne e dei giovani palestinesi degli ultimi anni, che riguardavano proprio la violenza sulle donne e di genere e l’organizzazione delle forme di vita, sono necessariamente state messe da parte, sostituite però da una articolazione identitaria su scala regionale che mi lascia più di qualche dubbio sulle possibili prospettive di quelle lotte.
Il caso ucraino è altrettanto significativo, anche se differente: anche in Ucraina le infrastrutture sono state materialmente distrutte dai bombardamenti e svuotate dallo sfollamento, ma ricercatrici e attiviste femministe hanno sottolineato che la complessiva riconfigurazione della riproduzione sociale è dovuta anche a una politica di tagli alle strutture ospedaliere, ai servizi scolastici e a quelli per gli anziani, che era già iniziata prima dell’invasione russa del febbraio 2022 e che la guerra ha chiaramente intensificato. Siccome non possiamo guardare solo alla distruzione della riproduzione, ma dobbiamo saper individuare i modi in cui la cooperazione sociale si riorganizza – e questo vale anche per Gaza e la Cisgiordania –, ci tengo a evidenziare che questa politica di “ottimizzazione” della spesa pubblica ha sollecitato la nascita di infrastrutture informali, più o meno politicizzate, che supportano la riproduzione sociale, in particolare degli sfollati e dei rifugiati. Di queste infrastrutture informali si fanno carico singoli, soprattutto le donne, insieme ad associazioni e attivisti, con l’obiettivo di riempire dal basso le lacune causate dalla politica di tagli, dalla pandemia e dalla guerra; queste dinamiche ci mostrano la riproduzione sociale non si può interrompere, perché dall’insieme di attività lavorative che la compongono dipende non solo il funzionamento della produzione capitalistica, ma molto più prosaicamente – e nella congiuntura di guerra ciò è evidente – la vita degli individui e la stessa cooperazione sociale. Ovviamente, il caso ucraino presenta un’ulteriore caratteristica, che è risalente: notoriamente l’Ucraina, come la Moldavia e la Romania, sono snodi nevralgici delle catene della riproduzione sociale, quantomeno europea, visto che la maggior parte della forza lavoro impiegata e sfruttata nelle case, negli ospedali e nelle case di cura d’Europa viene da quei paesi. Per osservare complessivamente l’impatto della guerra sulle catene del lavoro riproduttivo, quindi, bisogna guardare anche al modo in cui concorre alla ridefinizione del regime di governo dei flussi migratori a livello europeo e agli effetti di quest’ultimo in termini di ricattabilità, sfruttamento e subordinazione. Aggiungo una postilla: il fatto che l’Ucraina fosse il granaio d’Europa, e che dal suo territorio passino i condotti che ci riforniscono di gas non è irrilevante, e la crisi tedesca ce lo dimostra. Ragionare sul regime di guerra a partire dalla riproduzione sociale credo mostri anche che le materie prime variamente intese concorrono a definire le possibilità della riproduzione, e forse sarà opportuno ampliare le nostre riflessioni e inchieste sulle condizioni della produzione alimentare, del lavoro agricolo e sul modo in cui le catene del valore e le politiche migratorie impattano anche in questo senso.
A questo punto, mi soffermo sulla congiuntura di guerra dentro la quale questi due conflitti, diversi tra loro, stanno insieme, una congiuntura che va complicandosi giorno dopo giorno e che si complicherà ulteriormente dopo le elezioni americane. La mia intenzione è estendere il quadro oltre questi due fronti, due tra tanti. Credo che il riferimento alla congiuntura di guerra come momento e sintomo di un caos sistemico sia particolarmente efficace, perché permette di chiamare in causa la trasformazione complessiva degli assetti globali del capitale, che non però sembra implicare una “classica” transizione egemonica. Anche se le differenze rispetto ai cicli egemonici del passato si fanno via via più visibili, la guerra conserva la sua funzione classica di vettore di alterazione dei flussi del valore, e, parallelamente, mi sempre che un’altra tendenza rimanga costante, vale a dire la ridefinizione della funzione degli Stati, degli assetti regionali, sempre più rilevanti e mutevoli, delle organizzazioni internazionali variamente intese, e, quindi, degli attori che comandano la riproduzione sociale. Alla luce di tutto questo, credo che l’analisi della riproduzione sociale permetta di guardare al caos sistemico da un punto di vista privilegiato perché “produttivo” – almeno quanto il regime di guerra stesso – perché permette di sviluppare una critica complessiva dell’ordine sociale che, a partire dalla determinante denuncia della violenza sulle donne e di genere in tutte le sue forme interroga la funzione e la strumentalità di quella violenza, tanto rispetto alla retorica dei nazionalismi, che è parte integrante della logica di guerra, quanto rispetto all’incremento della subordinazione necessario alla riorganizzazione del capitale nella crisi. Dentro al caos sistemico, quindi, credo che gli strumenti della teoria della riproduzione sociale ci consentano di identificare le gerarchie che strutturano il capitale in quanto rapporto sociale, e gli attori che le rideterminano, e quindi di interrogare i modi in cui patriarcato e razzismo agiscono congiuntamente nell’organizzare flussi di merci, dati, persone, con l’obiettivo di estrarre valore. Questo vale, ovviamente, anche per la riorganizzazione di questi flussi nelle fasi e nei progetti di “ricostruzione” post-bellica che incominciano a delinearsi.
In termini generali, credo che sia necessario interrogarci sugli effetti avrà questa congiuntura nella riconfigurazione della eterogenea composizione del lavoro vivo. Soprattutto perché, e su questo le riflessioni di Toni Negri e Micheal Hart sono preziose, la trasformazione neoliberale si regge in larga parte sullo sfaldamento dei confini tra produzione e riproduzione, vita e lavoro, sul cosiddetto “divenire donna” del lavoro – espressione che tiene insieme molteplici questioni, su cui sarà probabilmente opportuno tornare –, sulla messa a valore dei talenti della cura, della relazionalità, della comunicazione. Funziona come un mulino a vento che mette a valore l’energia sociale complessiva e, parallelamente, segmenta la cooperazione sia tramite tecniche di disciplina, di sorveglianza, di individualizzazione, che mediante lo smantellamento delle istituzioni educative e sanitarie e delle reti cooperative.
Alla luce di questo, è possibile sollevare alcune questioni. In che modo la digitalizzazione delle infrastrutture della riproduzione sta incrementando la messa al lavoro sfruttata di donne e migranti? È possibile appropriarsi di questa dinamica per rovesciarla? In che modo la logica di guerra altera il drenaggio di energia dalle relazioni biopolitiche, che riguardano proprio l’ambito della cura, degli affetti, dei servizi, del lavoro digitale e intellettuale? E in che modo possiamo rendere evidente la connessione tra queste relazioni, che sembrano confinate nell’immateriale, e il materialissimo attacco alla riproduzione che la guerra causa? A mio modo di vedere, sottolineare che la riproduzione è sociale è utile proprio perché ricorda che a svolgere quelle attività lavorative, che la pandemia ci ha mostrato essere “essenziali”, sono persone, tendenzialmente donne e migranti, non pagate o sottopagate, e ricattate dalla legislazione sul permesso di soggiorno.
Provando a tirare le fila del discorso, credo si possa dire che riflettere sulla riproduzione sociale dentro la congiuntura di guerra obbliga a chiederci chi riproduce che cosa e in quali condizioni, nel contesto di un’economia di guerra e poi nell’economia della ricostruzione. Vale in Ucraina, a Gaza, in Libano, in Sudan, ma anche qui da noi, pur con intensità ben differenti, perché ciò che si riproduce, o meglio, ciò che siamo chiamate a riprodurre, non è solo la forza lavoro e la forza militare, ma anche un’ideologia di guerra e dei soggetti addomesticati alla guerra, proprio perché la guerra sta fornendo la logica di riorganizzazione dei rapporti sociali, economici e culturali, con l’obiettivo di riprodurre, prima di tutto, sé stessa. Il che non toglie, ovviamente, che dentro la riproduzione, nel tentativo di riappropriarsene e di riscriverla, si delineino delle soggettività potenzialmente rivoluzionarie, ma la sfida, la rivoluzione, sta nella capacità di svincolare riproduzione e subordinazione. Il caso italiano è emblematico da questo punto di vista, e, senza voler cedere a una lettura localista, voglio richiamare alcuni elementi. Il regime di guerra si sta dispiegando con l’intensificazione del familismo, simbolicamente rappresentata dall’attacco all’aborto e dalla definizione della Gpa come reato universale, un familismo che va di pari passo con un regime di warfare, prospettato dalla legge di bilancio, che si tradurrà in aumentata privatizzazione e, quindi, nell’intensificazione dello sfruttamento e nell’impoverimento complessivo; parallelamente, stiamo assistendo all’inasprimento delle politiche di governo delle migrazioni, che vede il programma di deportazioni e rimpatri stilato tra Italia e Albania diventare un possibile modello, come mostrano il caso inglese e le dichiarazioni del nuovo commissario europeo per l’immigrazione, e che passa per il rinnovo di accordi di collaborazione con la Tunisia e la Libia. Il cosiddetto decreto sicurezza, d’altro canto, credo chiarisca cosa significa arruolamento sociale alla guerra, perché si presenta come uno strumento di guerra preventiva alla diserzione sociale, che punta a colpire le reti di solidali che, in mille forme, sviluppano ipotesi di riarticolazione della riproduzione cooperativa e libera dallo sfruttamento.
Chiudo con un accenno ai tagli alla ricerca e alla riforma del reclutamento universitario, coerente con la politica di precarizzazione e privatizzazione e funzionale a riprodurla: il finanziamento alla ricerca è uno degli strumenti più potenti e più dissimulati del regime di guerra, come mostra lo sviluppo di progetti e brevetti che si prestano alla doppia funzione, civile e militare. Però, e il fatto che questo seminario si svolga in università lo dimostra, l’università e la ricerca possono contribuire alla creazione di una riproduzione differente, alimentata da una prospettiva femminista, che ci ricordi che la logica di guerra obbliga allo schieramento rispetto a dimensioni statali e nazionali, utili alla rideterminazione di fronti interni ed esterni da cui trae tendenzialmente vantaggio proprio la valorizzazione del capitale.