Intervista di LUDOVIC LAMANT pubblicata da Mediapart il 27 maggio 2015, traduzione di NINA GRETA.
Il filosofo Paul B. Preciado, figura maggiore dei queer studies, è un osservatore entusiasta delle mutazioni politiche spagnole. Dopo la vittoria di numerose candidature cittadine e “indignate” alle elezioni municipali, in particolare a Barcellona, uno dei suoi luoghi-base, l’autore di “Testo Junkie” (Grasset, 2008) ritorna sulla genesi di questi movimenti inediti che “ripoliticizzano le classi medie impoverite dalla crisi” e rompono con la cultura politica nata dalla transizione post-franchista.
Che cosa la seduce di più, nella piattaforma cittadina che domenica ha vinto le elezioni a Barcellona?
Trovo tutto eccitante. Si tratta di partiti politici nuovi, che non riproducono la struttura dei professionisti della politica, e che non hanno né i soldi né le reti dei partiti “sistemati”. Nella vittoria di Ada Colau ci sono molti elementi che sono stati determinanti, e che sono abbastanza straordinari: innanzitutto, la mobilizzazione delle classi medie impoverite, precarizzate dalle crisi successiva al 2008. Questa politicizzazione è il risultato di un lavoro incredibile, portato avanti da Ada Colau e dalla PAH (la piattaforma anti-espulsioni immobiliari lanciata nel 2009 in Catalogna) che ha saputo allargare tale esperienza e la sua forza di trasformazione al di là della rete di attivisti.
Con la PAH, tocchiamo la questione della casa, dell’habitat, della sopravvivenza, della vulnerabilità del corpo. La PAH ha saputo organizzare la vulnerabilità per trasformarla in azione politica. L’immagine è forse un po’ forte, ma per quanto mi riguarda, è successo qualcosa di simile a quello che accadde durante le lotte per i malati di Aids negli anni ’80. Quest’azione è servita da leva per ripoliticizzare tutta una classe che attraversava un’enorme depressione politica. La cattura dei desideri dal capitalismo neoliberista produce una depressione collettiva, che si esprime sotto forma di depoliticizzazione totale. Inventando nuove tecniche politiche, come l’escrache, Ada Colau e altri hanno saputo ri-incantare il mondo della politica. È senza dubbio, ciò che c’è di più bello nella loro vittoria. I corpi sono usciti per le strade, e la città intera è stata ripoliticizzata dalla loro presenza.
Parla degli escraches, le azioni condotte da Ada Colau e dagli attivisti della PAH per denunciare, uno a uno, davanti alle loro abitazioni, i deputati “complici” delle espulsioni immobiliari. Si tratta di azioni radicali, che hanno diviso gli spagnoli. In quel momento era difficile prevedere che Ada Colau avrebbe vinto alle urne…
Sì, sono tecniche radicali, ma sono emerse in un momento in cui la corruzione politica era fortissima, e il fallimento del sistema democratico, considerevole. È per questo motivo che la Grecia e la Spagna costituiscono due poli interessanti da seguire, perché sono impegnati in processi di transizione democratica recenti. In Spagna, abbiamo avuto quarant’anni di dittatura, poi quarant’anni di democrazia. Le nostre istituzioni democratiche sono quasi inesistenti. Sono delle semplici scenografie esanimi. Tuttora, la democrazia cerca se stessa; in un certo senso potremmo dire che è ancora da sperimentare. C’è una fragilità democratica che ad esempio la Francia, dove tutto è molto più stabile, non conosce. Ma questo offre una maggiore possibilità di sperimentazione istituzionale – ciò che noi chiamiamo le “nuove istituzionalità”.
Inoltre, tutto questo si inserisce in una tradizione politica molto forte, in Spagna come in Catalogna, dal XIX secolo: quella di un comunismo libertario e di un anarchismo, entrambi marcati da una dimensione estremamente utopica. Lo si vede bene in Ada Colau, che allo stesso tempo è la più pragmatica di tutti. Ed è altrettanto evidente in Teresa Forcades, con una dimensione ulteriore, quasi mistica (Teresa Forcades è una religiosa ipermediatizzata, che ha sostenuto la campagna di Ada Colau, conosciuta dal grande pubblico per aver denunciato i profitti dell’industria farmaceutica durante l’epidemia dell’influenza aviaria). D’altronde, ne ritroviamo tracce in tutta una tradizione spagnola: penso a donne come Clara Campoamor (femminista che contribuì alla redazione della Costituzione spagnola nel 1931), Federica Montseny (la prima donna ministro della Repubblica, nel 1936, anarchica e femminista) o ancora Dolores Ibárruri, la Pasionaria (segretaria del Partito Comunista Spagnolo tra il 1942 e il 1960). Questa sovrapposizione improbabile tra anarchia, comunismo libertario e misticismo utopico, totalmente straordinaria, è spesso incarnata da donne, è vero, ma non soltanto.
Abbiamo letto su “El Diario” articoli sul “protagonismo femminile” di questi movimenti cittadini, incarnati da Manuela Carmena a Madrid, e Ada Colau a Barcellona. Lei è d’accordo?
No. Ci sono molte donne in politica, tutto qui… Altrimenti, si potrebbe dire la stessa cosa di Marine Le Pen in Francia. A pensarci bene, trovo questa domanda stessa scandalosa. È come se si continuasse a definire la politica come un dominio riservato agli uomini, in cui, appena una donna ottiene un briciolo di protagonismo politico, si decreta l’eccezionalità della cosa. Vi ricordo che ci sono molte donne politiche potenti anche a destra, nel PP, come Esperanza Aguirre (a Madrid) o Rita Barbera (a Valencia), delle enormi “signore” della politica. Quindi non penso si possa fare un’analisi di genere su ciò che sta succedendo in Spagna.
È altresì legato al fatto che in Podemos vediamo, quasi esclusivamente, uomini in primo piano. Crede sia un problema?
Non credo. In Podemos, ci sono anche molte donne, molte lesbiche, gente che viene dal femminismo o dal queer… Non credo che Podemos sia più maschile, o mascolinista, di altri. Quello che invece continua a scioccarmi, sono alcuni articoli della stampa spagnola senza alcun interesse, che dall’indomani stesso della vittoria di Ada Colau, descrivono suo figlio e suo marito, e spiegano quanto lei cucini bene… Ancora una volta, tutto questo implica una naturalizzazione della sua dimensione politica.
Inizialmente, lei ha parlato della transizione democratica spagnola. Secondo lei, le elezioni del 24 maggio segnano finalmente una rottura con il regime del 1982, nato dalla transizione con il franchismo?
Quello che sta succedendo è molto, molto importante. Eravamo giunti a un momento di profonda crisi democratica. I movimenti del 15-M (riferimento al 15 maggio 2011, quando gli “indignati” occuparono le piazze di tutto il paese) – che i cosiddetti grandi intellettuali di sinistra avevano rinnegato, sostenendo che non vi era alcuna vera idea politica –, hanno permesso di ripoliticizzare le classi medie precarizzate. Questo ha innescato una presa di coscienza, una sorta di emancipazione cognitiva, di fronte a due dittature simultanee: da una parte, sul fronte politico, la continuità di pratiche dittatoriali nel sistema democratico – ed è il fallimento democratico di cui parlavamo; e dall’altra, un fallimento economico, in stretta relazione con la dittatura del mondo finanziario. E ciò che costituisce il legame tra queste due dittature è la corruzione. Quello che le persone fanno con i soldi pubblici, come li gestiscono.
In Spagna, per lungo tempo, la denuncia della corruzione si è unita a una forma d’indifferenza generale: “sono tutti ladri, chi se ne frega”. Grazie al 15-M, siamo passati dalla costatazione disillusa all’invenzione di nuove pratiche di controllo democratico. Penso alla PAH, ma anche al Partito X, o a persone come Itziar González Virós e il parlamento cittadino – il Parlament Ciutadá, uno strumento di contro-potere che riunisce movimenti eterogenei per formare un contro-parlamento. La domanda non è più: chi sono i ladri? Ma: quali sono i meccanismi di controllo democratico? È un cambiamento davvero importante.
Ma lei cita delle strutture scaturite dal 15-M, che sono tutte dei contro-poteri. Ada Colau è appena andata al potere. È diverso…
Non possiamo comprendere una cosa senza l’altra. Le vittorie di Ada Colau o di Manuela Carmena sono simmetriche all’azione dei contro-poteri, di un insieme di micropolitiche che hanno reinventato la politica. Hanno inventato nuovi modi di controllare la democrazia, in un momento in cui la democrazia spagnola si era ridotta in frantumi. Il problema è che in Spagna, ancora oggi, il sistema democratico è molto degradato, con delle istituzioni che funzionano in modo non democratico. È tutta l’architettura del potere, sorretto dalla Costituzione, che aggira la democrazia. Per cui, anche se lavori all’interno di queste istituzioni e vuoi fare diversamente, ti rendi conto che non è possibile.
È lo stesso dibattito che si pone per l’Unione Europea…
Sì. È la questione delle trasformazioni democratiche. O, più precisamente, delle pratiche rivoluzionarie. Quando sento parlare Ada Colau o Manuela Carmena, sento dei discorsi rivoluzionari. Come realizzarli, all’interno di istituzioni che non sono democratiche? Dobbiamo pensare la rivoluzione come processo permanente, costituente. Sarà necessario cambiare radicalmente l’architettura del potere – il sistema elettorale, la Costituzione e altro ancora. Non sarà facile. Ma viviamo un momento straordinario.
Lei ha parlato del passato anarchico della Catalogna. Per quanto riguarda Madrid, è più sorprendente, non le pare?
In effetti, la tradizione catalana è più libertaria. Negli anni ’70, ci sono state delle jornadas libertarias in Catalogna. E si parla sempre della movida madrileña, ma è a Barcellona che è avvenuta la vera movida democratica. A Madrid, tutto è stato più connesso al partito comunista. Manuela Carmena si è riallacciata alla tradizione anti-franchista, prova che nel 2015 ne abbiamo ancora bisogno. Da questo punto di vista, il dialogo Carmena-Colau permette di creare un legame tra una tradizione anti-franchista e i movimenti apparsi dopo la crisi del 2008, gli “indignati”, il 15-M, etc. Alle volte, mi dico che la destra non permetterà che le cose vadano in questo modo, perché è troppo bello. Spero che il PP le lascerà portare avanti le politiche che vogliono fare, che non le ucciderà.
Lei conosce bene la Francia, dove il paesaggio politico sembra ancor più congelato, e dove non c’è stato un momento fondatore come il 15-M nel 2011. Ciononostante, ci sono degli elementi da copiare alla Spagna, delle lezioni da trarne?
Mi piacerebbe molto che l’effervescenza attecchisse anche in Francia, che l’estrema destra non fosse l’unica ad approfittare della crisi. Lo strumento di governo neoliberale opera a livello europeo, e mondiale. Per questo ci vuole una grande rete di alleanze e di micropolitiche rivoluzionarie in Europa. Non si tratta semplicemente di rivolte sparse, ma di un’onda di rivolte che inizia. Perciò non si tratta tanto di copiare tecniche – come gli escraches o le primarie aperte su Internet, etc. – quanto di riuscire a ripoliticizzare il tessuto sociale. Come fare per ripoliticizzare altrimenti che con una politica ultra-identitaria? Poiché in Francia la politicizzazione passa da un linguaggio nazionalista, dalla questione dell’identità francese, dalla politica della paura. Il punto dunque, consiste nel modificare queste variabili, nel trovare un altro linguaggio, altre pratiche capaci di trasformare il desiderio collettivo.