di ANTONIO NEGRI.

Quando si legge il Capitolo VI Inedito avendo già studiato il Libro I de Il Capitale, si è colpiti dalla potenza teorica e dalla chiarezza dell’esposizione di alcuni concetti che, quasi nel medesimo periodo, Marx costruiva, non altrimenti ma con altra intonazione, nel Libro I appunto. Non è solo su questa potenza teorica che noi vorremmo qui intrattenerci, vorremmo anche mostrare che la rilevanza del Capitolo VI Inedito consiste nel fatto che qui alcuni di quei concetti divengono la sorgente di importanti sviluppi della critica politica marxiana e permettono di cogliere, meglio, di orientare dei dispositivi teorici per una migliore comprensione del capitalismo contemporaneo. Infatti Marx qui sopravanza spesso la sua propria capacità di illustrare i perversi meccanismi dello sfruttamento capitalista e, mentre vede la tendenza svilupparsi, egli sembra collocarsi (teoricamente) nell’a-venire della lotta di classe contro il capitale. (Qui di seguito citiamo da K. Marx Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito. Risultati del processo di produzione immediato, La nuova Italia, Firenze, 1969 – trad. Bruno Maffi; prima ed. tedesca Arkhiv Marska i Engel’sa, tomo II (VII), 1933, pagg. 4 – 229. Vedi poi K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 vol., trad. Enzo Grillo; La nuova Italia, Firenze, 1968-70; K. Marx, Teorie sul plusvalore, trad. G Giorgetti, Editori Riuniti, Roma, 1971.)
I capitoli nei quali questa “preveggente critica” si costruisce, sono essenzialmente quelli che riguardano la definizione del plusvalore assoluto e relativo (con annessa considerazione dello sviluppo delle tecnologie e del macchinismo) e che di conseguenza elaborano le categorie di “sussunzione formale” e “reale”; quelli nei quali si costruiscono i concetti di “lavoro produttivo” e “lavoro improduttivo” e si insite sulla posizione e funzione della scienza all’interno del processo di valorizzazione del capitale; e in fine quelli che toccano il concetto e la misura della produttività del capitale e forse afferrano, scavando nell’estensione e nella densità sociali dello sfruttamento capitalista, l’immagine di un soggetto rivoluzionario che illumina l’orizzonte contemoporaneo. Qui di seguito non si cercherà tanto di approfondire l’analisi di questi passaggi del Capitolo VI Inedito, quanto di sottolineare in che maniera essi aiutino ad allargare fino ai nostri tempi, all’epoca del capitalismo postindustriale, la potenza della critica marxiana

I.
Non abbiamo qui interesse a tornare sulla definizione del plusvalore assoluto e del plusvalore relativo. Marx ne parla instancabilmente dalla pag. 3 alla pag. 58 (nell’ed. tedesca da pag. 454 a pag. 473) per poi introdurre i concetti di sottomissione (o sussunzione) formale e reale del lavoro al capitale alle pagg. 58-68 (ed. tedesca pagg. 473-478). Le definizioni delle differenti forme del plusvalore corrispondono a quelle esposte nel Libro I de’ Il Capitale. Neppure è, qui, tanto importante (ai fini del nostro avanzare nella ricerca) ripetere i criteri che distinguono la sottomissione formale da quella reale. Comunque: “la sottomissione reale del lavoro al capitale si sviluppa in tutte le forme che generano, a differenza del plusvalore assoluto, plusvalore relativo” (pag. 69; ed. tedesca pag. 478). Essenziale sarà piuttosto sottolineare che per Marx “alla sottomissione reale si accompagna una rivoluzione completa (che prosegue e si ripete costantemente [N.B. la sottolineatura è nostra]) nel modo stesso di produzione, nella produttività del lavoro e nel rapporto fra capitalisti ed operai”. Una temporalità forte regge dunque il processo, il tempo di una rivoluzione continua dove la “composizione organica” del capitale è investita dal movimento delle sue componenti, macchine ed operai, scienza e valori d’uso. A questa intensificazione temporale si accompagna un’estensione globale del modo di produzione capitalista: “la sottomissione reale del lavoro al capitale va di pari passo con le trasformazioni del processo produttivo che abbiamo già illustrate: sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro e, grazie al lavoro su grande scala, applicazione della scienza e del macchinismo alla produzione immediata. Da una parte, il modo di produzione capitalistico, che ora appare veramente come un modo di produzione sui generis, dalla produzione materiale una forma diversa; dall’altra, questa variazione della forma materiale costituisce la base per lo sviluppo del rapporto capitalistico, la cui forma adeguata corrisponde per ciò ad un determinato grado di sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro” (pag. 69; ed. tedesca pag. 478).
In queste condizioni, assoggettato a questa dinamica, il capitale si spoglia di ogni “individualità”, diviene capitale sociale. Ma più importante ancora è il fatto che le “forze produttive” divengono immediatamente “sociali”. Il macchinismo, la tecnologia (“determinata”, “situata” che si rinnova appunto nella sussunzione reale) lungi dall’essere solo “neutri” prodotti della “scienza”, sono al contrario “forze produttive” che, invadendo la realtà, assumono in sè non più solo i lavoratori ma le popolazioni. Il macchinismo imbraga la vita. Guardiamo che cosa sono le macchine. Fuori dal capitalismo realizzato, Hegel ci insegna, lo strumento di lavoro è un mezzo, un medio per agire sulla natura. Fra l’uomo e la natura si pone lo strumento, la macchina. Ma nel capitalismo il rapporto subisce uno scarto: il lavoro dell’operaio diviene mediazione fra la macchina (lo strumento) e la natura. La pervasività della tecnologia al lavoro diviene totale. Lo strumento non è più valore d’uso per l’operaio ma l’operaio diviene valore d’uso per il capitale, per la “sua” (del capitale) macchina (capitale fisso). “…una volta assunto nel processo produttivo del capitale, il mezzo di lavoro percorre diverse metamorfosi, di cui l’ultima è la macchina o, piuttosto un sistema automatico di macchine, messo in moto da un automa, forza motrice che muove se stessa; questo automa è costituito da numerosi organi meccanici ed intellettuali di modo che gli operai stessi sono determinati solo come organi coscienti di esso” (Grundrisse, trad. Grillo, vol. II pag. 389; ed. tedesca pag. 583). E ancora: “nella macchina, e ancor più nel macchinario come sistema automatico, il mezzo di lavoro è trasformato, dal punto di vista del suo valore d’uso, cioè della sua esistenza materiale, in una esistenza adeguata al capitale fisso ed al capitale in generale, e la forma in cui esso è stato assunto come metto di lavoro immediato nel processi di produzione del capitale” (ivi). Ma se è così, quando questo sviluppo si compie, due totalità sociali si sovrappongono: il capitale (costante) che ha coperto l’intera realtà sociale ed il capitale (variabile) che di questa realtà sociale è la sorgente di valorizzazione. Queste pagine rappresentano allora una formidabile premessa ad una descrizione “biopolitica” della sussunzione reale del lavoro nel capitale. Esplicitando la premessa: non c’è più valore d’uso, non c’è più nemmeno natura – tutti i rapporti sociali (ovviamente quelli di produzione ma anche quelli di riproduzione e di circolazione) sono trasposti sul terreno dello sfruttamento – insomma, la vita è sussunta nel capitale.
Nello sviluppare la precedente narrazione dello sviluppo capitalistico dalla sussunzione formale a quella reale, abbiamo – oltre a qualche nostro lavoro antico (per esempio gli opuscoli raccolti ne’ I Libri del rogo, Derive e approdi, Roma, 2006 e Marx oltre Marx, Feltrinelli, Milano, 1979) – tenuto presente il fondamentale commento al Cap. VI Inedito di Claudio Napoleoni (Lezioni sul Cap. VI Inedito di Marx, Borighieri, Torino, 1972) e lo abbiamo fatto perché, fino a questo punto, il commento di Napoleoni alle pagine di Marx è a nostro parere del tutto corretto. Da quanto fin qui sviluppato, Napoleoni trae una prima e definitiva conseguenza, e cioè che in Marx la sottomissione del lavoro sociale al capitale include anche il macchinario, lo strumento di lavoro, sia come macchina, sia come corpi dei lavoratori; ne deduce logicamente che “una macchina non capitalisticamente usata dovrebbe essere diversa da quella usata capitalisticamente”, ed evidentemente che anche i corpi dei lavoratori che si compongono in un certo modo in una certa forma dello sviluppo capitalistico, dovranno altrimenti comporsi oltre il capitalismo; ed anche questa conclusione sembra corretta. Si da tuttavia che questa conclusione è vera solo finché si assumano linearmente le deduzioni marxiane dalla sussunzione reale. Quando invece esse siano assunte “dialetticamente” (e cioè sottoposte alle determinazioni storiche della lotta di classe) non sarà più possibile considerare la “reificazione” del valore nel macchinario o l’”alienazione” del lavoratore come mondi chiusi (in questa inversione consiste la rottura essenziale della lettura “operaista” de Il Capitale). Il capitale è invece sempre un rapporto di forza ed il macchinario stesso (sussunto dal capitale sociale) è esso stesso un rapporto. Questo rapporto non lo si può definire in maniera determinista. È lotta, conflitto, è un insieme storico – quindi aperto – di vittorie e di sconfitte: la politica abita qui e le trasformazioni, gli effetti della lotta, l’essere “dentro e/o oltre” (dei corpi dei lavoratori) alle strutture dello sfruttamento, e le misure di questo “dentro e/o oltre”, sono variabili, dinamiche, di volta in volta ontologicamente definite. “Le macchine corrono la dove c’è lotta”, riconosce infatti Marx; ed anche i valori: le macchine ritornano ad essere un “valore d’uso” operaio nella lotta – un valore d’uso che la sussunzione (socializzazione del lavoro, caratteristiche scientifiche della sua organizzazione) del lavoro sotto il capitale estende alla lotta sociale contro il capitale. Qui si definisce in maniera conclusiva il rapporto antagonista che costituisce la realtà del capitale – togliendo al processo capitalistico che conduce alla sussunzione reale, alla “reificazione” dei rapporti sociali, ogni determinismo ed insieme ogni scarto idealista e/o apocalittico. La sussunzione della società nel capitale tendenzialmente raffigura piuttosto un terreno biopolitico per le lotte d’emancipazione.
NB. Quando diciamo tendenzialmente, non assumiamo un orizzonte determinista ma ci muoviamo nel quadro conflittuale delle lotte di classe. Su questo terreno, dopo aver registrato la “tendenza” ex post, dobbiamo verificare l’aprirsi di “dispositivi” ex ante. Qui tessuto (e/o potenza) biopolitico e macchine del biopotere significano, di conseguenza, rispettivamente, aperture ontologiche di “dispositivi” desideri, programmi, macchine istituzionali – biopolitici oppure accumulo ontologico di tendenze e strutture di potere sulla vita. Questo è il terreno nella lotta di classe nell’epoca attuale, in una condizione cioè di sussunzione reale della società nel capitale ormai completa. Su questi temi hanno lavorato soprattutto l’ultimo Michel Foucault e Judith Revel.

II.
Eccoci ad un altro punto essenziale del Cap. VI Inedito: lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Marx ne parla dalla pag. 73 alla pag. 92 (nell’ed. tedesca da pag. 480 fino a pag. 490): anche in questo caso noi leggeremo queste pagine per avanzare nella nostra comprensione del presente. Ora, alla domanda su cosa sia “lavoro produttivo”, Marx risponde qui: è il lavoro che produce plusvalore – è cioè attività valorizzante il capitale. “Poiché il fine immediato e lo specifico prodotto della produzione capitalista è il plusvalore, in essa è produttivo soltanto quel lavoro – e produttivo solo quell’erogatore di forza-lavoro – che produce direttamente plusvalore; quindi, soltanto il lavoro consumato direttamente nel processo di produzione per valorizzare il capitale” (pag. 73; ed. tedesca pag. 480). Questo punto di vista è pesantemente e polemicamente ribadito nelle stesse pagine: “solo l’angusto orizzonte mentale borghese, che nella produzione capitalistica vede la forma assoluta della produzione, la sua unica forma naturale, può confondere il problema di che cosa siano, dal punto di vista del capitale, lavoro produttivo e lavoratore produttivo con la questione di che cosa sia lavoro produttivo in generale, e quindi appagarsi della risposta tautologica che è produttivo ogni lavoro il quale in genere produca, cioè metta capo a un prodotto, a un valore d’uso qual si voglia, a un risultato in generale. È produttivo soltanto l’operaio il cui processo lavorativo equivale al processo di consumo produttivo della forza-lavoro – del depositario di questo lavoro – da parte del capitale o del capitalista” (pag. 74; ed. tedesca pag. 480).
Queste definizioni sembrano contradditorie con la nostra premessa (sviluppata al punto I.) ove si considerano coestensivi il lavoro produttivo e lavoro sociale sussunto nel capitale: in ciò consiste – a nostro parere – infatti la dimensione tendenzialmente biopolitica dello sfruttamento. “Sembrano”: noi non crediamo infatti di essere in contraddizione con Marx su questo terreno. È infatti evidente che noi teniamo fermo il punto di vista della critica del valore: in principio, non è per noi “produttivo” ogni lavoro che produca “utilità” – quando si intenda, come Say, Bastiat ed altri economisti, l’utilità come un servizio qualunque – in questo caso ogni attività sociale dovrebbe paradossalmente essere considerata come produttiva. Ma non è così! Tuttavia, anche a questo proposito dobbiamo subito sottolineare uno scarto nella verifica della teoria del valore-lavoro. Quando il capitalista infatti vuole valore, lo vuol nella forma del plusvalore – al punto che, come vedremo più tardi, in verità, non si da mai teoria del valore che non sia (dedotta dalla definizione) del plusvalore (cioè dalla resistenza, meglio, dalla lotta operaia contro il plusvalore). Rinviamo a Marx, alle Teorie sul plusvalore, per chiarire questa tematica. Ma, riprendendo il filo della nostra argomentazione, come reagiamo al fatto che con la sussunzione reale del lavoro e della società sotto il capitale, il processo lavorativo diviene, per intero, processo di valorizzazione? Quando Marx dice che “il capitale è produttivo” perché ha invaso e sottomesso la società ai processi di produzione di plusvalore, che cosa può più intendere per “lavoro produttivo” se non che tutta l’attività sociale lo è (contraddittoriamente rispetto alla precedente lettura del concetto di lavoro produttivo)? Vi è dunque problema, qui.
Togliamo subito di mezzo un equivoco. Qua e là, nelle sue opere, Marx si chiede se siano “produttivi” taluni lavori: preti, impiegati pubblici, soldati, magistrati, avvocati… e risponde che, piuttosto che produttivi, essi sono “sostanzialmente distruttivi”. (“Perché sanno come appropriarsi di una grandissima parte della ricchezza “materiale”, un po’ vendendo le loro merci “immateriali”, un po’ imponendole con la forza, a costoro non era affatto gradito di essere relegati, dal punto di vista economico, nella stessa classe dei buffoni e dei domestici, e di apparire, rispetto ai produttori veri e propri, come semplici consumatori, come parassiti. Ciò era una singolare profanazione proprio di quelle funzioni che erano state fino ad allora circondate da una aureola e avevano goduto di una venerazione superstiziosa. L’economia politica, nel suo periodo classico, esattamente come la stessa borghesia nel primo periodo del suo affermarsi, assume un atteggiamento severo e critico nei confronti della macchina statale etc. In seguito essa comprende e impara dall’esperienza, che la necessità della combinazione sociale ereditata dal passato di tutte queste classi, in parte completamente improduttive, deriva dalla sua propria organizzazione”.) (Marx, Teorie sul plusvalore, pag. 298). Inutile sottolineare l’intelligenza storica di queste annotazioni che, confermando i criteri della “lunga durata”, ridicolizza le “leggi eterne della tradizione” vantate dal Tocqueville “sicofante” del potere borghese! Resta il fatto che talune di quelle malfamate funzioni sono ritornate oggi ad essere produttive – per quante “immateriali” e “cognitive” – e a non essere più scambiate con rendita ma con salario. Noi continuiamo ad odiare e a considerare “parassitari” questi “apparati ideologici dello Stato” – non è questo tuttavia un elemento decisivo – la novità consiste piuttosto nel fatto che la sussunzione reale è andata ben più a fondo di quanto lo stesso Marx potesse immaginare e, dunque, che dobbiamo anche noi andare avanti nell’analisi – mantenendo il disprezzo per quei burocrati e quei servitori delle ideologie e dello Stato che, quand’anche resi produttivi, restano ciononostante la feccia della società.
Riaffrontiamo il problema: Marx non ci lascia disarmati. Ecco infatti come allarga egli stesso il concetto di “lavoro produttivo” dopo averlo, come abbiamo visto, talmente ristretto. “Poiché, con lo sviluppo della sottomissione reale del lavoro al capitale e quindi del modo di produzione specificatamente capitalistico, il vero funzionario del processo lavorativo totale non è il singolo lavoratore, ma una forza-lavoro sempre più socialmente combinata, e le diverse forze-lavoro cooperanti che formano la macchina produttiva totale partecipano in modo diverso al processo immediato di produzione delle merci o meglio, qui, dei prodotti – chi lavorando piuttosto con la mano e chi piuttosto con il cervello, chi come direttore, ingegnere, tecnico etc, chi come sorvegliante, chi come manovale o come semplice aiuto – , un numero crescente di funzioni della forza lavoro si raggruppa nel concetto immediato di lavoro produttivo, e un numero crescente di persone che lo eseguiscono nel concetto di lavoratori produttivi, direttamente sfruttati dal capitale e sottomessi al suo processo di produzione e valorizzazione. Se si considera quel lavoratore produttivo che è la fabbrica, la sua attività combinata si realizza materialmente e in modo diretto in un prodotto totale, che è nello stesso tempo una massa totale di merci – dove è del tutto indifferente che la funzione del singolo operaio, puro e semplice membro del lavoratore collettivo, sia più lontana o più vicina al lavoro manuale in senso proprio. Ma, d’altra parte, l’attività di questa forza-lavoro collettiva è il suo consumo produttivo immediato da parte del capitale, è autovalorizzazione del capitale, produzione immediata di plusvalore; quindi, come vedremo meglio in seguito, trasformazione immediata dello stesso in capitale” (Capitolo VI Inedito, pag. 74; ed. tedesca pag. 480). Inoltre: “con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, le condizioni oggettive del lavoro assumono una forma modificata a causa della dimensione in cui, e dell’economia con cui, vengono impiegate (a prescindere completamente dalla forma del macchinismo etc.): diventano più evolute come mezzi di produzione concentrati, rappresentanti ricchezza sociale, e, per dir tutto in uno, grazie all’ampiezza ed efficienza delle condizioni produttive del lavoro socialmente combinato”. (ivi, pag. 88; ed. tedesca pag. 489). Infine: “la scienza come prodotto intellettuale generale dell’evoluzione sociale appare essa stessa come direttamente incorporata al capitale (e la sua applicazione in quanto scienza al processo di produzione materiale appare come distinta dal sapere e dalle capacità del singolo operaio), e lo sviluppo generale della società, essendo sfruttato dal capitale – ed agendo come forza produttiva del capitale – di contro al lavoro, appare a sua volta come sviluppo del capitale, e ciò tanto più in quanto, per la grande maggioranza, gli si accompagna di pari passo uno svuotamento della capacità lavorativa”. (ivi, pag. 89; ed. tedesca pag. 489). E potremmo continuare ad inondare il nostro testo di riferimenti marxiani.
Ma ci interessa discutere il problema: che cosa significa che il processo lavorativo sociale si è, nella sussunzione reale, trasformato in processo sociale di valorizzazione, e viceversa? Che cosa significa che le forze produttive sociali sono state assorbite dal capitale e sono divenute forza produttiva del capitale? Significa due cose. La prima è che ci muoviamo sempre di più, quando consideriamo il carattere produttivo del lavoro, sulla stessa dimensione biopolitica sulla quale ci aveva condotto l’analisi del processo di sussunzione reale. Non sono forze “individuali” ma “sociali” quelle che operano produttivamente all’interno del processo lavorativo, all’interno “socialmente combinato” della macchina produttiva, meglio, “della fabbrica collettiva”.
Ma in più di questo (che già al punto I. avevamo cominciato a comprendere) qui, questa fabbrica collettiva, presupposto e risultato della produttività di operai conglomerati, è – seconda cosa – attraversata e riorganizzata dalla scienza, che è anch’essa incorporata al capitale ma che indica tuttavia uno sviluppo sempre più “astratto” delle potenze del lavoro. Circa dieci anni prima, nei Grundrisse tra il 1857 e il 1858, Marx aveva in maniera ancora più efficace (e con modi quasi idealisti) interpretato questo passaggio scientifico nello sviluppo del capitale, ponendo il General Intellect come indice finale del processo di sussunzione reale della società nel capitale e facendone balenare la potenza come erede rivoluzionario del proletariato. (Si trattava dunque di una Aufhebung che si basava sull’affermazione dell’assorbimento della vita nel capitale e quindi sulla negazione/inversione di quella subordinazione – Aufhebung dunque come soluzione della crisi del processo di socializzazione macchinica e sua trasformazione in egemonia del capitale cognitivo – così si congiungono, in maniera innovativa, processo lavorativo e processo di valorizzazione). Per concludere: la seconda considerazione che, lavorando sul Capitolo VI Inedito, può aiutarci ad avanzare nella formidabile “preveggente analisi” marxiana del presente, è dunque questo innesto della scienza e del lavoro cognitivo sul tetto dell’edificio capitalista costruito dalla sussunzione reale della società. Oggi si direbbe: dalla “messa a lavoro” dell’intera società nello sfruttamento della cooperazione lavorativa e della valorizzazione cognitiva alla determinazione di un nuovo soggetto rivoluzionario.
NB. Quando parliamo di “lavoro produttivo” nella sussunzione reale, noi parliamo, in consonanza con lo sviluppo immaginato da Marx, di un lavoro compiuto da corpi operai/lavoratori/del braccio e della mente/ cooperanti socialmente e dobbiamo insistere sulla trasformazione (“mostruosa” e felice) che questi corpi portano sul nuovo terreno bipolitico della lotta di classe. Naturalmente qui soprattutto vige l’antagonismo “biopotere-biopolitica”; quindi bando ad ogni illusione continuistica, determinista, eurodemonica! Questi corpi sono “mostruosi” – ma in effetti è “mostruoso” il desiderio del comune nella libertà e nell’uguaglianza. (Su questa tematica dei corpi “mostruosi” hanno lavorato Félix Guattari, Christian Marazzi, Matteo Pasquinelli).

III.
Ma se le cose stanno così, se il tessuto capitalistico – tendenzialmente biopolitico e cognitivo nella considerazione marxiana, effettivamente tale nell’attualità – se dunque nel tessuto capitalistico è completamente identificato e socialmente esaltato il processo lavorativo dentro quello della valorizzazione, dove sta più lo sfruttamento? Meglio, dove sono più quelli che sfruttano, e chi è più lo sfruttato?
È fuori dubbio che nel Capitolo VI Inedito, Marx, per alcuni versi, lascia questa questione senza risposta. Il lavoro oggettivato, attraverso il processo storico della sussunzione reale, si estende tanto ampiamente ed assume una autonomia così forte che l’insorgenza della soggettività, del lavoro vivo, risulta sempre più difficilmente riconoscibile. Il lavoro morto diventa corpo sociale, continente/contenente organico sempre più enorme del lavoro vivo. Sembra quasi – a leggere talune pagine del Capitolo VI Inedito – che il mondo capitalistico, una volta conquistata la “combinazione sociale” delle forze produttive, riesca a bloccare lo sviluppo storico della lotta di classe. Ma questa condizione è solo “apparente”. (Bisogna naturalmente far bene attenzione allo specifico valore “dialettico” delle parole in Marx. “Apparente” non significa umbratile, superficiale o inconsistente; significa la concretezza materiale, ontologica per quanto mistificata, del potere capitalistico globale nello sfruttamento della forza-lavoro ed insieme la sua capacità di nascondere la potenza di questa ed i suoi effetti). Questa condizione è dunque apparente. Perché? A Marx, probabilmente, non verrebbe neppure in mente di porre la questione – l’intero presupposto dialettico del suo metodo riduce a banalità l’eventuale questione. Non per noi. Perché, dunque? Perché il rapporto di sfruttamento è intrinseco, intransitivo, e non esteriore, non transitivo, al rapporto di lavoro ed alla produttività del capitale. Meglio detto: l’alienazione delle condizioni di lavoro, nella sussunzione reale della società del capitale, permane e si accresce quanto più lo sviluppo capitalistico avanza. Nei Grundrisse (vol. II pag. 575) Marx annota: “il fatto che con lo sviluppo delle capacità produttive del lavoro, le condizioni oggettive del lavoro aumentino rispetto al lavoro vivo…., questo fatto assume dal punto di vista del capitale il seguente aspetto: che non è uno dei momenti dell’attività sociale – ossia il lavoro oggettivato – che diventa corpo sempre più potente dell’altro momento, del lavoro vivo, bensì sono le condizioni oggettive del lavoro che assumono rispetto al lavoro vivo un’autonomia sempre più colossale che si manifesta attraverso la loro stessa estensione”. Bene, questa alienazione colossale produce un processo storico attraverso il quale il lavoro (alienato, oggettivato) sempre più “socializzato “ ritrova la propria autonomia (ora socializzata appunto rispetto alla sua primitiva individualizzazione) a fronte del capitale. Siamo dinanzi ad una “inversione” del concetto di “forza produttiva sociale” del capitale che si manifesta storicamente nella socializzazione del lavoro vivo: un’”inversione” soggettiva che sopprime l’alienazione, la reificazione del lavoro vivo (non è qui luogo di distinguere questi concetti quanto di assumerli uniti nella loro capacità descrittiva ed evocativa) nel lavoro morto. Ed attribuisce al lavoro vivo una potenza di socializzazione, strappata ormai al lavoro morto. Attraverso questa inversione viene attribuito all’attività degli individui un carattere immediatamente sociale e produttivo.
È convincente questo marxiano rovesciamento degli effetti della sussunzione sociale, fino a determinare il recupero dell’autonomia del lavoro vivo in quanto lavoro socializzato, in quanto cioè figura di una potenza comune di un lavoro fin qui sfruttato e oppresso? A noi non sembra; a noi sembra piuttosto che qui il fatto di non considerare Hegel un “cane morto” tiri a Marx un brutto scherzo: quello di sovrapporre un’intuizione ad un ragionamento, meglio, un cattivo ragionamento fondato sulla rivendicazione (indignata) della dignità del lavoro ad un buon ragionamento, altre volte fatto (e con quale forza!) – il riconoscimento fondativo della potenza antagonista che si solleva (immediatamente) dall’esperienza dello sfruttamento sociale del lavoro contro l’astrazione crudele bastarda del plusvalore. Ancora: qui sembra (quando si tenga presente l’inversione del rapporto “alienazione/socializzazione”) che si tratti del passaggio dal dentro (la sussunzione reale, l’alienazione produttiva) ad un fuori (un’integra socializzazione del lavoro vivo e la pienezza della sua autonomia). Ma non è così: il capitalismo si combatte dentro e contro, esso non concede “fuori”, e ciò perché l’avversario del lavoro vivo non è semplicemente la figura astratta dello sfruttamento ritagliata dentro la continuità dei circuiti del processo lavorativo ma la figura concreta del capitalista che succhia pluslavoro. “Crescita del capitale e crescita del proletariato appaiono quindi legate l’una all’altra, anche se prodotti ai poli opposti di uno stesso processo”. (Capitolo VI Inedito, pag. 97; ed. tedesca pag. 493). Al punto in cui è arrivata la critica marxiana, non è il processo lavorativo che include il processo di valorizzazione ma piuttosto quello di valorizzazione che configura e disciplina quello lavorativo; ed il valore-lavoro stesso è colto prima di tutto dall’esperienza dello sfruttamento, nella figura del plusvalore. Marx sottolinea la fondamentale preminenza del plusvalore nella sua opera: “il meglio del mio libro – scrive dopo la pubblicazione del Libro I del Capitale – è 1) (su ciò riposa tutta la comprensione dei facts) il doppio carattere del lavoro subito messo in rilievo nel primo capitolo, a seconda che esso si esprima in valore d’uso o in valore di scambio; 2) la trattazione del plusvalore indipendentemente dalle sue forme particolari, quali profitto, l’interesse, la rendita fondiaria, etc.”. (Marx-Engels, Carteggio, pag. 52). Solo ora si potrà concludere: “così svanisce anche l’apparenza che il rapporto possedeva in superficie, l’apparenza cioè che nella circolazione, sul mercato, si fronteggino proprietari di merci dotati di eguali diritti e distinti l’uno dall’altro – come ogni proprietario di merci – soltanto a causa del contenuto materiale della loro merce, del particolare valore d’uso delle merci che hanno rispettivamente da vendersi. Ovvero, questa forma originaria del rapporto non sussiste più che come apparenza del rapporto capitalistico che sta alla sua base”. (Capitolo VI Inedito, pag. 97; ed. tedesca pag. 493). Commenta Isaak Rubin (Saggi sulla teoria del valore di Marx, Feltrinelli, 1976, pag. 52): “la formulazione consueta abbreviata di questa teoria è che il valore della marce dipende dalla quantità di lavoro sociale necessario per la sua produzione. Ossia, in forma ancor più generale, il lavoro si cela o è contenuto nel valore, il valore è uguale a lavoro “materializzato”. Ma è più appropriato formulare inversamente il problema: …la teoria del valore-lavoro non si basa sull’analisi dello scambio nella sua forma materiale, ma dei rapporti sociali di produzione che in esso si esprimono.” Dunque, è solo il contro che spiega il dentro. È l’esistenza antitetica delle condizioni capitaliste dello sfruttamento rispetto al lavoro vivo che ci permette di identificare chi è che sfrutta e chi è sfruttato.
Si aggiunga una ulteriore considerazione. Abbiamo visto al punto I., a proposito della concezione del “macchinismo” sviluppata nel Capitolo VI Inedito, come la dialettica hegeliana dello strumento sia stata qui modificata: lo strumento non è più mediazione fra il lavoratore e la natura, bensì è il lavoratore lo strumento fra il capitalista e la ricchezza (abbondanza di merci e profitto). Ora, in secondo luogo, avvertiamo che lo strumento, socializzandosi, si è profondamente trasformato, meglio, ha di nuovo assunto una sua autonomia, è riapparso in primo piano. “Si vede qui come, sulla base del modo di produzione capitalistico, le categorie economiche comuni, anche ad epoche di produzione antecedenti, assumano un carattere storico specificatamente diverso”. (ivi, pag. 104; ed. tedesca pag. 442). Queste annotazioni marxiane ci sono utili per concludere questo breve excursus sui caratteri “preveggenti” della critica marxiana delle categorie economiche del capitalismo, così com’è condotta nel Capitolo VI Inedito. Questa preveggenza non è sostenuta da illusioni deterministe ma aperta come dispositivo alle forze antagoniste che nella lotta di classe costruiscono storicamente il processo di emancipazione. Dunque, se nella sussunzione reale il lavoro produttivo diviene forza produttiva del capitale, e se, così compiendosi il processo e determinandosi la sua inversione, il lavoratore collettivo, formato dalla combinazione sociale dei fattori produttivi, riconosce la sua stessa natura trasformata in attore “comune” della produzione – se dunque tutto questo avviene, potremo concludere che nella figura “biopolitica” della sussunzione e nella determinazione “cognitiva” della produzione si riconosce al proletariato (strumento collettivo della produzione) un nuovo protagonismo, cioè la presa in conto di una “potenza comune”, e si identifica quindi un dispositivo “comune” radicalmente ordinato ad una egemonica pretesa di liberazione dal dominio del capitale. È lo strumento stesso della produzione che è divenuto potenzialmente capace di liberarsi dallo sfruttamento e dal comando e di riconoscersi egemone nel produrre la ricchezza del comune.
NB. La lotta di classe, condotta nella sussunzione reale della società nel biopotere, sembra dover assumere una tonalità particolare. È infatti l’”esistenza antitetica” del corpo indebitato, mediatizzato, securizzato, rappresentato che si indigna, si ribella, si organizza, lotta. Deve farlo dentro questo mondo reificato dal biopotere, dal “pensiero unico”, sempre dentro nuove configurazioni dell’alienazione (di qui l’urgenza inesorabile della “conricerca” conoscitiva e sovversiva per dare inizio a qualsiasi progetto di emancipazione) e contro. Mentre il “dentro” lo abbiamo ben identificato, il “contro” è il terreno della prassi, affidata ormai all’immaginazione costituente ed alle pratiche militanti. Si può imparare moltissimo, a questo proposito, da Franz Fanon e in genere dalle prime generazioni dei militanti e degli studiosi del “post-coloniale”. Il problema è però oggi quello di organizzare la moltitudine – cioè di impegnare nella istituzione di una “politica del comune” le reti biopolitiche (cioè informatiche ed intelligenti, cooperanti e produttive, critiche dell’economia politica e comunarde, partecipanti ed esperte democraticamente, etc) delle singolarità.

IV.
Queste ultime considerazioni ci permettono di riprendere, senza il pericolo di derive interpretative di stampo idealistico, il brano sul General Intellect dei Grundrisse al quale già avevamo accennato e di rileggerne collocazione e sviluppo nel pensiero marxiano. Avevamo detto che nei Grundrisse sette e otto anni prima di redigere il Capitolo VI Inedito, Marx aveva avanzato tesi che solo nell’opera successiva, all’interno dunque della redazione del Libro I de Il Capitale, si dimostrano nella loro piena e materiale consistenza. Già nei Grundrisse, per Marx il problema era quello di trovare il punto di appoggio per rovesciare gli effetti di “alienazione” e “reificazione” (non per abbandonarli – come per esempio voleva Althusser – che li definisce come prodotti di una umanistica adolescenza marxiana – ma per darne giustificazione critica e materialista). Sono concetti, quelli, che già prima del ’58, negli scritti giovanili, rappresentavano – in maniera idealista – una realtà perversa, effetto dello sfruttamento capitalista, della quale si denunciava il potere repressivo e nella quale si presentava, d’altra parte, l’occasione del passaggio dialettico, della negazione, verso un superamento ideale. Ora, la rinnovata critica dell’economia politica permette di materializzare questo passaggio: passaggio storico, non dialettico; non necessario ma effettualmente dato: un passaggio attraverso l’inferno dell’accumulazione primitiva, della sussunzione formale e reale. “Nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta – questa loro powerfull effectiveness – non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione… in questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso né il tempo che egli lavora ma l’appropriazione della sua attività generale, la sua comprensione della natura ed il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale – in una parola è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande filone di sostegno della produzione e della ricchezza” (K. Marx, Grundrisse, vol. II, pagg. 400 – 401, ed. tedesca pagg. 592 – 593). Utopia? Illusione? Forse. Comunque un dislocamento in avanti dell’intera “critica preveggente”. Ne usciremo trasformati? Ne usciremo rivoluzionati? Nel ’58 il General Intellect è un concetto-forza che permette di cogliere, dentro l’intuizione della sussunzione reale e dell’aggregazione/combinazione sociale delle forze produttive, le maggiori determinazioni delle trasformazioni oggettive imposte dalla rivoluzione capitalista: carattere intellettuale del lavoro nella condizione sussunta della società nel capitale. Ma qui non c’è ancora la soggettività rivoluzionaria comunista. Perché essa insorga ci vogliono resistenza, ricomposizione sociale, desiderio, lotte, dispositivi pratici anticapitalisti. Si tratta in ogni caso di stabilire un rapporto fra “composizione tecnica” e “composizione politica” del proletariato. Ciò detto, è solo il primo maturo passaggio teorico nel materialismo (che avviene appunto nel decennio 1858-1867) a produrre virtualmente una soggettività rivoluzionaria e comunista. Finché tutto questo non c’è, l’analisi resta ipotetica, si chiude nella fragilità dell’assunto, nella retorica della dichiarazione e nell’impotenza dell’azione. È nel Capitolo VI Inedito che, appunto, non solo la trasformazione teorica ma quella rivoluzionaria comincia ad emergere. Non siamo più solo dentro la sussunzione produttiva della società nel capitale ma cominciamo ad esserne oltre. La trasformazione può essere – è virtualmente – rivoluzionaria. Dopo esser stato costruito “dentro”, lo strumento, il soggetto, l’ontologia comune del produrre (una nuova realtà del “lavoro produttivo”) emergono “contro” il comando capitalistico. Il plusvalore non è più solo una macchina che produce l’accumulazione del potere capitalistico di sfruttamento della società ma è anche l’occasione attraverso la quale il proletariato innalza la sua rivolta. Di lì a poco la Comune di Parigi mostrerà a Marx una prima storica determinazione di questo divenire – ma soprattutto la prima soggettivazione.
Oggi, avendo subito un secolare orribile sfruttamento (fatto di miserie e di fatica e poi di, come se non bastasse, di mistificazioni ideologiche e di barbarie religiosa) sappiamo finalmente dare nome sia al plusvalore sociale (= capitale finanziario) sia al General Intellect (= proletariato cognitivo). Quest’ultimo – nella preveggente immaginazione marxiana – è una potenza che, distruggendo l’alienazione e la reificazione in nome del “comune”, propone un nuovo protagonismo rivoluzionario.

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