Di FEDERICO TOMASELLO
Divenni comunista per via calcistica, a dieci anni. Il giorno in cui 25 miliardi di lire della Juventus strapparono Roberto Baggio all’amore di Firenze. Mi apparve in quel momento limpida e inaccettabile la contraddizione di un mondo in cui il denaro aveva diritto di spezzare i sogni di un bambino e il sentimento nobile, profondo e corrisposto che ci legava al nostro campione. Cercai il nome di quella contraddizione e scoprii quello del capitalismo. Il 7 aprile 1991, Baggio tornò a Firenze e, al quinto minuto del secondo tempo, rifiutò di battere il rigore contro la Fiorentina. Infuriato, l’allenatore lo rispedì negli spogliatoi: rientrandovi, Baggio raccolse e baciò una sciarpa viola lanciata dagli spalti – un gesto che gli costerà molto. Quella mi parve la rivincita dell’amore sul denaro, il sussulto di una vita che valeva la pena di essere vissuta. Ne cercai un nome e trovai quello del comunismo. Le sue rosse vestigia presero così il posto del viola nel colorare la mia adolescenza. Destino infausto, che poneva immediatamente il problema della confessione a cui votare la mia nuova fede comunista, in una galassia vasta quanto frammentata e litigiosa. Da questo gorgo irruppe, misterioso e maledetto, il nome di Toni Negri.
A tredici anni, popolai la porta della mia camera di ritagli di giornali e riviste che testimoniavano il bizzarro pantheon eletto a rappresentare l’adolescenza esistenzial-comunista sorta dal lutto di Robi Baggio. Un universo confuso in cui svettavano Che Guevara, la triade Morrison-Hendrix-Joplin, Charles Baudelaire, la pantera nera, Bob Marley e… la foto di Toni Negri strappata da un articolo di Repubblica. Nella vita e nell’opera di quel filosofo passato attraverso le patrie galere e l’esilio intuivo un modo potente d’interpretare un’esistenza comunista, di incarnarla in una postura militante che mi sembrava al tempo stesso determinata e gioiosa, di declinarla in una combinazione di politica ed esistenza in grado di accogliere la mia smania di abitare l’epoca cui ero consegnato con entusiasmo, passione e curiosità – libero dal torcicollo delle sinistre nostalgie verso un passato migliore.
Nato da questa dimensione emotiva, l’interesse verso ciò che Toni aveva fatto, detto, scritto, pensato è poi divenuto una sorta di bussola per guardare la vita e che avevo intorno. La condizione nuova della mia generazione, sorta dalla crisi del nesso fra lavoro e cittadinanza che aveva segnato il Novecento (l’operaio sociale). Il vento di trasformazione che improvvisamente spirava dal Chiapas zapatista ai Forum Sociali Mondiali fino alle strade di Genova nel 2001 (la moltitudine). Un modo di leggere Marx sempre attuale perché volto a farne un dardo da scagliare al cuore del presente e un metodo d’inchiesta del futuro (il postfordismo). E innumerevoli altre intuizioni “negriane”, che restano come indispensabili chiavi di lettura anche dopo il falò di molti sogni. Come quelle sul valore e sul lavoro, che mi hanno permesso d’iniziare ad esplorare i meandri dell’economia digitale e delle piattaforme attraverso una mappa concettuale densa e rodata.
Così, quando a trent’anni ho avuto la fortuna di conoscere Toni, è stato come da bambino incontrare Robi Baggio. E dal privilegio di collaborare con lui, poi, ho certamente imparato molto, ma soprattutto ho potuto fare esperienza di un’insaziabile curiosità verso il mondo, di una passione per la vita la cui matrice mi è parsa indissolubilmente legata a un modo d’interpretare l’esercizio del pensiero e la sua potenza, di un’energia incredibile che ha reso tanto viva la sua vita. Un dono unico, che ha finito per lasciare segni indelebili su chiunque abbia incrociato la scintilla di Toni Negri.