di SANDRO MEZZADRA E TONI NEGRI. Ritorno dei dazi e della guerra commerciale, la guerra guerreggiata che continua a segnare la quotidianità della vita delle popolazioni nel “Grande Medio Oriente”, alleanze e assi che si profilano più o meno stabilmente (tra Arabia Saudita, Israele e USA; tra Russia, Turchia e Iran), aperture e chiusure nello scenario della penisola coreana, globalismo cinese e protezionismo americano: sono solo alcune istantanee, che potrebbero essere moltiplicate a piacere, del mondo in cui viviamo. Un mondo davvero “sottosopra”, distracted per riprendere la suggestione shakespeariana. Tentare di mettere ordine, dal nostro punto di vista, è certo impresa ardua, ma ci pare che almeno due tesi possano essere avanzate – come linee guida per la lettura della tumultuosa transizione in atto nel sistema capitalistico mondiale. In primo luogo, la tendenza di fondo attorno a cui vengono svolgendosi i conflitti e i processi a cui assistiamo – a malapena celata dalla retorica dell’America first – è l’approfondimento della crisi dell’egemonia statunitense sulla dimensione globale. Trump interpreta questa tendenza in modo aggressivo, nel tentativo di ritagliare sfere di influenza e di tutelare gli interessi di frazioni specifiche del capitale sul piano interno, a partire dalla consapevolezza che gli Stati Uniti sono ormai incapaci di dettare i ritmi e le modalità dello sviluppo capitalistico globale, ponendosi come vertice del suo governo. In secondo luogo, le forme assunte dall’ordine e dal disordine globale – la riorganizzazione degli spazi politici ed economici nonché le tensioni tra essi nella globalizzazione – sono oggi la variabile cruciale per qualsiasi progetto di trasformazione radicale dell’esistente, indipendentemente dalla scala su cui questo progetto si esercita in prima battuta.
A emergere chiaramente oggi, in quella che abbiamo definito stabilizzazione reazionaria dopo la crisi del 2008, è una tendenza al “ritorno” della nazione come fattore fondamentale nella riorganizzazione degli spazi politici: un nazionalismo sempre accompagnato da politiche neoliberali. Ne abbiamo molti esempi, anche al di là delle grottesche manifestazioni nostrane nel “prima gli italiani” di Matteo Salvini e dei nazionalismi fiorenti in molte parti d’Europa. Si pensi a Trump, a Erdogan, a Putin – ma anche a Modi e allo stesso Xi Jinping. Nella nostra discussione proponiamo di analizzare questo “ritorno” della nazione e del nazionalismo a partire dalle tensioni e dagli attriti che si determinano con un processo – che a noi pare irreversibile – di consolidamento e di fissazione della globalizzazione capitalistica. Questo processo è in qualche modo visibilmente rappresentato dall’insieme delle infrastrutture che fanno capo alla logistica globale, intesa in senso ampio – e cioè a quell’accumularsi inestricabile, fisico, di reti energetiche, comunicative, finanziarie che si intrecciano nello spazio e sulla crosta terrestre. La politica cinese, che punta da una parte su una centralizzazione del comando politico interno e dall’altra sul grande progetto di espansione logistica “One Belt One Road”, ci pare esprimere la più alta consapevolezza delle tensioni e dei conflitti appena richiamati.
Si può forse sostenere che il “ritorno” della nazione sia da una parte una modalità di gestione di queste tensioni e di questi conflitti (con la torsione radicalmente autoritaria del neoliberalismo che ciò comporta), e che dall’altra sia in fondo estremamente fragile – e in ultima istanza del tutto dipendente dalle “leggi di movimento” di un capitale ormai del tutto fuoriuscito dagli spazi nazionali. Senza presupporre alcuna linearità, e cioè senza prospettare un più o meno automatico allineamento del mondo internazionale degli Stati alle leggi di movimento del capitale, ci sembra che qui si ponga un criterio di metodo per l’interpretazione della transizione in atto a livello globale nella crisi dell’egemonia statunitense. Si tratta cioè di mettere sempre in forte tensione le dinamiche del capitale globale e quelle degli Stati nazione (tra cui esistono evidentemente precise differenze e gerarchie), valutandone gli effetti nelle diverse congiunture che si presentano. E tenendo comunque presente che politicamente lo spazio della nazione (con le categorie che ne articolano la costituzione, dalla sovranità al popolo) appare del tutto impraticabile per un progetto di trasformazione radicale dell’esistente. Sta qui una delle ragioni fondamentali della nostra critica al “sovranismo” e al “populismo di sinistra”.
Il tema Unione Europea si offre a questo punto come campo di sperimentazione primario per la lotta di classe. Qui infatti la tensione tra spinte nazionaliste (di stabilizzazione reazionaria) e il complesso di infrastrutture logistiche e dispositivi culturali già consolidati viene duramente radicalizzata e messa in crisi da pressioni esterne (USA e Russia) e dalle più reazionarie potenze finanziarie e corporative dei singoli Paesi. La lotta per un’Europa unita, in forma irreversibile, rappresenta perciò una linea di resistenza a livello globale, capace di offrire alla lotta di classe nuove occasioni e di strappare alle forze conservatrici la possibilità di occultare il loro progetto reazionario sotto il nome di popolo e di nazione. Questa lotta deve essere rilanciata in un contesto caratterizzato dalla crisi del processo di integrazione avviato all’indomani della seconda guerra mondiale – dall’implosione e dalla frammentazione delle sue geografie, che si accompagnano a processi di chiusura di cui vediamo gli esiti catastrofici nel Mediterraneo e nella diffusione di paura e razzismo all’interno di molte società europee. L’Europa unita di cui parliamo, del resto, non può essere quella dei tecnocrati di Bruxelles né quella di Macron e Merkel. La riapertura di una prospettiva politica europea dipende oggi dall’avvio di un nuovo ciclo di lotte, dall’aggregazione di rivendicazioni, comportamenti sociali e desideri capaci di destituire radicalmente di legittimità ed efficacia i processi in atto di rinazionalizzazione delle politiche.
Un’analisi realistica del capitalismo contemporaneo impone di ripensare politicamente – nella nostra ricerca di una soggettività adeguata alle sfide di fronte a cui ci troviamo – la categoria di moltitudine. Lungi dall’essere mero riflesso della “frammentazione” del lavoro, la moltitudine interpreta i processi di radicale diversificazione della composizione del lavoro vivo in molte parti del mondo, rendendo conto al tempo stesso dell’allargamento e dello sconfinamento del lavoro che in primo luogo il femminismo radicale ha evidenziato. Il divenire classe della moltitudine, l’emergere di una soggettivazione di parte come forza politica capace di guidare un processo di trasformazione radicale è l’orizzonte generale in cui proponiamo di organizzare la nostra discussione. Ma questo insieme di questioni ha un’essenziale rilevanza per l’analisi dei processi e delle relazioni transnazionali – basti pensare in questo senso ai movimenti migratori e ai conflitti che attorno a essi si determinano. La nostra riflessione sulla transizione globale in atto non può dunque che essere orientata alla ricerca di dispositivi non sovrani che consentano la moltiplicazione, l’intensificazione e il consolidamento dei rapporti tra movimenti di liberazione che operano su diverse scale geografiche.
La nostra ricerca deve qui occuparsi di soggettivare il comune nello spazio, cioè di riterritorializzare la moltitudine e di darle, nel luogo nel quale operiamo, quell’aggressività politica e quell’intelligenza strategica che sono state proprie della classe operaia. La moltitudine non è un contenitore di varie e diverse forze sociali. È un processo di lotta che mette in forma queste diverse singolarità a fronte di un nemico, il capitale, nelle figure diverse che esso assume. In una situazione in cui l’approfondimento del dominio del capitale sul pianeta si combina con processi di diversificazione delle condizioni politiche, sociali e culturali abbiamo bisogno di un linguaggio di liberazione che possa – molto semplicemente – parlare a tutte e a tutti. Abbiamo bisogno di qualcosa che possa svolgere un ruolo analogo a quello che alle sue origini svolse l’internazionalismo proletario. Come scriveva Rosa Luxemburg descrivendo le geografie acquatiche dello sciopero generale all’inizio dello scorso secolo, il ritmo del nuovo internazionalismo sarà definito da “ondate di piena” e “stretti torrenti”, da un insieme di lotte che sgorgheranno da “fresche sorgenti”, seguiranno percorsi carsici e diverse vie per confluire in una marea capace di investire la terra nel suo insieme. Non è altro che una suggestione, evidentemente: ma è una suggestione potente attorno a cui cominciare a lavorare. Già a Passignano.
RESISTENZE MOLTEPLICI – SCUOLA ESTIVA 2018
Passignano sul Trasimeno, 13 – 16 settembre