di GIROLAMO DE MICHELE.
Non è facile riassumere in poche righe un pensiero che si è svolto per più di sei decenni, né trovare un unico filo nel garbuglio – che non è confusione, ma complessità – dei suoi molti volumi, dagli scritti giovanili sul formalismo giuridico kantiano e su Dilthey fino ad Assemblea. Volumi che hanno fatto di Toni Negri il filosofo italiano più noto e stimato in tutto il mondo – salvo che in Italia.
Provo a proporre, più che qualche filo, qualche parola chiave, in una successione che non vuole essere né cronologica, né enciclopedica.
La prima è Lotta: “la vita è una lotta, implacabile e feroce, contro la morte”, scrive Toni nella prima pagina della sua autobiografia. Un grande medico, Xavier Bichat, aveva scritto al sorgere dell’Ottocento che la vita è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte: nel pensiero di Toni, questa affermazione si allarga dal dato medico e biologico per assumere un significato politico. Il fatto stesso di vivere è un fatto politico: perché il potere si nutre della paura di morire, e della morte stessa. Perché c’è tanta vita, quanta riusciamo a produrne resistendo al potere, piuttosto che consegnandoci a un’esistenza servile, dominata dalla paura della morte. La vita di Toni è stata segnata fin dall’infanzia dalla resistenza al potere e dall’incombere della morte: il padre comunista morto per conseguenza delle percosse fasciste, la madre contadina che si fa carico della famiglia nella campagna padovana, il fratello maggiore volontario repubblichino morto combattendo dalla parte ingiusta, i bombardamenti, la Grande Falciatrice che miete ovunque nei mesi di Salò. Ombre che Toni ha visto ripresentarsi negli anni della senilità, avversando con rabbia il ritorno dei fascismi e delle guerre non solo nella realtà politica, ma anche nell’immaginario. Da qui la sua utopica speranza di un soggetto europeo, non delle banche né degli Stati, ma delle moltitudini, che riuscisse a parlare una lingua comune. Ma quel potere contro il quale si lotta non si esaurisce nel fascismo, storico o di ritorno: il potere si annida ovunque, si diffonde nei gangli del sociale, circola così come circolano le merci prodotte secondo processi che sono essi stessi dinamiche di potere. Per dirla facile: l’acquisto di un pallone cucito da unә bambinә del terzo mondo non è solo circolazione di una merce, ma anche di un modo di produzione che incatena lә bambinә alla produzione invece che mandarlә a scuola; la riproduzione della merce che si vende è riproduzione dei meccanismi di potere. Sono temi sui quali Toni troverà negli anni Zero una profonda consonanza con Foucault, ma che aveva già cominciato a esplorare nel seminario sui Grundrisse di Marx pubblicato col titolo Marx oltre Marx.
Dunque, ci si ribella: è un fatto. A dispetto della servitù volontaria nella quale indulge la più parte dell’umanità, qualcunә si ribella sempre. Senza bisogno di postulare complotti o mandanti occulti. Cattivo come maestro, ma buon allievo, com’è stato detto, Toni, assieme a una generazione di militanti che prenderà il nome di operaisti, apprenderà dalla frequentazione dei cancelli e dei reparti delle fabbriche l’arte della ribellione che operaз anonimз praticano da quando esiste il lavoro industriale: la classe operaia si è fatta (ribellandosi) nella stessa misura in cui è stata fatta (dalla repressione padronale), scrive lo storico E.P. Thompson. Ma quella pagina di storia, imprescindibile, sul finire degli anni Sessanta è diventata insufficiente: urgono nuove prassi, e nuovi pensieri.
La seconda parola è: Lavoro. Quel lavoro che, lungi dal nobilitare l’essere umano, lo rende simile alla bestia, lo sfrutta sin dalla condizione iniziale: la metamorfosi di ciò che rende l’umano tale, cioè la capacità di produrre e trasformare il mondo, in una merce – la forza lavoro – che viene venduta in quella moderna forma di schiavitù che è il lavoro salariato. Sicché l’essere umano non è più tale quando dovrebbe esserlo, cioè quando produce un mondo nel quale non si riconosce come artefice, e del quale non vede l’umanità. A quel lavoro che costringe il lavoratorә a una vita di sfruttamento insufficiente a vivere senza doversi alzare ogni mattina per tornare a quel lavoro che la vita gli toglie, Toni opponeva il rifiuto del lavoro. Una prassi che non scaturiva da complicati filosofemi allungati come il chewingum, ma dalle pratiche di operaз. Ma quale operaз, e quale lavoro? Negri e gli operaisti hanno spinto in avanti l’analisi di Marx, cavandone fuori almeno quattro concetti fondamentali. Il primo lo abbiamo già visto: la circolazione come distribuzione delle funzioni di comando. Il secondo è l’intuizione che il capitalismo non è caos e anarchia, a cui opporre l’ordine razionale socialista, ma pianificazione: esiste dunque un piano del capitale, al quale bisogna opporre un contropiano. Che il capitalismo sia distruzione creatrice, come dice Schumpeter, non implica che questa azione non abbia uno scopo, una ragione, un ordine. Il terzo è il rovesciamento del rapporto fra capitale e operaiз: la classe operaia non nasce come mera reazione allo sfruttamento, non è un prodotto della fabbrica, ma è essa stessa, con le proprie lotte, a spingere il capitale all’innovazione. Nel proprio farsi come soggetto antagonista, la classe operaia costringe il capitalismo a un continuo divenire per inseguire, o anticipare, il conflitto sociale.
L’ultimo, estratto da alcune pagine dei Grundrisse che Raniero Panzieri pubblicò col titolo Frammento sulle macchine sulla rivista “Quaderni Rossi”, è che la macchina, che nel lavoro moderno “possiede abilità e forza al posto dell’operaio”, ha cessato di essere un mero strumento di cui si serve l’operaiә, ed è diventata “come un potere estraneo su di lui”. Ma questa separazione fra la vita concreta dell’operaiә e la produzione attraverso la grande macchina apre la possibilità di liberare la vita dal lavoro salariato: un mondo libero, nel quale la fatica del lavoro è demandata alle macchine, o meglio, alla scienza del capitale (basti pensare all’importanza, nel lavoro contemporaneo, della programmazione rispetto alla produzione vera e propria), mentre la vita si scuote di dosso quel giogo che la leggenda biblica assegna all’essere umano come pena da espiare.
Ne derivano delle radicali conseguenze, per chi come Negri non ha perso il gusto della radicalità: che la fabbrica cessa di essere il mero nome del luogo di produzione, per divenire l’intera società, sussunta all’interno delle leggi del capitale. Produttore non è solo l’operaio con la tuta blu che stringe i bulloni fino ad alienarsi, come nella celebre gag di Chaplin, ma l’intera vita messa al lavoro: è produzione di valore assistere a uno spot pubblicitario mentre si guarda la televisione; riempire con la narrazione della propria vita quelle scatole vuote che sono i social, dal cui contenuto si generano profitti stellari; dettare la produzione di un determinato capo d’abbigliamento col suo semplice acquisto (il sistema Benetton, che non ha caso Negri ha studiato negli anni dell’esilio francese). Più in generale, la vita, la realtà (o quella che chiamiamo tale), il mondo è produzione: il mondo è prodotto da tuttз noi, non solo da quellз che sono qui ed ora, ma dalle generazioni passate la cui vita si prolunga nei nostri gesti e nelle nostre prassi. Produzione è dunque la terza parola.
Nondimeno, se una parte importante della produzione, cioè della cessione della propria forza lavoro, avviene non con la forza fisica, ma con la potenza intellettuale – se, cioè, l’intelletto stesso è messo al lavoro –, quella potenza produttiva, benché ceduta in cambio di un salario, resta a disposizione del soggetto produttore. È possibile che questo soggetto collettivo cognitivo trovi una modalità di organizzazione per liberarsi dallo sfruttamento, come la classe operaia del passato trovò i sindacati e i soviet? Su questo Negri ha continuato a lavorare fino agli ultimi giorni. I suoi vecchi compagni dell’avventura operaista, forse spaventati dalle conseguenze o inadatti a una tale radicalità di pensiero, comunque incapaci di coniugare l’una alle altre, si ritirarono ben presto in buon ordine, nella convinzione che il mondo non potesse essere cambiato, ma solo amministrato. C’è chi ha votato le politiche di austerità dei governi Andreotti, chi la Buona Scuola e il Jobs Act: c’è modo e modo per morire pompieri dopo esser stati incendiari, e non tutti i modi sono equivalenti.
Ma se il mondo è prodotto, qual è il soggetto di questa produzione? “Soggetto” è una parola che non allude a un qualcosa di dato una volta per tutte, ma a un processo dinamico di interazione reciproca fra il reale e i suoi attori, secondo quelle filosofie dette post-strutturaliste con cui Negri si è relazionato, a partire dall’amicizia con Félix Guattari, e tramite lui Gilles Deleuze e Michel Foucault. Il primo nome di questo soggetto è “operaio sociale”: l’allargamento del soggetto produttivo, identificato con l’operaio massa, all’intera sfera del sociale, in una fase nella quale la stessa produzione di allungava dalla fabbrica alle sue diramazioni periferiche, che si sarebbero estese fino a ogni possibile angolo delle periferie globali. Poi, a questo nome ne è succeduto un altro, ceduto come il testimone di una ideale staffetta da compagni del passato quali Machiavelli e Spinoza: Moltitudine. Una parola che contiene universi, non solo concettuali: che, per limitarci ai classici, gli esseri umani siano capaci di verità politica, ossia di autogoverno – sino, al limite, a quella prefigurazione rivoluzionaria che consiste nel liberarsi dalla necessità dello Stato. Perché il concetto di moltitudine dice con precisione la prima, ineludibile alternativa del pensiero politico: o la moltitudine è in grado di produrre autogoverno, cioè autonomia, o non lo è, e allora è necessario che sia governata, cioè sia sotto il dominio di un qualche Leviatano. Scrive Spinoza, nel Trattato teologico-politico, che il fine della Repubblica non è di dominare gli uomini né di costringerli col timore a sottomettersi al diritto altrui, né di convertire in bestie o in automi esseri dotati di ragione, ma far sì che possano servirsi della libera ragione e non lottino l’uno contro l’altro con odio, ira o inganno, né si facciano trascinare da sentimenti iniqui: il vero fine della Repubblica è, dunque, la libertà. Non dice cosa diversa Machiavelli nei Discorsi, libro troppo a lungo – e tutt’ora – oscurato dall’ombra del Principe. Basta chiedersi quale concezione dell’essere umano, della capacità degli esseri umani di relazionarsi l’un l’altrә per resistere alla morte a dispetto delle singole debolezze e vulnerabilità, della capacità di creare nozioni comuni e discorsi collettivi siano impliciti nella negazione che l’umano possa essere ridotto a un servile automa, per capire l’importanza di un pensiero che Negri ha contribuito a rinnovare nelle università e accademie di tutto il mondo – comprese quelle italiane, a dispetto di quella damnatio memoriae che consiste nel ridurre la sua figura a quella di un terrorista rinchiuso nelle patrie galere.
Dunque, Galera, quella vera e propria: nella quale, lo dico a beneficio degli immemori e dei malevoli, Toni Negri ha scontato fino all’ultimo giorno che gli è stato comminato per quello che aveva fatto, per quello che non aveva fatto, e per quello che gli è stato impedito di fare. Qui ci sono due piani che vanno tenuti distinti: quello giudiziario e quello politico. Ci sarebbe anche il piano umano, a partire dai compagni di Toni Negri che hanno patito la galera per essere poi riconosciuti innocenti, pagando con una morte prematura i danni che le carceri speciali avevano inflitto alla loro salute: Luciano Ferrari Bravo ed Emilio Vesce, per dirne solo due. Sul piano processuale, Negri fu accusato di essere il capo di una Organizzazione senza nome (la misteriosa O.), protrattasi oltre il fittizio scioglimento di Potere Operaio (di cui Negri era stato uno dei dirigenti) che avrebbe coordinato i diversi gruppi terroristici solo in apparenza distinti fra loro: dunque responsabile di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, nonché di una miriade sempre mutevole di crimini che per definizione erano indimostrabili, poiché nessun reato specifico poteva essere addebitato alla O. Si tenga presente che l’accusa di insurrezione contro i poteri dello Stato non è mai stata mossa contro gli autori fascisti delle stragi di piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus, Stazione di Bologna. Che l’accusa di associazione sovversiva non è mai stata mossa contro il Movimento Sociale, che pure aveva per fine la restaurazione della Repubblica fascista di Salò, e al suo segretario Giorgio Almirante. Che negli stessi anni dell’Histoire d’O un importante uomo politico e dirigente della DC, Giulio Andreotti, era in rapporti organici con Cosa Nostra.
Sentenze alla mano, “il fatto non sussiste” quanto al legame fra Potere Operaio e l’autonomia organizzata, “per non aver commesso il fatto” furono assolti i presunti responsabili dell’organizzazione di attentati e crimini, è stata rigettata l’accusa di insurrezione armata, ridimensionate o dissolte le accuse per reati specifici (a Negri erano arrivati a contestare un’ottantina di capi d’imputazione), confutati i cosiddetti pentiti che avevano sostenuto l’accusa.
Sul piano politico, invece, sostenere che ci fosse un’organizzazione con la O., un capo, un qualche occulto comitato che muoveva i fili significa credere che un ventennio di rivolte contro l’ingiustizia, lo sfruttamento, le morti per lavoro o nocività o mancato diritto alla salute sia stato causato da un complotto, e non dalla legittima indignazione di donne e uomini capaci di fare uso della propria ragione per reclamare quei diritti – vita, salute, uguaglianza, libertà – negati. Basta ricordare il tributo di sangue e vite che, quotidianamente, il Moloch del lavoro esige da operaз, contadinз, lavoratorз, e cittadinз avvelenati da polveri ed emissioni industriali, in una sorta di cartaginese Cabiria che si ripete sempre uguale. Si può, in punta di logica, contestare che alla violenza dello sfruttamento e del potere si debba necessariamente opporre un’altra violenza di segno contrario: ma non è lecito dimenticare che sono esistite ed esistono una violenza e un terrorismo dello Stato, né applicare gli stessi criteri di economia morale degli sfruttatori alla rivolta degli sfruttati.
Non so cosa davvero pensassero di trovare i giudici che imprigionarono Negri e altre decine di compagnз il 7 aprile del 1979, e poi altre migliaia nei mesi e anni successivi, fino ad accumulare un cumulo di anni di detenzione superiore a quelli inflitti ai fascisti nel dopoguerra e ai cosiddetti briganti meridionali dopo l’unificazione: ma sono certo di non aver trovato una eguale acribia giudiziaria per perseguire, una volta chiusa dietro i cancelli delle galere o dell’esilio un’intera generazione, quelle ingiustizie contro le quali si era ribellata.
La sesta e ultima parola di questo scarno abbecedario negriano è Povero: una figura della moltitudine, del comune, che Negri ha evocato con frequenza, a partire da una pagina di Impero dedicata a Francesco di Assisi. Impero è il libro best seller che ha contribuito alla notorietà mondiale di Toni Negri: una riflessione a quattro mani, assieme a Michael Hardt, che ha contribuito come minimo a dare un lessico politico e un ordine del discorso a un’intera generazione globale, quella delle grandi manifestazioni di Seattle e di Genova all’alba del terzo millennio. Un libro che, superato o meno in alcune parti dai mutamenti globali (a loro volta braccati nei successivi libri di Negri e Hardt), ha cercato di afferrare la globalizzazione – qualcosa di talmente sfuggente, nella sua vastità, da aver trovato la parola per dirla con ritardo e fatica. E di comprenderla nella sua stratificazione nella quale si sovrappongono, secondo un modello ricavato dallo storico Polibio, il piano del dominio imperiale (all’epoca statunitense, oggi policentrico), quello delle grandi corporation globali (nella loro ultima manifestazione, le piattaforme globali), e le moltitudini insorgenti, o comunque non rassegnate. Tutto questo letto non con l’occhio gelido dell’analista, ma con quello caldo e di parte del militante politico: dunque, dal punto di vista delle moltitudini. La cui condizione politica si lascia ben riassumere nella figura del povero, inteso non come chi è privato di qualcosa, ma come colui che proprio per non essere nulla è in potenza di tutto.
Oggi che il povero non è, come nel Duecento, un viandante che si allontana dalla società, ma è insediato al cuore stesso della società, nella scelta fatta da Francesco di adottare la condizione comune della povertà della moltitudine per denunciarne le condizioni leggiamo la potenza di una vita nella gioia del comune con tutte le creature e tutta la natura: gli animali, sorella luna, fratello sole, gli uccelli dei campi, gli sfruttati e i poveri, tutti insieme contro la volontà del potere e la corruzione del nascente capitalismo. Una moltitudine senza frontiere di subalterne e subalterni che parla tutti i linguaggi del mondo, in una rinnovata alleanza con l’intero creato: un mondo nel quale varrebbe la pena di vivere, se esistesse.
questo testo è stato pubblicato su doppiozero il 26 dicembre 2023