di NATASCIA TOSEL.

Lunedì 3 aprile presso il Dipartimento di filosofia dell’Università degli Studi di Padova si è svolta la presentazione del libro Guerres et Capital scritto a quattro mani da Éric Alliez e Maurizio Lazzarato (Les éditions Amsterdam, Paris 2016). L’incontro, che ha riscosso un grande successo di pubblico, ha avuto come protagonisti uno dei due autori, Éric Alliez, e tre discussants, Sandro Chignola, Alisa Del Re e Girolamo De Michele, nonché Pierpaolo Cesaroni nel ruolo di moderatore. In un’atmosfera del tutto informale, ha preso avvio così un’intensa e stimolante discussione che non si è limitata ad analizzare il libro di Alliez e Lazzarato, ma che ha usato quest’ultimo per affrontare da un punto di vista filosofico e politico alcune fra le tematiche più attuali che lo scenario geopolitico contemporaneo ci costringe a pensare: dall’eredità di Foucault, di Deleuze e Guattari e, più in generale, de “la pensée ’68“, al femminismo, passando per le guerre di soggettivazione, per i movimenti di resistenza e per il recente fenomeno dell’accelerazionismo.

Girolamo De Michele ha aperto efficacemente il dibattito, mettendo subito in luce tanto la ragion d’essere quanto il fine ultimo del testo di Alliez e Lazzarato, che è provocatoriamente dedicato «à nos ennemis» (p. 12), piuttosto che ai nostri amici: quanto alla ragion d’essere si tratta di tracciare un’ontologia dell’immanenza nei rapporti tra guerra e capitale; lo scopo dell’intera opera, invece, può definirsi come un recupero del progetto genealogico di Foucault, da un lato, e di alcuni concetti di Deleuze e Guattari, dall’altro, al fine di leggere il presente attraverso la macchina da guerra.
Le tesi generali del libro si possono così riassumere attraverso tre proposizioni, ossia: 1) la guerra, la moneta e lo Stato sono forze ontologiche, cioè costitutive e costituenti, del capitalismo; 2) le guerre (e non LA guerra) sono da intendersi come il principio di organizzazione della società; 3) la situazione attuale è descrivibile, recuperando un’espressione di Félix Guattari, come Capitale Mondiale Integrato.
L’impressione che Guerres et Capital lascia al lettore potrebbe risultare, pertanto, pessimistica: siamo di fronte ad una realtà che può essere pensata solo in termini di guerra e gli stessi dispositivi concettuali che Foucault e Deleuze ci hanno lasciato in eredità funzionano solamente, secondo Alliez e Lazzarato, a patto che vengano ricalibrati alla luce delle guerres (civili, militari, di razza, di genere) che viviamo quotidianamente, altrimenti rischiano di restare confinati ad un uso politicamente minoritario. Se, però, questa operazione di riattualizzazione di alcuni concetti foucaultiani e soprattutto deleuzo-guattariani è del tutto legittima e condivisibile, è possibile rintracciare, nelle analisi di Guerres et capital, anche alcuni punti problematici: il primo riguarda la lettura di Foucault, poiché Alliez e Lazzarato affermano che alla fine degli anni ’70 e, in particolare, in Naissance de la biopolitique sarebbe riscontrabile uno sbandamento neoliberale del filosofo francese. Al contrario, molti interpreti sostengono una lettura continuista di Foucault, secondo la quale questo sbandamento non solo non avrebbe mai avuto luogo, ma sarebbe smentito proprio dalle letture foucaultiane di Kant, che spesso sono state prese a baluardo del suo neoliberalismo e che, invece, possono essere lette come la prefigurazione del soggetto stoico o cinico, in cui la volontà di non essere governati acquista tutto un altro senso rispetto a quella dell’individuo liberale.
Un secondo punto problematico del testo riguarda, invece, l’uso che gli autori di Guerres et capital fanno della macchina da guerra: se, infatti, in Deleuze e Guattari troviamo una molteplicità di macchine da guerra, al contrario Alliez e Lazzarato sembrano occuparsi solamente della macchina da guerra del capitale. È presente, dunque, il rischio concreto di sacrificare la molteplicità a discapito dell’unità: pericolo visibile anche nelle riflessioni di Alliez e Lazzarato sul razzismo, la cui origine sembra perdere la pluralità che l’ha storicamente caratterizzata, a favore di una riterritorializzazione che procede a binario unico verso il nazismo.

Dal canto suo, Alliez, nel prendere la parola, ha sottolineato, prima di tutto, l’importanza e la ricchezza delle critiche e delle discussioni intorno a Guerres et Capital, che acquistano una rilevanza ancora maggiore per i due autori per il fatto che il libro coincide con la prima parte di un progetto più ampio, che inizialmente doveva essere contenuto tutto all’interno del libro, ma che, a causa dell’eccessiva lunghezza del testo, darà alla luce, invece, un secondo volume, incentrato sulle guerre nate a partire dal ’68. La mancanza di questa seconda parte spiega molte delle perplessità e delle critiche che il libro può suscitare nel lettore, comprese quelle fin qui proposte, non tanto sul nodo problematico relativo alla lettura di Foucault (Alliez, infatti, ha continuato a segnalare uno sbandamento di Foucault nel corso del 1978/1979, dovuto probabilmente all’assunzione di un anti-marxismo militante, che ha condotto l’autore de Le parole e le cose a perdere il proprio metodo e a produrre una lettura del liberalismo totalmente acritica), quanto piuttosto sulla questione della molteplicità delle macchine da guerra. Su questo punto, infatti, è emersa una precisazione importante, che ha permesso di discernere il piano strettamente teorico, dove questo rischio di unità potrebbe anche essere presente, dal piano, invece, della strategia politica, dove il libro intende esplicitamente collocarsi: è qui, infatti, che è necessario ripensare e riattualizzare la macchina da guerra (del resto sono passati più di quarant’anni dalla pubblicazione di Mille Piani). Ciò significa comprendere come la macchina da guerra rivoluzionaria funzioni e in che modo si rapporti alla macchina da guerra del capitale: in altri termini, bisogna essere capaci di pensare strategicamente, come forse solo Lenin e Mao sono riusciti a fare. Gli autori di Guerres et Capital, dunque, anche se non lo citato esplicitamente, sembrano rifarsi alle parole che Deleuze scriveva nella bellissima introduzione a Psychanalyse et transversalité di Guattari, quando affermava:

Nous dévons être dès le début plus centralistes que les centralistes. Il est évident qu’une machine de guerre révolutionnaire ne peut pas se contenter de luttes locales et ponctuelles: hyper-désirante et hyper-centralisée, elle doit être tout cela à la fois. Le problème concerne donc la nature de l’unification qui doit opérer transversalement, à travers une multiplicité, non pas verticalement et de manière à écraser cette multiplicité propre au désir (Deleuze, G., Préface a Guattari, F., Psychanalyse et transversalité. Essais d’analyse institutionnelle, La Découverte, Paris 2003, p.VII).

Guerres_et_CapitalE proprio sulla questione strategica della macchina da guerra rivoluzionaria si sono innestate anche le considerazioni di Alisa Del Re, la quale ci ha fatto togliere gli occhiali da filosofo usati da De Michele, per guardare il libro dal punto di vista di una “politologa femminista” – come essa stessa si è definita. Tale lettura ha coinciso con il tentativo di leggere il libro trasversalmente, a partire dalla maggiore rilevanza concessa alla tematica femminista, ossia al ruolo delle donne all’interno della storia dei rapporti tra le guerre e il capitale, che Alliez e Lazzarato hanno ricostruito quasi come un romanzo. Uno dei punti di forza del libro è, infatti, la capacità di mettere in parallelo l’atteggiamento del capitale verso le donne e verso i colonizzati: l’antifemminismo e il razzismo, del resto, vanno sempre di pari passo, così come il lavoro domestico gratuito può essere considerato esso stesso una forma di colonizzazione interna, che trova il proprio correlato nella schiavitù, poiché – per usare le celebri parole del film di King Vidor La fonte meravigliosa – «l’uomo che lavora per gli altri senza compenso è uno schiavo».
Ciò che invece fa problema all’interno del libro, dal punto di vista femminista, è la mancanza di una definizione di genere, che sarebbe, invece, auspicabile quando si fa uso di determinate categorie: un esempio su tutti è quello dei salariati, poiché tra essi vi sono anche delle donne, le quali vivono la loro condizione in maniera ben differente dagli uomini appartenenti alla medesima categoria. Non basta, perciò, criticare la famiglia nucleare americana come modello del capitale, cosa che Alliez e Lazzarato fanno già efficacemente, ma è necessario prestare attenzione alle differenze di genere all’interno di ciascun rapporto sociale. Questo permetterebbe, innanzitutto, di scorgere con maggior chiarezza tutti quei fenomeni di resistenza che in Guerres et Capital rimangono un po’ in ombra e, in secondo luogo, di evitare di pensare che il capitale funzioni sempre in maniera del tutto lineare. Se è vero, infatti, che esso è in grado di riterritorializzare le linee di fuga che gli si oppongono, ciò non di meno queste linee di fuga hanno una loro efficacia e una loro valenza politica che non perde di significato a causa della repressione a cui sono sottoposte. Nel caso delle donne, perciò, bisogna guardarsi bene dal presentarle sempre e solo come vittime, ossia come soggetti disciplinati, poiché la storia, al contrario, è piena di focolai di resistenza nati dal mondo femminista, a partire dalle donne medievali di cui parla Pérnoud ne La femme au temps des la cathédrales fino al recente sciopero dell’8 marzo.

Alliez ha proseguito il dibattito dichiarandosi perfettamente consapevole della presenza generalizzata di forme di resistenza al capitalismo che oggi si fanno sentire in molte parti del mondo (il libro, del resto, arriva a parlare della Nuit Debout francese). Il problema, per riprendere quanto era già emerso all’inizio della discussione, è semmai ancora una volta di natura strategica: resistere, infatti, non basta, poiché se è vero che la resistenza può essere intesa, sulla scia di Deleuze, come ontologicamente prima, essa, però, deve pensarsi e costruirsi strategicamente se vuole essere in grado di produrre degli effetti politici che siano all’altezza delle guerre imposte dal capitale. Se è vero, da un lato, che una tale presa di posizione strategica potrebbe destare delle preoccupazioni in più di qualche lettore, poiché la macchina da guerra sembra dimenticare ancora una volta le donne (le quali non hanno nulla di macchinico, ma sono prima di tutto corpi che combattono sul terreno della riproduzione e delle esigenze biologiche), dall’altro lato, però, è necessario ripensare qui tanto il concetto di macchina quanto quello di guerra: la macchina da guerra rivoluzionaria, infatti, può includere tutti perché tutti siamo in guerra. Non basta parlare, allora, di resistenza, perché quest’ultima non sottolinea a sufficienza la specificità della situazione contemporanea; è meglio parlare – rifacendosi ad un’espressione usata spesso da Guattari – di “guerre di soggettivazione”: le donne, i lavoratori, i colonizzati vanno pensati come soggettività prodotte dal capitale ed è sul terreno di questa produzione che devono giocare la loro lotta strategica, se vogliono sperare di vincere le guerre di soggettività in cui si trovano continuamente coinvolti.

La questione dei processi di soggettivazione è divenuta, così, il punto di partenza delle riflessioni del terzo e ultimo discussant, Sandro Chignola, il quale ha puntato subito l’attenzione su uno dei momenti storici che Guerres et Capital analizza come esempio rivoluzionario o di contre-histoire del capitalismo, ossia la Rivoluzione di Haiti, che prese avvio nel 1791 come contraltare della Rivoluzione Francese e che si concluse dodici anni dopo con la vittoria degli schiavi neri. Mentre Alliez e Lazzarato pensano questo momento storico come la realizzazione dell’impensabile, si potrebbe sottolineare che Haiti, in realtà, non rappresentava affatto il punto più basso della tendenza e che, anzi, si trattava di una delle colonie più sviluppate dell’epoca: la rivoluzione haitiana, dunque, non può essere usata come esempio per smentire il principio, spesso erroneamente attribuito al post-operaismo, secondo cui le grandi crisi si danno sempre al punto più alto della tendenza. A ciò va aggiunto anche un altro possibile punto problematico del libro, questa volta più generale, poiché riguarda il progetto complessivo dell’opera, che è quello di leggere la storia del capitale alla luce dei suoi rapporti con la guerra: vi è qui, infatti, il rischio concreto, che si ritrova anche in molte posizioni post-operaiste, di identificare un elemento (in questo caso la guerra) con la tendenza del capitale, facendolo divenire in tal modo una sorta di passepartout in grado di spiegare ed includere il reale nella sua interezza. Dall’altra parte, però, molti sono anche i punti forti del libro, fra i quali vale la pena di ricordare, da un lato, la capacità dei due autori di ricostruire la genealogia del capitale da un punto di vista non eurocentrico e, dall’altro lato, la critica, che si trova nell’ultima parte del testo, al recente fenomeno dell’accelerazionismo. Quest’ultimo, che trova le proprie derive nelle teorie che parlano della situazione attuale come di una governamentalità algoritmica, sembra, infatti, non comprendere che il lavoro degli algoritmi e la logistica sono oggi una delle forme più potenti di valorizzazione del capitale e che, se si vuole tentare di costruire una macchina da guerra rivoluzionaria, quest’ultima deve giocarsi tutta dal lato dei processi di soggettivazione e non su quello di una presunta verità numerica.

Alliez, a questo punto, ha tentato di disambiguare entrambi i nodi problematici messi in luce in quest’ultima parte della discussione, affermando, innanzitutto, che definire la Rivoluzione Haitiana come «l’impensabile che si iscrive di nascosto nella Storia» (p. 114) non significava affatto, per lui e Lazzarato, pensare Haiti come il punto più basso della tendenza, ossia come un paese in ritardo rispetto all’Europa. L’impensabile, piuttosto, è qui da intendersi come l’imprevisto o l’evento che è capace di produrre non una semplice crisi (quest’ultima, infatti, è sempre soggetta a riassorbimento da parte del capitale), ma una vera e propria rottura: un crack up, per dirlo con un’espressione di Scott Fitzgerald, spesso ripresa anche da Deleuze. Riguardo, invece, al progetto generale del libro, non si è trattato per i due autori di scegliere la guerra come l’elemento attraverso cui leggere l’intera storia del capitalismo, poiché il punto di partenza è stato, piuttosto, l’esigenza di ripensare il concetto di guerra alla luce della storia delle pratiche del capitalismo, nel tentativo di seguirne tutte le mutazioni, nonché gli elementi di rottura. Questi ultimi, però, ancora una volta, non sono identificabili con qualsiasi momento di crisi o fenomeno di resistenza che si è verificato nella storia, bensì solo con gli eventi che hanno prodotto una destabilizzazione totale, costringendo il capitale a modificare il suo corso. Questa esigenza di ripensare il concetto di guerra coincide, del resto, con l’eredità lasciataci dal pensiero del ’68 e, in particolare, da Foucault (si pensi al corso del 1975-1976, Il faut défendre la société) e da Deleuze e Guattari (in Mille Piani): è la guerre, infatti, ciò che tutti questi autori hanno posto come punto cruciale per poter pensare il presente.

Si è concluso, così, l’incontro, con alcune domande del pubblico che hanno portato Alliez ad approfondire i punti già toccati durante la discussione, in particolare riguardo la sua polemica con l’accelerazionismo. Le più di due ore di dibattito hanno rappresentato, in generale, una bella occasione per vedere in atto un confronto su temi estremamente attuali, che i partecipanti hanno reso ancora più stimolante grazie alle loro competenze in ambito filosofico-politico: chiudiamo, dunque, questa recensione condividendo l’auspicio espresso dai partecipanti durante la discussione di ritrovarsi di nuovo, al momento della pubblicazione del secondo volume di Alliez e Lazzarato, per avere la possibilità di dare seguito a questo primo incontro.

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