di GIANNI GIOVANNELLI.

(Gaetano Sateriale, Tutti i colori dello zucchero, Bompiani, Milano 2014, pp. 306, € 15.00)

L’ho comprato, l’ho letto e schedato; ora posso riporlo negli scaffali della mia biblioteca. Al momento dell’acquisto ero incerto: l’avrei messo fra i libri di argomento ferrarese o fra quelli che in qualche modo (pro o contro il mio modo di concepire le cose non importa) riguardano la lotta politica, lo scontro sociale? È poi prevalsa la prima ipotesi. C’è infatti, in queste pagine, più nostalgia di nebbia e di amori giovanili in provincia che epica sindacale o rievocazione della rivolta sovversiva.

In copertina ho subito riconosciuto lo stabilimento Eridania (nel racconto viene chiamata, quasi anagrammando, Danieri). Oggi la struttura ospita la facoltà di ingegneria, un tecnopolo. Il destino della produzione saccarifera italiana era del resto segnato già da molto tempo prima del cattivo accordo europeo del 2005 (naturalmente al governo stava il centro destra) che → Gaetano Sateriale richiama in prefazione. Per quel che mi consta di stabilimenti in Emilia ne dovrebbero essere rimasti solo un paio, gli altri chiusero subito. Me ne ero andato ormai dalla città e non ho seguito i passaggi; ma immagino che, dopo una lunga cassa integrazione e la mobilità in coda, gli operai saranno tutti pensionati (categoria diventata maggioritaria fra gli iscritti alla Cgil). Nel tecnopolo, archiviata la trasformazione della bietola, si spremono come limoni i giovani precari, per poi addestrarne altri; la rude razza pagana ha lasciato posto al cognitariato, uno sciame senza passato e dunque senza rimpianti.
Per me che sono nato da quelle parti e ci ho vissuto (pur se con un’esistenza nomade e mobile) fino alla maggiore età, è stato facile riconoscere luoghi, persone, avvenimenti, bar, vie, edifici, man mano che li incontravo lungo le (non poche, forse troppe, qualche cosa si poteva tagliare) pagine del romanzo.

Un tuffo dentro il ricordo.
A Ferrara (come altrove) l’esperienza rivoluzionaria di Potere Operaio si era legata anche a quella degli artisti; non solo quelli importati (Sateriale ricorda gli spettacoli di Dario Fo) ma anche di area locale, giovani pittori come Lele Amadori, un piccolo cenacolo di dottori in fisica, fotografi straordinari come Paolo Zappaterra, e tanti altri veri talenti (Bonora, Laura Schlumper, Nino e Giancarlo Crociati e così via). L’avanguardia politica, come sempre succede quando la protesta dilaga, si univa a quella estetica. Ma questi cammei non rientrano nelle corde dell’autore, lui preferisce una sorta di mitologia stacanovista vintage.
Lo stile e la sequenza dei fatti ricorda i principi fondanti del realismo socialista, si riallaccia più a Sholokov e ad Abashidze che a Nanni Balestrini o a Corrado Costa; l’essenza dell’estetica zdanoviana non stava del resto nell’elogio del sistema sovietico (certo: anche) ma piuttosto nell’esigere che i personaggi negativi non conoscessero etica (come faceva De Amicis con Franti, l’infame che rideva) e quelli positivi evitassero ogni collusione con la morale nemica. Scriveva Palmiro Togliatti (“Rinascita”, n. 5, 1949): «La pedagogia della classe operaia è democratica …e conclude come non può non concludere alla indicazione di un indirizzo di pensiero, e anche di un indirizzo espressivo ed artistico». Chi è per il rifiuto del lavoro non concepisce direttive di questo genere; esse sono il frutto di chi, al contrario, salda morale e vita nell’etica del lavoro (salariato).

SaterialeIl lavoro (l’articolo 1 della Carta) è il fondamento dell’istituzione repubblicana (si badi bene: il lavoro non i lavoratori); nel mondo di Sateriale (che non tenta di nasconderlo) quello di fabbrica (oggi residuale, una stagione irrimediabilmente passata) educa, istruisce, rende migliori. I personaggi (una vera ingegneria delle anime, per citare Zdanov) sfilano recitando la loro parte, senza contraddizioni e senza sbavature. Il vecchio partigiano Cimasi (nella vita l’indimenticabile Cimatti) è comprensivo, bonario, pieno di consigli manco fosse il grillo parlante di Collodi (per fortuna non era esattamente così; altrimenti rischiava di prendersi una martellata da Pinocchio!). Il protagonista del romanzo (autobiografico), dopo alcuni trascorsi Du cotè de chez Toni Negri, scopre (un po’ alla Silvio Pellico) il buon senso popolare, si defila e rientra nell’ambito delle istituzioni; la fidanzata (perduta) non si nega l’esperienza femminista (radicale? a mezzo guado? abbozzata?) ma rimane ancorata (mica era figlia di braccianti per nulla) alle radici di famiglia (da quel che si capisce è una specie di addetta alla vigilanza) e al Kremlino padano. Gli altri sono quasi tutta brava gente; solo pochi anonimi sbandano verso le derive del terrorismo (quelli che invece scelgono di far soldi senza tante storie, e certo non sono mancati, rimangono fuori del romanzo, censurati anche come categoria astratta).

L’apice viene raggiunto con la figura di Guido Nerini (si tratta in realtà di Guido Bianchini) descritto (qui siamo fra Balzac e Hugo, piegati entrambi alle esigenze estetiche socialiste) come un bizzarro spirito (arguto, sovversivo, ma pieno di buon senso) paracadutato non si sa come nel nucleo dirigente di Potere Operaio e incaricato di costruire la struttura eversiva nella città estense. Ma con Nerini/Bianchini si passa un po’ il segno, sembra quasi siano intervenuti Suslov o Markov per correggere le bozze ormai in stampa. Eppure le pagine un po’ di affetto lo lasciano intravedere; era anche ricambiato e l’autore pare consapevole che così fosse. E allora perché riservargli un simile trattamento, con esiti, oltretutto, poco felici dal punto di vista strettamente letterario?
Guido (quello vero: 4 settembre 1926-19 agosto 1998) non ha mai conosciuto il buon senso, ed era uno spirito sostanzialmente incapace di mediare. Questo non significa, naturalmente, che fosse uno scemo. Conosceva, anzi, ironia e paradosso, e pur tuttavia rimase sempre estraneo a qualsiasi forma di viltà, in modo davvero radicale, senza compromessi. Era consapevole che il suo destino stava nel sovvertire l’ordine costituito. Pareva, sotto questo profilo, una sorta di esistenzialista. Non intendeva sottrarsi al karma. Inutile inventarsi un film diverso, alterando il passato. Guido, per fortuna, sapeva anche odiare. In particolare le burocrazie di partito nei territori veneto-emiliani.
Infatti andò in galera, nel 1979, anche per la delazione di alcuni miserabili funzionari iscritti al partito comunista (e poi, ma solo poi, nove anni dopo, fu assolto); Guido fu espulso dalla Cgil (altro che disponibili ad ascoltare, quelli mandavano rapporti quotidiani in Questura!) poco prima dell’arresto; Guido (come ebbe a scrivere un nostro comune amico, uomo colto e geniale, il professor Ferruccio Gambino) «in carcere difese con orgoglio le ragioni – sue e non sue – del movimento del decennio precedente, in un rarissimo esempio di continuità con la scelta della Resistenza nella prima giovinezza». Fra il 1982 e il 1986 visse a Parigi, in esilio. E non aveva dubbi: rifiuto del lavoro.
Nel romanzo viene cancellato/ignorato quel che accadde fra il 1971 e il 1977. Non c’era solo il sindacato e non c’era solo l’industria saccarifera; quelli anzi erano due cani morti già allora. Nascevano le radio libere, esplodeva la soggettività antagonista figlia (guarda caso) del rifiuto del lavoro. Ridurre a terrorismo la rivolta (peraltro vincente) di una generazione che voleva le rose mi pare sia come mettere le braghe al mondo.
Gaetano Sateriale deve farsene una ragione; nella seconda edizione (lo dico senza malizia!) sarebbe bello sciacquare i panni in Po e restituire a Guido quel che è di Guido. E a Radio Alice quel che è di Radio Alice (quanto alle femministe ci penseranno loro e io mi guardo bene dal metterci il becco).

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