di RAFAEL DI MAIO, CRISTIAN SICA. 

 

 

Tenteremo di problematizzare alcuni aspetti inerenti i processi di precarizzazione dentro le nuove forme della valorizzazione del capitale. Zone d’ombra in cui le soggettività precarie risultano  irrappresentabili dalle forme sperimentate finora, sia dal sindacalismo sociale e metropolitano, sia dalle forze del sindacalismo di base e conflittuale. Proseguiamo il dibattito cercando di approfondire e tenere aperta la traccia di discussione ben impostata da Biagio Quattrocchi e Alberto De Nicola.

 

Fuori dai denti

La forma politica sindacale che in Europa conserva una storia dignitosa è quella che abbiamo conosciuto tra la fine del XIX secolo e la fine della seconda guerra mondiale. Poi, in Italia come in altre parti, ci fu il ’68 studentesco, ma in Italia e non altrove seguì il biennio delle lotte dello scontro di classe durissimo dove venne giù la valanga operaia che almeno fino al ’73 tra le rappresentanze di base e quelle dei gruppi per il potere operaio diede corpo ad un conflitto sociale molto significativo dove per l’ultima volta almeno nella penisola i sindacati o alcune loro parti, settori di base e talune categorie più combattive ebbero un ruolo da protagonisti sul terreno della rottura e dello scontro politico. Su questo terreno mai più pervenuti, al contrario, quello privilegiato dalle forze sindacali è stato il terreno della ricollocazione politica all’interno della filiera di potere della governance, terminato definitivamente il loro storico ruolo di mediazione tra il capitale e il lavoro peraltro previsto dallo stesso piano capitalistico. Sicuramente su un altro piano ma altrettanto contraddittorio sono situati i sindacati di base, sui quali più avanti torneremo.

È comprensibile che chi cerca nella sintesi della lotta e dei conflitti un certo godimento nel mettere la bandierina, potrà rabbrividire a questi appunti. Non dovremmo scomodare nemmeno la costituzione materiale, il potere costituente, almeno non ora, per non andare, come si dice, fuori tema. Ciò su cui forse sarebbe più utile ragionare se ci si vuole interrogare effettivamente sulle prospettive possibili di movimento, è come si anima la rottura nella contemporaneità, quando da un lato si dispongono le trasformazioni produttive sempre più veloci ed informatizzate in un rapporto di forza diretto e asimmetrico tra il biopotere finanziario globale, cioè il potere tutto politico di controllo (emissione e circolazione) della moneta, e dall’altro lato le forme dell’eccedenza produttiva, continua della cooperazione sociale e del lavoro immateriale, potenza ed eccedenza di moltitudini spesso disorganizzate. Dove però evidentemente non è l’opzione sindacale quella che può invertire la dinamica della subalternità alla rappresentanza politica perché quando agisce anche in seno ai movimenti vive di una sua continua reciprocità, potremmo dire un lavoro di specchi, che allontana, corrompe, separa, la soggettività. La reifica dentro la compatibilità della valorizzazione capitalistica contemporanea sempre più pervasiva, addomesticatrice, potremmo dire, foucaultiana. Questo non significa che non sia utile sperimentare, nei limiti oggettivi dell’attuale fase dei movimenti contro l’austerity e nella crisi della soggettività politica, forme di coalizione sociale, pratiche di sindacalismo metropolitano e di vertenzialità diffusa, con la tensione necessaria a far scaturire una movimentazione sociale in cui saltano identità e formule organizzative classiche. Senza mai confondere lo strumento con il fine.

Sindacalismo e conflitto sociale5

 

Nella realtà produttiva che conta

Una panoramica analitica sulle nuove forme della valorizzazione congiuntamente ad uno sguardo sul mercato del lavoro e la sua nuova organizzazione potrebbe essere utile per costruire un quadro di riferimento intorno alle forme del conflitto sociale, le sue possibili frontiere e dislocazioni, nuove pratiche, sperimentazioni di forme organizzative dal basso, includendovi anche le ipotesi legate al sindacalismo sociale e metropolitano, tentando di coglierne, alcuni punti positivi di tenuta in un contesto dove certo i movimenti stentano a costituirsi come elemento di rottura espansiva costituente, tracciandone però certamente altrettanto coevi elementi di contraddizione, tensione, di limite potremmo dire ontologico della stessa forma sindacale. Per giunta limiti interni alle radicali e profonde trasformazioni produttive, lavorative, dentro la composizione e valorizzazione contemporanea, dove il ruolo del sindacato di massa viene ricoperto più dalla soggettivazione del capitalismo digitale attraverso le reti sociali, come facebook, che è in un certo qual modo rappresenta la nuova espressione di sindacato metropolitano piuttosto che dalle forme tradizionali dell’organizzazione sociale e sindacale.

Le forme e tecniche della misura e valorizzazione della nuova eccedenza nel capitale macchinico1 vanno analizzate in maniera appropriata poiché implicano l’applicazione delle tecnologie digitali e delle strategie di business e innovazione come tecnologie di governamentalità. Ovvero la monetizzazione dell’identità, dei dati sociali nelle infrastrutture digitali delle nuove enclousure, nei monopoli degli ecosistemi informatizzati, da vita a nuovi dispositivi di cattura della creatività sociale e della sua nuova misura o meglio di nuove misure del valore.

L’autovalorizzazione e il comando, l’autonomia e la misura della forza lavoro sono ancora una questione aperta da indagare e approfondire. Il tema centrale diventa la chiave di nuovi meccanismi della decisione politica, su cosa, come e a qual fine viene misurato e tradotto in convenzione di valore la nuova produzione sociale. Marazzi, nel suo Il comunismo del capitale, nel nuovo capitalismo postfordista, la finanziarizzazione (e la sua interrelazione con le tecnologie dell’informazione e comunicazione, Internet in primis) si rivela un vero e proprio campo di esercizio del biopotere, che si esercita direttamente sull’intero ciclo di vita della forza lavoro e della sua continua riproduzione e “protezione sociale” se pensiamo ad esempio ai processi di finanziarizzazione dello stesso welfare-state2.

A nostro avviso è proprio attraverso la mediazione delle tecnologie cognitive e linguistiche e dei loro meccanismi tecno-economici che questo avviene. Le imprese di Internet ad esempio sono gli intermediari in perenne contatto con la vita sociale delle persone, presentandosi così come “rappresentanti collettivi” della moltitudine dei soggetti che popolano la società nella loro singolarità e pluralità, realizzando quello che chiamiamo “comunismo del capitale” nell’estensione della proprietà dei mezzi di produzione alla forza lavoro dispiegata, in definitiva alla costituzione materiale del comune. E’ questo che avviene con il modello Google e Facebook come dispositivi di captazione (ed anche manipolazione) dell’intelligenza collettiva e sottomissione reale al lavoro della vita sociale stessa, nella sua definitiva o in questo caso ontologica finanziarizzazione, dove, la stessa produzione di soggettività, la costitutio corporis diviene la base della nuova produzione di valore e di rapporto di potere sulla moneta3. Facebook si candida ad essere il vero e proprio “biosindacato”dei nativi digitali, di coloro direttamente nati dentro la dimensione macchinica della produzione sociale. Se è quindi vero che la finanziarizzazione definisce la sfera pubblica del capitale mettendoci davanti ad una crisi strutturale della governabilità, dobbiamo dunque indagare la relazione fra questi processi di valorizzazione e la possibile organizzazione sociale che sempre e comunque dentro queste contraddizioni materiali dovrà misurarsi. Anche quindi oltre le frontiere già riconosciute e praticate finora, con la voglia e il desiderio di superarne gli ostacoli e le resistenze i punti di limite accumulati in talune anche genuine esperienze di lotta, di conflitto-e-contrattazione.

Il contesto italiano dentro lo scenario europeo peraltro rischia se possibile di essere spostato dentro una traiettoria ulteriore di non facile comprensione se non dimensionato nelle sue caratteristiche di tendenza e di nuova composizione.

Sindacalismo e conflitto sociale4

In Italia dentro il mondo del lavoro si profilano importanti tendenze alcune di carattere europeo altre di natura certamente più specifica e peculiare dalle quali non si può prescindere per agitare alcuni temi o produrre conflitto sociale. In primis la forte asimmetria tra il lavoro cosiddetto dipendente e garantito (ormai una minoranza degli avviamenti negli ultimi 6 anni di crisi) e tutto il rimanente spettro della forza lavoro eterodiretta di fatto maggioritaria, nella sua eterogeneità in valore di stock tra lavoro precario, a termine, autonomo e fenomeno assai diffuso in Italia più che in molti altri paesi europei, con una forte incidenza del lavoro nero. Tutti spazi dello sfruttamento dove l’azione sindacale è inesistente o totalmente minoritaria vista la ricattabilità e lo squilibrio dei rapporti di forza dispiegati, frutto del percorso storico della grande ristrutturazione o sconfitta operaia con la quale avevamo cominciato.

Ad esempio negli ultimi dieci anni sono state diverse le esperienze in Italia (ed in Europa) di sindacalismo metropolitano e di biosindacato, questi esperimenti hanno svolto un importante lavoro di alfabetizzazione sui diritti, sindacato immaginario, delle volte con incursioni nelle maglie del diritto del lavoro oppure affermando il diritto all’abitare con la riappropriazione diretta delle case. Altre volte attraverso lo strumento del sindacalismo di base hanno ottenuto il radicamento in importanti vertenze lavorative e sociale o cosa ancor più decisiva il riconoscimento simbolico che ha costruito poi immaginario, identità, soggettivazione precaria, come nel caso di San Precario. Questo compito sembra non bastare più nella fase politica e sociale che stiamo attraversando in cui la precarietà è diventata la condizione generalizzata di vita e lavoro di milioni di soggetti. Le conseguenze di venti anni di strategie europee per l’occupazione e le conseguenti ricadute sociali dei processi normativi derivati, peraltro tutti cogestiti in casa nostra dalle sinistre e dai sindacati (dal pacchetto Treu al Jobs Act renziano, che a fronte della totale deregolamentazione e precarizzazione processuale, a confronto fanno sembrare paradossalmente le misure varate dall’ex socialista Sacconi, scelte più temperate).

La sotto-occupazione diventerà la nuova forma di “occupabilità” ovvero la caratteristica fondamentale del mercato del lavoro che da giungla contrattuale si trasformerà in una “schiavitù generalizzata”, soprattutto per le generazioni precarie (attaccate dalla narrazione tossica dell’inattività) che utilizzano le ultime briciole (ormai finite) di “welfare familiare” come cassintegrazione di ultima istanza. I working poor saranno strutturali e generalizzati, qualsiasi forma di prestazione lavorativa sarà impoverita, declassata. Uno degli ispiratore del Decreto Poletti, convertito recentemente in legge, è il modello Farinetti che già indica nelle condizioni di lavoro le conseguenze reali di questo provvedimento. Nel “ventre della bestia” all’interno delle decine di Eataly, che hanno invaso diverse citta italiane, migliaia di lavoratori assunti come internali e con contratti di apprendistato vivono quotidianamente la precarizzazione estrema, la paura, bassi salari, turn over costante e assenza e contrasto dell’azienda a qualunque forma di sindacalizzazione. O chi vive direttamente l’irrigimentazione strutturale del lavoro volontario o anche famigerato inglesismo free job condizione e prerequisito costitutivo dell’altro pezzo del governo della precarietà, assiomatica renziana di grido: lavoro gratis, schiavismo legalizzato, base dell’organizzazione della forza lavoro nell’Expo 2015 di Milano (oltre 18mila lavoratori volontari sui 21mila complessivamente assunti).

Dicevamo un’asimmetria strutturale nel mondo dello sfruttamento presente sia quindi nella definizione dei diritti e delle garanzie che in quella della nuova composizione sociale dei nuovi assunti – cosiddetta flessibilità in entrata. Il primo elemento che risalta in una cornice comparativa con il resto dell’Europa è l’enorme tasso di inattività che in Italia supera di dieci punti percentuali la media europea, sul quale spesso si è detto e scritto, il più delle volte male, elemento però che mantiene una sua potenza ermeneutica decisiva per approfondire le questioni relative poi alla condizione lavorativa generale, di quali siano quindi le tendenze praticabili per una possibile rottura che è un po’ l’unico piano di riflessione che ci interessa sollevare dalla nostra umile e dignitosissima visuale di militanti di base nei movimenti. Come si organizzano queste moltitudini invisibili ma altrettanto e fortemente, reali, concrete del lavoro nero nascosto nella inattività formale o nell’inoccupazione, come si organizza il lavoro intermittente o “indipendente”, i cosiddetti “forzati” della partita Iva (con retribuzioni sotto la soglia di povertà) o dei contratti occasionali? Pensiamo al quasi mezzo milione di “proletari digitali” che lavorano come web editor, web design, programmatori, nel montaggio audio e video, nei social media o nell’editoria digitale: senza orari, con bassi salari, a cottimo, in ritenuta d’acconto o in nero. Altra avanguardia, uscita alla ribalta con inchiesta dei media, sono i mini-job virtuali.

Entriamo per un momento nella fredda statistica per avere una descrizione, ancorché generalista e parziale, pur sempre indice di una tendenza che rappresenta schematicamente il quadro della forza lavoro all’incirca come segue: in Italia dei 40 ml di cittadini potenzialmente disponibili nel mercato del lavoro non sono più di 25 ml attivi, di cui gli occupati meno di 22. Gli inattivi sono quantificati in 15 ml circa ovvero il 40% del totale calcolato. Cresce esponenzialmente per effetto della crisi il numero di disoccupati alla ricerca attiva del lavoro che ovviamente accresce il tasso di disoccupazione formale ormai oltre il 13% e contestualmente cresce nei dati di flusso il numero di coloro che vengono assunti con contratti a termine (più del 70% del totale) componendo una proiezione nel futuro mercato del lavoro strutturalmente ed irrevocabilmente precaria. Molta di questa precarietà, supposta inattività ha una forte connotazione di genere, da un punto di vista statistico e ancor ancor di più nel contenuto del lavoro immateriale, centralità femminile delle trasformazioni del terziario affettivo, avanzato, ma sul terreno della costituzione biopolitica dello sfruttamento. L’utilizzo del concetto di “inattività” contrapposto alla “produttività” e “competitività” serve alla governance stessa per produrre un nuovo cambio di paradigma, quello delle sfruttamento intensivo, del lavoro volontario e servile. Il contraltare alla disoccupazione di massa diviene così l’accettazione passiva di percorsi di “attivazione” basati su tirocini, freejob, apprendistati e servizio civile. I soggetti saranno obbligati ad accettare qualsiasi condizione salariale e contrattuale, perché nell’impoverimento generalizzato di gran parte della popolazione e nella disoccupazione strutturale il vero centro del problema rimane la redistribuzione della ricchezza, la mancanza costante di reddito.

Sindacalismo e conflitto sociale3

Coloro che invece hanno subito un processo di precarizzazione a partire da una iniziale e specifica condizione di lavoro garantito confermano che le vecchie garanzie della rigidità fordista sono ormai un miraggio buono solo per la retorica lavorista abbracciata trasversalmente dalle destre e sinistre liberali in pace sociale ed armonia con i sindacati, in tal caso veramente tutti, di base o confederali che siano. Infatti, ormai per effetto delle grandi e diffuse crisi industriali, la durata media dei contratti a tempo indeterminato non supera di regola più la soglia dei due anni. A fronte di ciò ci pare alquanto fuori luogo e strabica la rivendicazione generica di più lavoro e occupazione, a qualunque prezzo e costo sociale o ambientale.

 

Che dire, crisi dell’evento inversione della tendenza

Dal 2011 al 2013 si è determinato un ciclo di lotte a carattere globale che certamente ormai ha concluso la sua traiettoria: come si suol dire, è cambiata la fase. Ovunque in Europa e nel mondo una collettività moltitudinaria più o meno organizzata e ricombinata dentro la nuova composizione sociale del lavoro ha dato corpo alla lotta contro gli effetti del disastro neoliberista, nel pieno dell’ultima crisi finanziaria ad una presa di parola forte, ad una straordinaria resistenza.

Di più: quello che si respirava nelle tante piazze europee, dopo il ciclo delle cosiddette primavere arabe, era non solo il desiderio di rottura ma anche l’affermazione dell’alterità: l’impossibilità di delegare. La perfetta consapevolezza di mandare al suicidio le sinistre per l’esaurirsi inarrestabile della loro crisi. Crisi prima di tutto della forma della mediazione politica, dell’accordo pattizio tra il lavoro e il capitale, della forma stessa del welfare state, anche per questo ma non solo, crisi specifica del ruolo delle sinistre, basti vedere il recente teatrino delle elezioni europee.

C’è bisogno di un’opzione rivoluzionaria all’altezza della fase che potenzi e realizzi una dinamica processuale e costituente, l’affermazione di una potenza, tutta umana, della sua capacità di autogoverno contro l’odore mortifero del modo capitalistico di condurre le stesse umane vicende che rappresenta ormai solo una zavorra sulla cooperazione sociale. Affermazione di potenza che può e vuole mettere in discussione l’asse della decisione politica, se ne vuole riappropriare, divorandone il potere per affermarne uno nuovo: nuove istituzioni, per questo nemmeno a dirlo abbiamo bisogno di moltiplicare la capacità di organizzazione autonoma e di costruire su questo terreno maggiore rapporto di forza, di intelligente e contundente contrapposizione.

Un capitalismo mortifero che ormai chiuso nella crisi delle sue misure, come abbiamo visto nella rottura dei suoi processi di valorizzazione più consolidati, ha intrapreso una spirale definitivamente e chiaramente nichilista, no-future. Proprio per questo motivo chi propone modelli legati alle forme di vita esclusivamente destituenti qualificando e squalificando come “cittadiniste”, o giù di li, le lotte dei movimenti sociali, non solo commette un errore di prospettiva e di lettura politica enorme, ma si immette in una logica perfettamente compatibile, già endemizzata, prevista dal sistema stesso.

In Italia, dopo le elezioni europee, il consenso acquisito dal PD sta creando le condizioni per l’accelerazione di Renzi sull’approvazione di una serie di provvedimenti a cominciare dalla seconda parte della riforma del lavoro, il Jobs Act. Attraverso un disegno di legge-delega si attuerebbe la riforma degli ammortizzatori sociali tramite la minima elargizione di sussidi, dispositivi di controllo sociale. Nulla a che vedere né con forme di redistribuzione della ricchezza né con strumenti di superamento del nostro sistema di welfare: arretrato, condizionale, iniquo che crea sperequazione, pieno di clientelismo e che riguarda attualmente solo una parte dei lavori. Ma nel momento in cui si supererà l’attuale sistema degli ammortizzatori sociali,  attraverso l’erogazione di sussidi di disoccupazione a chi ne è stato da sempre escluso, sarà molto più difficile contrastare l’operazione di consenso che Renzi sta predisponendo su questo terreno. La narrazione della governance post-austerity in Italia ha già assunto la redistribuzione della ricchezza (simbolica) come indicazione comunicativa, pensiamo al bonus fiscale del governo Renzi.

Nei movimenti recentemente si è partiti molto spesso da una strategia di pressione dal basso delle tante vertenze sociali come il diritto alla casa, ambientali o territoriali, del lavoro precario che potremmo definire un’operazione nobilissima di lobbying spuria o di sindacalismo meticcio contro i poteri forti che nei vari territori speculano e pianificano lo sfruttamento intensivo ed estrattivo4. Su queste leve sollecitate dalle lotte, i movimenti si sono battuti per il miglioramento delle proprie condizioni di vita. Attenzione, l’obiettivo di vivere meglio è un  obiettivo politico di trasformazione radicale dell’esistente, della propria condizione.

Dal 19O al 12A i movimenti sui territori si sono concentrati su questo: sulla sedimentazione delle più nobili forme di strappo-e-contrattazione che possiamo definire di sindacalismo metropolitano o sociale, la verità è che questo piano di per se non è sufficiente. Non basta la sommatoria delle vertenze sollecitate dai gruppi o aree organizzate, il lavoro politico da intraprendere nel movimento è quello dell’apertura dello spazio pubblico, della generalizzazione, della diffusione sul territorio della potenza ricompositiva tra le lotte per i diritti del comune e quindi anche nella loro materiale difesa, contro gli abusi polizieschi, contro i femminicidi e la violenza di genere, in una nuova chiave espansiva e costituente all’altezza delle trasformazioni che abbiamo rapidamente enunciato, costruendo già in nuce i processi sociali di alterità che, nel mentre si lavora per distruggere il modello imperante, già si riproduce alterità, modelli sociali di cooperazione indipendente, forme di vita, per una sana, necessaria generalizzazione del conflitto, costruzione dal basso del comune (al singolare).

Dobbiamo poter “abbassare i ponti levatoi” uscire dal ghetto autoreferenziale del linguaggio e dell’organizzazione perimetrata, dobbiamo poter immaginare e praticare le forme dell’autogoverno sui territori tra quelle stesse forme di vita potenzialmente disposte al conflitto, colpite, morse dalla crisi. A Roma da alcuni mesi è iniziata una discussione pubblica tra diversi soggetti sociali e sindacali che sta immaginando un piano d’azione verso l’autunno che metta al centro uno sciopero sociale contro la precarietà e le politiche di austerity, uno sciopero dentro e contro i processi di precarizzazione. Uno sciopero da intendere non come evento esclusivamente comunicativo o allusivo in cui ripetere esperimenti già vissuti, pensiamo alle recenti forme di generalizzazione degli scioperi del sindacalismo di base o dei metalmeccanici, ma come “un processo sociale inclusivo ed espansivo” che sappia valorizzare le intelligenze, le resistenze e le complicità nell’universo frammentato della precarietà sociale, lavorativa ed abitativa. Un dispositivo pubblico di cooperazione e ricomposizione delle lotte di precari, disoccupati e cassaintegrati. Infatti, lo sciopero sociale parte dalla problematizzazione che milioni di precari e precarizzati non possono scioperare, per questo riteniamo fondamentale risignificare la pratica e la narrazione dello sciopero nelle crisi. Consapevoli che esclusivamente attraverso il coinvolgimento, la valorizzazione delle intelligenze dei precari, la sperimentazione di pratiche riproducibili e l’attivazione dei soggetti si possano realizzare delle “prove tecniche” di blocco dei flussi produttivi, del consumo, della rete, delle strade ecc. Uno sciopero politico contro la disoccupazione di massa e l’impoverimento generalizzato da sperimentare in maniera coordinata con le reti e i movimenti trasnazionali all’interno del semestre europeo di presidenza italiana. Obiettivo condiviso dovrebbe essere quello di trasformare il semestre di presidenza italiana nel semestre sociale delle lotte contro la precarizzazione delle nostre vite in connessione con gli spazi e le reti nazionali e internazionali in movimento verso un’altra Europa.

Sindacalismo e conflitto sociale

La cooperazione e la sinergia con il sindacalismo di base e conflittuale, con le reti autoconvocate di lavoratori in lotta, con i movimenti di lotta per il diritto all’abitare, con il frammentato arcipelago della precarietà sociale potrebbero creare le condizioni per un arresto, un blocco coordinato in diverse città italiane – e auspichiamo europee – da realizzarsi in autunno. Quindi uno sciopero ancora da inventare, nonostante ci siano state significative esperienze e campagne di movimento in Italia ed in Europa. In questo senso abbiamo bisogno di far crescere coalizioni sociali larghe ed inclusive capaci di costruire alternative credibili, rinnovando pratiche organizzative e comunicative. Un innesco che crei una movimentazione, una rottura generalizzata.

C’è bisogno oggi di dare vita a movimenti che diano l’espressione del potere costituente come potere di rottura e nel contempo di sperimentazione continua di nuovo potere, istituente, espansivo, di rivoluzione permanente poiché si tratta di una continua rifondazione (radicale) dell’organizzazione sociale5. Consapevoli quindi che la capacità di imporre un modello di autogoverno non basterà mai di per se a se stesso nella sua stessa riproduzione. La grande misura sociale della nostra rivoluzione sarà la sua stessa esistenza operante.  Nella marea moltidudinaria saltano le identità precostituite, le maschere e les premiere dames, ciò che auspichiamo non potrà mai avere il volto di un sindacato, ancorché sociale, metropolitano o meticcio che sia.

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  1. http://dcentproject.eu/resource_category/publications  

  2. http://uninomade.org/marazzi-il-comunismo-del-capitale 

  3. M. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, Deriveapprodi, Roma 2014, pag.136 

  4. http://anarquiacoronada.blogspot.com.ar/2013/12/serie-nuevo-conflicto-social.html 

  5. A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Sugarco, Varese 1992, pag. 265