Di SERGIO FONTEGHER BOLOGNA

Tre documenti, letti in successione, possono aiutarci a mettere a fuoco i rapporti di classe oggi in Italia. Il 29 settembre l’area studi di Mediobanca ha pubblicato il rapporto annuale sui dati cumulativi di 1900 società italiane.

E lo ha presentato in questi termini: «Nel 2023 margini record per le imprese italiane», che vuol dire in concreto «un Ebit medio del 6,6%, il miglior livello dal 2008». Per crescita del fatturato sono in testa le costruzioni, grazie alla droga del superbonus.

Poche settimane dopo un gruppo di ricerca della Facoltà di Ingegneria della Sapienza di Roma pubblicava i risultati di una ricerca intitolata: Dinamica dei redditi, recenti squilibri nell’industria italiana. Il direttore della ricerca prof. Riccardo Gallo, nel presentarla su Il Sole 24 Ore del 22 ottobre, ha usato questi termini: «Il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale è stato pazzesco. I soci hanno prelevato come dividendi l’80% degli utili netti e hanno lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti (…) Oltretutto gli avari investimenti delle imprese sono stati solo per il 40% materiali nelle fabbriche e per il 60% finanziari in partecipazioni».

Il 29 ottobre l’Istat ha pubblicato la notizia flash Contratti collettivi e retribuzioni contrattuali, luglio-settembre 2024, dove si legge: «I 46 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica riguardano il 47,5% dei dipendenti (…) i contratti che a fine settembre 2024 sono in attesa di rinnovo ammontano a 29 e coinvolgono circa 6,9 milioni di dipendenti (il 52,5% del totale)».

La maggioranza dei dipendenti dunque lavora con contratti scaduti. Ciò significa diminuzione del salario perché i rinnovi ritardati in genere non riequilibrano mai il perduto, al massimo concedono qualche spicciolo di risarcimento per la vacatio. E in più c’è l’inflazione. Inoltre gli aumenti in genere sono premi di risultato incorporati nel Welfare aziendale, non finiscono in paga base.

Risultato? La diminuzione progressiva dei redditi da lavoro, in atto da decenni, continua alla grande. Gli utili, come abbiamo visto, vanno per l’80% agli azionisti, di quel magro 20% rimasto solo il 40% viene reinvestito in fabbrica. Questo avviene quando i profitti sono alle stelle, figuriamoci che succede quando c’è aria di rallentamento o addirittura di crisi. Infatti, le trattative del contratto dei metalmeccanici e del contratto trasporti e logistica, tanto per citare due esempi significativi, sono, al momento in cui scrivo, interrotte. Alle richieste dei sindacati i padroni hanno risposto picche.

Sono decenni che in tutte le business school s’insegna che compito del management non è far crescere l’impresa ma remunerare gli azionisti.

Questa non è finanziarizzazione, è guerra di classe. Ma è la guerra «pulita». Qual è la guerra «sporca»? È quella del sistema di appalti e di subcontracting, dove regnano illegalità ed evasione fiscale. L’illegalità che i giuristi chiamano «intermediazione illecita di mano d’opera» noi la chiamiamo «caporalato», vecchia conoscenza che oggi, dove la base di reclutamento è costituita da forza lavoro immigrata più ricattabile, si è rifatta il trucco. Nella cosiddetta logistica rappresenta il 90% della forza lavoro, il che non significa che al 90% è illegale ma che una notevole componente è fatta di imprese che sotto le finte vesti del contratto d’appalto nascondono la vera natura di serbatoi di mano d’opera.

Il Tribunale del Lavoro di Milano, grazie a un paio di magistrati – guardati con sospetto – ha cercato di mettere un argine ponendo sotto amministrazione giudiziaria diverse aziende. Non pesci piccoli ma multinazionali del calibro di Dhl, Geodis, Amazon, specialisti della home delivery. Hanno recuperato in tal modo più di mezzo miliardo di evasione fiscale (soprattutto Iva non pagata, contributi previdenziali non versati) e regolarizzato 14 mila lavoratori.

Ma poi c’è un terzo livello, un ulteriore girone di questo inferno, quello della schiavitù. Forse la nostra incapacità di coglierne la dimensione specifica oggi è proprio dovuta al fatto che essa si è talmente integrata nel modello economico-produttivo, ne è diventata un elemento talmente essenziale e imprescindibile, da far abituare il nostro occhio a guardarla senza battere ciglio.

È difficile immaginare in una situazione come questa una reazione diversa dal conflitto. Perché non ci sono i margini. 80% dei profitti agli azionisti, più del 50% dei dipendenti con contratto scaduto. Solo il conflitto può frenare l’ulteriore degrado. Se è questo che Maurizio Landini intendeva con «rivolta sociale», è il minimo che si possa dire. E se il Pd ogni tanto guardasse a questi numeri e ne facesse argomento di propaganda, piglierebbe il doppio dei voti. Ma quelli pensano alle «politiche industriali», roba che in Italia non si vede dai tempi di Mattei. E allora, piuttosto di votarli, me ne sto a casa. Non s’è ancora capito che l’astensione è «rossa»?

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 30 novembre 2024.

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