di IAIN CHAMBERS
C’è una nota affermazione di Michel Foucault dove il pensatore francese sosteneva che la vera scienza consistesse non nella ricerca della verità ma nell’operare un taglio. Possiamo considerare il volume curato da Orizzonti meridiani per ombre corte come un ottimo esempio di questo tipo di ricerca. In una serie di brevi ma taglienti saggi, gli autori e le autrici riescono a proporre una cartografia della cosiddetta ‘questione meridionale’ tracciata in una maniera radicalmente diversa da quelle a cui siamo abituati per spiegare la storia e la cultura del meridione.
Qui il sud dell’Italia (ma l’argomento trattato ha inevitabilmente una risonanza con la costruzione di altri sud del mondo) perde quella passività per cui risulta sempre oggetto e vittima di logiche elaborate altrove. Di solito considerato come una riserva di risorse umane e naturali, che nello loro combinazione servono a nutrire le esigenze del nord del paese come se fosse solamente il luogo dell’accumulazione capitalistica iniziale descritta da Marx, il Mezzogiorno è qui proposto nei termini di un laboratorio politico dove diventa possibile elaborare un’altra storia. Qui si apre uno squarcio e si elabora una visione critica in rotta di collisione con l’ordine vecchio, rifiutando di giocare una partita persa in partenza.
Attraverso le analisi sviluppate in queste pagine, il sud diventa protagonista di un ripensamento profondo di quei poteri che l’hanno costantemente relegato ai margini della narrazione della nazione, subordinando le sue specificità storiche, culturali ed economiche a un’inferiorità politicamente costruita e da gestire in modo paternalistico e coloniale. Riportato in una cartografia più estesa e meno provinciale, il sud si trasforma da oggetto subalterno, messo a tacere dal coro cieco di un progresso proposto in maniera unilaterale, in una forza critica attiva. Questo volume riesce a spaccare la gabbia di un’eredità che da vari secoli ha soffocato il Meridione d’Italia in una serie di stereotipi e invenzioni che negano i rapporti asimmetrici di potere che traducono processi storici e politici in rapporti geografici, creando i sud subalterni e subordinati al Nord del pianeta.
La violenza della formazione dello stato-nazione moderno, tanto evidente nella creazione del Regno Unito, quanto nell’unificazione dell’Italia, è una storia rapidamente rimossa, affondata nell’inconscio, e ridotta alla supposta neutralità di legge e ordine. I massacri perpetuati in Irlanda e nelle Highlands della Scozia, come la guerra civile combattuta nel sud dell’Italia, non devono disturbare lo svolgimento apparentemente liscio del progresso, uno sviluppo logico che nessuna persona civile e normale oserebbe contestare. Questa è precisamente la sfida posta da questo libro: se siamo disposti a rivedere la questione meridionale e a disfare i discorsi che l’hanno fatto prigioniero, dobbiamo anche smontare la costruzione concettuale che ha prodotto sia la forma specifica della nazione, e con ciò la subalternità del suo sud, sia le politiche di progresso che hanno accompagnato e sigillato questo assemblaggio di poteri.
Joseph Conrad ci ha insegnato che il cuore di tenebra non stava laggiù in Africa, ma nelle capitali europee – a Bruxelles e Londra – come a Torino e a Roma dove è stato costruito, anche dalle classi dirigenti di origine meridionale, il sud come problema e come appendice della politica nazionale. Sta in questa geografia dei poteri, nelle sue variazioni e nella sua capacità di tagliare e modellare il mondo secondo certe esigenze e non altre, che troviamo il senso politico di uno spazio disciplinato dall’autorità e di un tempo unilaterale chiamato progresso. Rompere con questa impostazione, come fanno questi saggi, significa riaprire l’archivio storico e risistemarlo su una mappa più estesa e dinamica, sottoponendolo finalmente a quegli interrogativi che non erano autorizzati dall’assetto precedente. Qui, per esempio, le poetiche letterarie e cinematografiche spesso eccedono le spiegazioni politiche ufficiali: sto pensando al bel testo sul Risorgimento di Anna Banti Noi credevamo (1967), recentemente ripreso in maniera benjamiana in tutta la sua attualità nell’omonimo film di Mario Martone (2010).
In questo spazio critico, si tratta di tradurre – sia un passato rimosso e rifiutato, sia i rapporti non solamente nazionali ma planetari su cui reggono le specificità della formazione della questione meridionale nell’arco di diversi secoli – in un progetto politico-culturale nuovo, spezzando i poteri che finora hanno ingabbiato il sud in una prospettiva subalterna apparentemente senza via di uscita. Ripetiamolo, tale salto critico e culturale impone la decostruzione critica del dispositivo nazionale che sostiene e richiede il sud come alterità subordinata alla rappresentazione della nazione e alla modernità che esso pensa di incorporare. La critica nitida sviluppata dagli autori di questi saggi colpisce direttamente al cuore quella sistemazione dei saperi e delle conoscenze che finora ha legittimato e legiferato questo stato delle cose.
Come dicevamo le analisi del volume propongono una risonanza critica che ci porta ben oltre i confini del Mezzogiorno, trasformando tale spazio storico-culturale in un laboratorio dove si incominciano a mettere alla prova altri modi per raccontare una modernità attraversata da percorsi variegati e alternative diverse. Insistendo su una temporalità piena e diversificata, dove le storie si accumulano spesso senza risposte in un presente carico, si fa tagliare e deviare il tempo omogeneo del progresso che aspetta solo di essere riempito dall’accumulazione capitalistica gestita secondo un’agenda nazionale dettata dalle leggi del mercato. La complessità odierna del capitale nella sua moltiplicazione di modi di sfruttamento e gestione ci spinge verso una profonda radicalizzazione dei linguaggi analitici che cercano di registrare e andare oltre le ‘soluzioni’ in offerta.
Il nucleo di questa sfida, aldilà delle ottime e incisive analisi di una serie di situazione specifiche, sta nella rivolta dei saperi contenuta in questi saggi. Qui, non si tratta, come spesso si fa nelle scienze sociali, di aggiustare e aggiornare gli strumenti di lavoro per meglio concepire la ‘realtà’. Il taglio critico auspicato da Foucault, e qui messo a lavoro, è di tutt’altro ordine, e investe il linguaggio stesso. La macchina accademica – egemonizzata dall’empirismo ‘scientifico’ anglo-americano, e tutelata dai manuali di stile, i peer review, e le dighe di citazioni che servono per proteggere l’autorità dell’esposizione – viene sovvertita da una svolta gramsciana (e fanoniana) che fa saltare i parametri dell’attuale esercizio della conoscenza. Al contrario dell’individualismo competitivo che regna nel mondo dei saperi, i lavori collettivi elaborati in questo volume, sono l’esempio di un’attività critica che non può essere misurata dalla metafisica della cosiddetta oggettività del mercato istituzionale dei saperi. Qui viene scomposto l’operato di una costellazione scientifica che pretende di essere neutrale, echeggiando l’adagio thatcheriano e neo-liberale del TINA: there is no alternative.
Quando gran parte del mondo è escluso dall’elaborazione dell’apparato politico e intellettuale che decide e detta le regole del gioco, il sud, come una composizione mobile di pratiche e luoghi, diventa il contro-peso politico e critico di un mondo e di una modernità ancora da narrare. Sapendo bene che il Mezzogiorno dell’Italia, come tanti altri sud, non riuscirà mai a raggiungere le mete imposte dal progresso concepito strutturalmente nei termini dell’accumulazione del capitale. Con questa consapevolezza, e non volendo restare una vittima silenziosa, si tratta di demolire criticamente la logica destinata a escludere gran parte del mondo. Pensare mondialmente significa non solamente registrare le differenze ma anche accogliere i meccanismi sorretti dai poteri ineguali e asimmetrici.
Il coinvolgimento critico richiesto qui parte dal rifiuto di rispettare i compiti di uno sviluppo reso impossibile dagli stessi meccanismi che gestiscono e proteggono tale asimmetria. Non accettare il ruolo di restare sotto – sottosviluppato, sottomesso, subordinato e subalterno – significa prendere iniziative alternative e autonome all’interno di una modernità dove la geografia dei poteri è inevitabilmente tradotta in processi storici assai più fluidi e aperti; questi sono sempre in grado di ritmare la modernità secondo tempi, direzioni e diritti non ufficiali, ma egualmente reali ed essenziali.
Le analisi specifiche del volume si concentrano sulla trasversalità delle forze in campo: in Sicilia, a Ragusa, a Bagnoli, a Taranto, nei campi Rom a Napoli, nelle trivellazioni in Val d’Agri in Basilicata, nei luoghi di resistenza nel casertano e nel benevento, nei call center a Cosenza. Sono le zone (temporanee) di eccezione ed esclusione che forniscono delle frontiere mobili dei dispositivi di controllo e sfruttamento dove spesso i confini tra l’accumulazione del capitale, il controllo del territorio, i danni e i disastri ambientali evaporano. Qui l’obiettivo e l’oggettività dei processi economici come misura del progresso si declinano in un’ambiguità agghiacciante. Chiaramente tali dispositivi di controllo – non solamente ed ovviamente politici-economici saldati nei linguaggi giuridici – sono profondamente culturali. Forse qui qualche attenzione in più alla questione della religione e del cattolicesimo, come forza educativa e potere secolare che partecipa alla formazione della cultura e politica nazionali e alla loro gestione differenziata (pensiamo solamente all’intreccio tra la Chiesa e le condizioni del Mezzogiorno abbozzato da Gramsci), avrebbe dovuto trovare più spazio.
Comunque è qui che si toccano le zone liminali della politica dove il riconoscimento astratto della democrazia è negato continuamente dalla prassi di un ordine che riconosce solamente chi è disposto a rispecchiare e rispettare le sua definizioni. La legge emana i diritti pur riservandosi l’autorità di negarli. Qualsiasi contestazione che smonta le pretese e le premesse della politica attuale è rapidamente destinata a essere criminalizzata ed esclusa dalla narrazione legittima. In questa partita si gioca l’esclusione dalla cittadinanza di coloro che apparentemente non hanno il diritto di narrare, rinchiusi nelle loro storie invisibili e clandestine. Come i migranti illegali, i Rom, i poveri e i precari, sono penalizzati e puniti. Queste persone, con le loro storie, culture e vite, sono fuori posto e perciò potenzialmente criminali perché devianti rispetto al senso univoco del successo sociale richiesto dall’ordine neo-liberale.
Smontare il Sud per permettere che un altro sud possa emergere, significa cercare un’altra grammatica con cui narrare questo tempo-spazio costruito e costretto a ripetersi nello specchio di una subalternità costante. Insistere sul ruolo determinante del sud nella riproduzione politica e culturale dell’egemonia del nord, come parte integrante della sua riproduzione, significa già smantellare la gabbia. Lo sguardo orientalistico e la razzializzazione dei meridionali che mantengono in piedi i rapporti asimmetrici di potere all’interno della retorica unificante della nazione, è basata sull’imposizione violenta di un’identità che continua a credere che la cultura e l’identità siano oggetti fissi e stabili, invece di essere processi storici in continua elaborazione.
Disfarsi delle storie ufficiali e istituzionali, e rifiutare il loro giudizio, ci porta a tagliare il corpo della conoscenza ereditata per liberare altre storie, altre modalità per raccontare un passato che non passa, ma che si accumula come una rovina potente ed inquietante nel presente. Insistere sul diritto a narrare un’altra storia, proponendo la costruzione di una società civile diversa che risponda alla giustizia storica e sociale negata, non implica un’alternativa utopica. Al contrario significa una ricomposizione dei rapporti, le loro storie e i loro poteri, che sono già in circolazione, quelle che finora sono stati rifiutati, rimossi e annegati. Smarcarsi dalla violenza storica e razziale che produce un sud, e le gerarchie di valori che sigillano tale concetto, colpisce al cuore l’operazione storiografica che ha visto nella nazione il suo scopo principale, riducendo il resto ai margini.
Si tratta di una sfida storiografica, e perciò di grande portata politica e culturale, che collega la questione meridionale non solamente agli altri sud subalterni nel mondo, ma anche, e più profondamente, al senso critico della modernità che li ha prodotti e pensa sempre di essere in grado di spiegarli. Questo volume è un ottimo esempio di come si fa questo lavoro fondamentale: da leggere!
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