di FRANCESCO FESTA.
All’indomani della manifestazione Block BCE del 2 ottobre, puntuale come una sentinella (in piedi?), Roberto Saviano pubblica un articolo d’antologia, in cui lancia accuse di correità, ricostruisce realtà romanzate, detta i tempi di un presente e un passato della politica nazionale senza soluzione di continuità: un capolavoro di narrazione tossica. Nel frattempo, nell’incedere narrativo imbocca la scorciatoia pregiudiziale delle interpretazioni lineari e dicotomiche: alla devianza si frappone la normalità, al passatismo la modernità, mentre la bilancia naturalmente pende su uno dei due termini o a causa del contesto storico e geografico che condiziona psicologia, comportamenti e condotte di coloro che lo vivono; oppure perché diviene stigma di stratificazioni storiche tradotte in un minestrone di osservazioni scontate e luoghi comuni più volte rimestati. E soprattutto, di considerazioni che fanno leva su incubi e paure sociali: ma che, nondimeno, servono come materia da scoop – e per scalare, perché no?, le vette dei best seller.
Nell’articolo Saviano non solo abusa di questa lettura dicotomica, ma vi aggiunge un supplemento di paura e terrore, compiendo un’operazione a suo modo magistrale. Dapprima nota come la «sinistra radicale napoletana» sia «tra le più immobili e reazionarie del panorama politico europeo»; poi affonda il carico da novanta, sostenendo che essa «sconta la miopia di aver sempre interpretato la camorra come una sorta di resistenza antiborghese, come una risposta alla miseria»: i suoi militanti «portavano e portano avanti una sorta di connivenza ideologica che andava oltre, e probabilmente intendeva giustificare il quotidiano rifornirsi di tutte le droghe possibili, come il collaboratore di giustizia Maurizio Prestieri ha raccontato: “A Napoli i ragazzini di estrema sinistra compravano fumo, coca, eroina, acidi e noi con quei soldi pagavamo le campagne elettorali della destra”».
A memoria, è uno dei pezzi più esemplari scritti dal maître à penser della sinistra italiana; egli allestisce un pot-pourri interpretativo dal dubbio profumo, da far invidia a Carlo Giovanardi. Va da sé che, nel bene o nel male, parlare di Roberto Saviano è un esercizio retorico piuttosto scontato; ancor più lo è rispondergli dialetticamente, poiché ci mantiene su un terreno poco interessante, da cui è difficile uscire senza attaccarlo con le sue stesse armi, quelle dei luoghi comuni e dei refrain. Lo scrittore ha infatti la capacità di intervenire sul reale per mezzo di rappresentazioni, che interpretano e costituiscono la realtà in qualità di partecipanti della stessa natura del potere – che hanno la capacità di istituire, di autorizzare se non di legittimare. Meglio, dunque, indagare la funzione della macchina-Saviano, l’ordine del discorso che regge i suoi scritti, in che modo quest’ultimi attivino una straordinaria macchina ideologica. In altri termini: che cos’è e come funziona il “dispositivo-Saviano”.
Attraverso una descrizione morale di un gruppo sociale o, come in questo caso, di gruppi della sinistra radicale, il dispositivo-Saviano è in grado di produrre narrazioni che si reggono su degli incubi, per lo più atavici. Incubi da cui guarire attraverso un processo dicotomico: una lotta fra bene e male, inferno e paradiso, fra realtà da sanare come problema antropologico. Una raccolta di suoi articoli s’intitola non a caso L’inferno e la bellezza: essa fa eco a uno dei refrain letterari e pittoreschi tra i più noti della storia delle classi subalterne meridionali, ripreso da Benedetto Croce nel 1923 proprio per designare il campo della rappresentazione, gli estremi della dialettica: “Un paradiso abitato da diavoli”1.
La ragione per cui il dispositivo-Saviano è in grado di sdoganare questi luoghi comuni s’annida in quel “senso comune” sorretto dalle verità del “rappresentare” , ossia da immagini cristallizzate e, molto spesso, corroborate da saperi scientifici utilizzati in ambiti processuali come verità giudiziarie. D’altro canto, «la misura delle grandezze e delle molteplicità» dei saperi o delle informazioni diviene «istituzione di un ordine» quando designa un campo di verità, uno spazio in cui interagiscono due tipi: con Foucault sappiamo che ciò che è di «grande portata per il pensiero occidentale» è proprio il confronto di due tipi – e solo due! – in rapporti di “somiglianza” e “differenza”. Vale a dire: «l’uno analizza in unità per stabilire rapporti d’uguaglianza e di disuguaglianza» mentre «l’altro fissa degli elementi, i più semplici che possano rinvenirsi, e dispone le differenze secondo i loro gradi meno pronunciati»; quest’ordine o confronto si stabilisce sul «fondamento della concatenazione nella conoscenza»; quindi «una cosa può essere assoluta sotto un certo rapporto e relativa sotto altri; l’ordine può essere, a un tempo, necessario e naturale e arbitrario, dal momento che una stessa cosa a seconda del modo in cui la si considera può essere collocata in un punto o in un altro dell’ordine»2.
Vien da sé che, disponendo le informazioni in un certo modo, la realtà romanzata di Saviano diviene “atto assoluto”, giornalismo come testimonianza autorevolmente in grado di produrre il “senso comune” e indirizzare quella materia assai conformabile che è l’opinione pubblica, che è, secondo Gramsci, l’«opinione media di una società», la «morale più diffusa» sedimentata in un campo incessantemente e ambivalentemente penetrabile dai «luoghi comuni». La sfera in cui si muove il senso comune sono le ragioni che mantengano in vita i calchi e i modelli di un “ordine del discorso” indirizzato contro qualcosa o qualcuno: vuoi contro i napoletani poiché conniventi con la criminalità organizzata, vuoi contro i centri sociali e la sinistra radicale perché consumati e corrivi con la criminalità organizzata, e via discorrendo. Insomma, in azione c’è un dispositivo dicotomico cui si annette un surplus di incubo.
In verità non è neanche molto difficile insistere sul Meridione – da almeno un paio di secoli forse la regione d’Europa più stretta in tenaci stereotipi interpretativi: luogo dell’arretratezza, della diversità e dell’inferiorità, esso fornisce un catalogo di eccezioni che oscilla lungo l’intersezione tra una diversità antropologica e certe dirette conseguenze in termini economiche, sociali e politici. Secondo i frame storici, cui sovente attinge il dispositivo-Saviano, i meridionali sono passionali, indisciplinati, ribelli, individualisti e, soprattutto, inabili alla formazione di una cultura razionale, civica, ordinata. Ne consegue che il contesto sociale sia sottosviluppato a causa del clientelismo, delle relazioni gerarchiche e patriarcali, e che su tali condotte pubbliche s’innervino le varie forme di manifestazione del crimine organizzato o dell’illegalità diffusa: ecco predisposto il materiale da dare in pasto alle inchieste giornalistiche e ai best-seller, alle fiction e ai documentari televisivi, per la gioia del pubblico pagante.
All’interno di questo frame trova terreno fertile il dispositivo-Saviano: «a partire da una descrizione del territorio apparentemente accuratissima, pagina dopo pagina si fa descrizione morale di una popolazione preda inguaribile dei suoi incubi atavici, dunque lotta fra Bene e Male, ove il male è tanto assoluto da non potere postulare che un intervento radicale, ossia portato alle radici antropologiche della questione: un intervento dello stato- chirurgo sul cancro-popolazione»3.
Nondimeno occorre distinguere due fasi storiche e politiche dell’azione di questo dispositivo. Vale la pena annotare uno slittamento ermeneutico tra una prima fase risalente a Gomorra e una seconda che culmina nel suo ultimo Zero Zero Zero. Nella prima, le informazioni utilizzate erano raccolte in prima persona, avvalorate dalla testimonianza diretta: “io lo so, io c’ero”. Nell’ultima, il Saviano 2.0 monta informazioni di seconda mano, rilegittimando l’autorevolezza delle fonti ufficiali tipo rapporti di polizia, un metodo assai abusato nell’accademia italiana dalla storiografia di Renzo De Felice e dei suoi allievi (che finisce, volontariamente o meno, per riscrivere e riabilitare la storia di Mussolini e del regime fascista nei manuali scolastici). Inoltre, mentre il Saviano 1.0 rivendicava gli strumenti della critica dell’economia politica per complicare la lettura criminal-giudiziaria, il Saviano 2.0 fa dell’economico un’appendice del criminale. E, non in ultimo, il Saviano 2.0 è una macchina che scrive a prescindere da quello che accada, poiché dispone della chiacchiera, del ricordo deformato dal rancore: non l’inchiesta sul campo, ma il sentito dire. Saviano 2.0 non sa nulla dei centri sociali, non sa chi e come parteciperà al Blockbce, quali saranno le parole d’ordine: dal momento che deve consegnare prima del corteo l’articolo a l’Espresso, questo deve restare in uno spazio di ambiguità, poiché non sa come andrà a finire. Non è stare sulla notizia, ma anticiparla, producendo l’informazione, il “senso comune” e l’“opinione pubblica”4.
D’altro canto, il dispositivo-Saviano è una macchina già rodata da Giorgio Bocca e ripresa dai più recenti Gian Antonio Stella5 o dall’enfant prodige di Indro Montanelli, Marco Travaglio. Costoro adoperano tutti lo stesso metodo: prendiamo Bocca, ad esempio. Nel 1990 non esitò a partire lancia in resta contro le regioni meridionali infestate dalle mafie: la divaricazione tra Nord e Sud dei risultati elettorali lo spinse a ricondurre le cause alla classe politica trasformista e corrotta, con radici ben solide nella società meridionale, incapace di comprendere il senso della modernità, ma pronta a concedere tutto al proprio pessimo elettorato in cambio di sostegno. Resoconti raccolti nel volume, L’inferno6, nel cui titolo già s’intravedono le prime tracce del dispositivo-Saviano. Ed effettivamente il libro è pregno di allusioni storiche, di descrizioni scontate, pittoresche e paesaggistiche vecchie di secoli. Fra tutte, il famoso adagio del Mezzogiorno paradiso, ma popolato da diavoli. Benché in più occasioni sia Bocca che i suoi successori abbiano tentato di fugare le accuse di antimeridionalismo o addirittura di razzismo, la capacità di pontificare sui mali oscuri del Mezzogiorno, la costruzione dell’alterità cui attribuire responsabilità ataviche, la lettura dicotomica per additare nemici da combattere, appaiono senza dubbio straordinarie. Dai quartieri ai costumi, dalle istituzioni agli atteggiamenti, tutto è un’indistinta rappresentazione di atti se non criminogeni per lo meno conniventi o corresponsabili. Nessuno di questi intellettuali, però, ha mai sollevato qualche dubbio in merito a possibili connivenze tra apparati dello stato e criminalità organizzata. Anzi, qualora l’abbiano fatto, hanno sempre ignorato nomi e responsabili politici. Ad es. nessuno di questi intellettuali ha sollevato dubbi rispetto alla secretazione, voluta nel 1997 dall’allora Ministro degli Interni Giorgio Napolitano, delle dichiarazioni di Carmine Schiavone sui territori colpiti e i luoghi dove venivano interrati i rifiuti tossici prodotti dal capitale industriale europeo. Così come nessun dubbio è stato mai posto sull’indispensabile ruolo che la la criminalità organizzata svolge all’interno del controllo, da parte dello Stato, delle metropoli, nel comando esercitato sulla forza lavoro meridionale per sfruttarne le risorse, nell’estrazione di plusvalore dai commons.
Gli stereotipi sono utilissime scorciatoie per soffermarsi icasticamente sul dito: per parlare genericamente delle società meridionali piuttosto che registrare come il sistema politico favorisca una determinata classe proprietaria. Nelle realtà romanzate, il rischio incombe da Sud verso tutto lo stivale se non addirittura verso tutto il continente europeo: in una sorta di materialismo geografico dell’illegalità e dell’immoralità, il dispositivo-Saviano ha più volte registrato il rischio che il Sud infetti le società europee. Tanto per Bocca quanto per i suoi successori, il degrado meridionale, «anziché eccezione nel panorama nazionale” diviene “mostruosa raffigurazione di una linea di tendenza ormai generalizzata»7.
Di tanta superficialità e banalità varrebbe veramente la pena di fare a meno. Disintossicarsi da queste narrazioni, decostruire i dispositivi ideologici mediante un semplice esercizio di critica; i nostri “eroi”, però, evitano astutamente di adoperarla. Basterebbe chiedersi se l’immoralità e l’illegalità non siano consustanziali al neoliberismo, a un sistema di accumulazione che si fonda sulla produzione di soggettività individualiste, concorrenti e imprenditoriali: ossia macchine che devono giocoforza calpestare e violare qualsiasi regola e legge pur di accumulare profitti e rendita.
L’azione di questi intellettuali o il dispositivo-Saviano chiamano in causa quanto già Gramsci denunciava nella prima metà del secolo scorso: la loro capacità di esercitare “egemonia” nelle classi subalterne, a tal punto da sollecitare forme di auto-inferiorizzazione. L’intellettuale meridionale, notava Gramsci, si è formato alla scuola crociana e funge da «miglior agente del capitalismo italiano», esercitando egemonia proprio tra i «gruppi subalterni», poiché da burocrate amministra il potere locale e da giornalista indirizza l’opinione pubblica: «Il ceto di intellettuali riceve un’aspra avversione per il contadino lavoratore, considerato come macchina da lavoro che deve esser smunta fino all’osso e che può essere sostituita facilmente data la superpopolazione lavoratrice: ricavano anche il sentimento atavico e istintivo della folle paura del contadino e delle sue violenze distruggitrici e quindi un abito di ipocrisia raffinata e una raffinatissima arte di ingannare e addomesticare le masse contadine… Il suo unico scopo è di conservare lo statu quo. Nel suo interno non esiste nessuna luce intellettuale, nessun programma, nessuna spinta a miglioramenti e progressi»8.
Alla scuola crociana, gli scranni sono tutti occupati dai vari Saviano, Bocca, Travaglio, Stella e ancora da Antonio Polito, Marco De Marco e via di questo passo. Essi rappresentano proprio il tipo di mentalità denunciato da Gramsci. Incarnano il modello dell’intellettuale meridionale che partecipa a pieno titolo della formazione del processo politico e del discorso pubblico in Italia. E che, oggi, è il miglior agente del capitalismo neoliberale e delle politiche di austerity e rigore.
(Ringraziamo i 99 Posse per il suggerimento del video)
Benedetto Croce, Un paradiso abitato da diavoli, Adelphi, Milano 2006. ↩
Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, BUR, Milano 2001 (1966), p. 69. ↩
Antonio Petrillo, Le urla e il silenzio. Depoliticizzazione dei conflitti e parresia nella Campania tardo-liberale, in Biopolitica di un rifiuto. Le rivolte anti-discarica a Napoli e in Campania, a cura di A. Petrillo, ombre corte, Verona 2009, p. 46. ↩
Ringrazio Giso Amendola, Girolamo De Michele, Roberta Pompili e Serena Picarelli per aver letto e commentato il testo. Sono grato a Girolamo per il prezioso suggerimento rispetto allo slittamento ermeneutico fra il Saviano 1.0 e il Saviano 2.0. ↩
G. A. Stella è autore con Sergio Rizzo di un libro il cui titolo non lascia dubbi circa l’uso e il metodo del “dispositivo Saviano”: Se muore il Sud, Feltrinelli, Milano 2014. ↩
Giorgio Bocca, L’inferno. Profondo sud, male oscuro, Mondadori, Milano 1992. ↩
Id., Napoli siamo noi. Il dramma di una città nell’indifferenza dell’Italia, Mondadori, Milano 2006, p. 226. ↩
Antonio Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale (1930), in La questione meridionale, a cura di F. De Felice e V. Parlato, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 150-153. ↩