Riprendiamo qui la recensione doppia di Benedetto Vecchi ad Assembly e a The politics of operations, materiale preparatorio all’incontro “Time to Organise!”, e la recensione a Chtulucene


Le parole d’ordine dell’organizzazione. Nite su “Assemblea” e “The Politics of Operations” – 12 marzo 2019

Di BENEDETTO VECCHI

Una prassi teorica e politica interna ai movimenti sociali che nel conflitto contro la società del capitale già affermano relazioni sociali, politiche e attività produttive propedeutiche non a un generico altro mondo possibile, ma a forme di vita che prendono congedo da quel regno della necessità che impedisce il manifestarsi di un regno della libertà fondato su quanto di comune attiene alla specie umana, ma soprattutto di quanto di comune uomini e donne condividono e producono nella loro vita associata: la condivisione, dunque, come frame di una pratica del comune nonché metodo immanente alla produzione teorica. È questa una delle preziose caratteristiche che emerge da due volumi da poco pubblicati.

Il primo è Assemblea (Ponte alla Grazie)quarto appuntamento di un percorso di ricerca avviato da Michael Hardt e Toni Negri con Impero e proseguito con Moltitudine e Commonwealth. L’assemblea dei due autori è quella che i movimenti di resistenza indicono ogni volta che manifestano la loro irriducibilità al governo delle vite da parte del capitalismo e all’interno della quale l’attenzione è concentrata su un “che fare?” che abbia risposte propedeutiche alla continuità della prassi politica di quegli stessi movimenti riuniti in assemblea.
Un saggio dunque sulla necessità di sviluppare una organizzazione politica adeguata a una cooperazione sociale scandita dalla eterogeneità delle soggettività produttive, politiche e culturali che l’alimentano. Pensare l’organizzazione, affermano gli autori, vuol dire immaginare una forma politica dove la differenza sessuale non sia cancellata da sintesi patriarcali definite a priori; dove il caleidoscopio del colore della pelle non sia sottoposto a gerarchie e stigmi di un suprematismo identitario bianco e soprattutto che faccia tesoro della moltiplicazione delle figure del lavoro vivo.
Forte è, in questo volume, l’eco delle acampadas spagnole, di Occupy Wall Street, delle primavere arabe, dei movimenti latinoamericani, ma anche delle esperienze ancora in divenire dei precari ribelli nel capitalismo delle piattaformeMovimenti sociali del recente passato o di questo opaco presente che hanno, tutti, l’organizzazione come un irrisolto della loro azione.

Complementare a questo è il saggio di Sandro Mezzadra e Brett Neilson Politics of Operations (Duke University Press: l’edizione italiana è in preparazione per Manifestolibri), seconda tappa di una analisi sul capitalismo globale iniziata con Confini e frontiere (Il Mulino). La premessa del volume sta nell’invito a spogliarsi di inutili fardelli del passato nel tornare a pensare la trasformazione. Solo così si può rimanere fedeli alla tradizione teorica – l’operaismo – alla radice di questo libro. Dell’operaismo va però salvaguardato il metodo: si può fare teoria solo partendo dai conflitti del lavoro vivo; si può fare teoria politica solo stando dentro e contro il potere costituito. Il saggio inizia là dove si era concluso il primo, la moltiplicazione del lavoro vivo. La quale non è un demone da esorcizzare, ma una acquisizione teorica fondamentale per la critica dell’economia politica. Non c’è infatti una figura lavorativa centrale nel processo produttivo come invece è accaduto durante il fordismo e l’organizzazione scientifica del lavoro. Centrali non sono inoltre i migranti, talvolta qualificati dai nostalgici del “quarto stato” come nuovo proletariato o come esercito industriale di riserva usato contro il vero proletariato. Centrali non sono neppure i professionals o i lavoratori della conoscenza del capitalismo delle piattaforme; non svolgono alcuna funzione politica trainante neppure i lavoratori della logistica o i cosiddetti lavoratori cognitivi. Figure che le imprese e gli stati nazionali perimetrano in veri e propri bacini del lavoro vivo attraverso dispositivi giuridici come possono essere le legislazioni del lavoro, norme sulla proprietà intellettuale o sulla circolazione della conoscenza scientifica prodotto da laboratori di ricerca pubblici o privati.  C’è però un fattore che accomuna le molteplici figure del lavoro vivo: tutte esprimono una cooperazione sociale capace di sviluppare circoli virtuosi di innovazione sia del prodotto che del processo lavorativo.

In Assemblea le capacità di innovazione e di “autogestione” del processo produttivo da parte della moltitudine sono interpretate come espressione della acquisita natura imprenditoriale della moltitudine sia dal punto di vista economico che politico, rendendo parassitarie le figure dell’imprenditore e del politico di professione.
L’imprenditorialità economica e politica della moltitudine è un processo, scrivono Negri e Hardt, già in atto e si manifesta nella gestione del processo produttivo. Compito di una organizzazione politica della  moltitudine – viene frequentemente evocato il Principe di Machiavelli – è usare questa capacità imprenditoriale nella definizione di istituzioni alternative a quelle dominanti, spezzando così il monopolio della decisione politica.
La dimensione imprenditoriale del lavoro vivo è una tendenza non esclusa da Mezzadra e Neilson. Tuttavia, in The Politics of Operations grande spazio è dedicato ai mutamenti intervenuti nella “forma Stato” per rimuovere i colli di bottiglia dello sviluppo economico contraddistinto ormai da una crisi permanente. Allo stesso tempo viene data molta attenzione all’emergere di una governance locale e globale per esercitare il controllo proprio sulla cooperazione produttiva, “appropriandosi” così delle innovazioni che produce.

La centralità del lavoro vivo si manifesta inoltre nel fatto che, oltre alle richieste di salario e reddito, i movimenti esprimono un insieme di tematiche che il movimento operaio e la filosofia politica novecenteschi hanno frequentemente liquidato come collaterali o “sovrastrutturali”: la differenza sessuale come valore, la libertà di movimento, il diritto all’abitare, alla città, alla salute, alla privacy. Diritti qualificati come civili ma che invece svolgono una funzione fondamentale nei processi di autovalorizzazione del lavoro vivo, segnando il venir meno tra Politico ed Economico.
Per Hardt e Negri questa evaporazione della distinzione tra Politico ed Economico costringe ad individuare i punti critici del legame conflittuale tra potere costituente potere costituito. Ma questo significa anche, secondo Mezzadra e Nielson, dare forma a un contropotere che abbia la capacità di misurarsi con i mutamenti in atto nel capitale globale alla luce della crisi anch’essa globale, seppur a geometria variabile nelle sue manifestazioni, nonché al ruolo sempre più centrale della finanza nel regime di accumulazione.

Sono quasi passati vent’anni dall’irruzione nella scena pubblica del primo movimento globale. La sovranità imperiale allora in formazione è ormai una caratteristica dell’ordine mondiale. Ha visto l’entrata in campo di altri attori – la Cina, ovviamente, ma anche il ritorno sulla scena della Russia, nonché l’ascesa di altri stati nazionali (l’India, il Sudafrica, il Brasile) –, e la crisi dell’Unione europea, nonché la fine del cosiddetto rinascimento latinoamericano.  Nel frattempo, la Rete è diventata, oltre che un conclamato mezzo di produzione, una sorta di infrastruttura globale che  favorisce il flusso di conoscenza e di capitali. In un video che circola nel World Wide Web e che usa la tecnica del time lapse si assiste al lento declino in termini di fatturato di General Electric, General Motors e Ford e all’ascesa di Apple, Amazon, Google, Facebook, Alibaba, Baidu, prospettando una cartografia economica dove il capitale finanziario ha un ruolo egemonico indiscusso rispetto a quello industriale.
Anche l’avvicendamento dei movimenti restituisce una geografia mondiale non segnata dallo stigma eurocentrico o occidentalista. Il movimento noglobal, gli Indignados, Occupy, le primavere arabe, i movimenti sociali latinoamericani, le frequenti rivolte metropolitane in Europa, i movimenti contadini asiatici hanno definito la mappa in divenire del capitalismo globale molto più di quanto si possa ammettere. Quegli stessi movimenti hanno fatto la loro comparsa sulla scena pubblica (locale o mondiale, poco importa) come fossero sciami, manifestando una momentanea efficacia nel riappropriarsi dello spazio pubblico, riuscendo talvolta a esercitare una egemonia nell’opinione pubblica per poi però dissolversi repentinamente come repentinamente si erano presentati sulla scena pubblica.

La forma sciame e la complementare “ontologia plurale dei movimenti” non sono  però da ritenere un limite bensì il campo dove produrre appunto organizzazione politica. A sorpresa, Hardt e Negri evocano le analisi sul Politico di Lenin, cioè del teorico per eccellenza dell’organizzazione. Nella prospettiva di Lenin, è  il partito la forma organizzativa migliore per la presa del potere. C’è un filo di Arianna che dalla classe arriva al partito inanellando le istituzioni che la classe riesce a sviluppare, dal sindacato al mutuo soccorso alle altre forme di aggregazione sociale e culturale che riesce a sviluppare.
I due autori sono però consapevoli che nell’”ontologia plurale dei movimenti” non c’è spazio per un partito che pretenda di relegare ai margini ogni eccedenza o alterità. E il punto non è certo immaginare un partito che agisca come il luogo dove elaborare una sintesi della classe o della moltitudine. Ma, sottolineano Hardt e Negri, era stato lo stesso Lenin a pensare i Soviet come le  istituzioni che si ponevano oltre la separazione tra economico e politico: modelli istituzionali, cioè, che hanno proprio quella caratteristica congrua alla “ontologia plurale” dei movimenti. Tuttavia, quel che serve, aggiungono i due autori, è un ribaltamento nel rapporto tra movimenti e Stato, tra tattica e strategia. È nella cooperazione sociale che prende forma la strategia, mentre la tattica è delegata ai partiti, ai sindacati, al rapporto intrattenuto con le istituzioni dominanti.  Per effettuare questo ribaltamento è però necessario un doppio movimento.

Il primo passaggio consiste nella costituzione di istituzioni della moltitudine non segnate dal principio della rappresentanza preposte a quella, citando il titolo di un libro della filosofa femminista Judith Butler, Alleanza dei corpi fattore indispensabile per sviluppare appunto la strategia. Agire politico significa inoltre fare i conti con una contingenza che ha una temporalità diversa da quella della cooperazione sociale. Con empatica spregiudicatezza Hardt e Negri non lanciano strali verso possibili scelte riformiste o mediazioni e alleanze spericolate. Anzi, sono convinti della necessità che per modificare i rapporti di forza nella società può servire anche un “riformismo rivoluzionario” che non metta però in discussione l’autonomia e l’irriducibilità della cooperazione sociale al potere costituito.

È la semplicità difficile a farsi. Un aiuto nel risolvere le difficoltà viene dalla riflessione sulle rotte di una resistenza globale definite in The Politics Of Operations . E se forte è la critica all’eurocentrismo e occidentalismo del pensiero critico, innovativa è la scelta di usare, invece del marxiano capitale totale, il concetto di  “capitale aggregato” (la traduzione è di chi scrive: l’espressione originale è aggregate capital) che comprende il divenire e il cangiante rapporto dalle diverse tipologie di capitale introdotte da Marx (da quello industriale a quello finanziario, da quello variabile a quello costante) alla luce dei meccanismi di sviluppo economico e di gestione di una crisi come già sottolineato permanente. Per questo la finanza, la logistica e la molteplicità di figure produttive attivate dal capitale svolgano una funzione inedita rispetto alla successione temporale tra produzione, distribuzione e consumo: la moltiplicazione del lavoro vivo, la finanza e la logistica ognuna a suo modo sono fattori fondamentali per garantire lo sviluppo economico. Altro elemento importante è la discussione attorno ai concetti di capitale e di capitalismo. Sono due termini spesso usati come sinonimi, ma in The Politics of Operations viene sostenuto, in maniera convincente, che mentre capitale allude a rapporti sociali di produzione, capitalismo indica le forme che essi possono assumere. Non è una questione di lana caprina quella che i due autori cercano di dipanare, ma la segnalazione che i rapporti sociali di produzioni possono essere “tradotti” in forme plurali. Chi vuol cercare di capire lo stato dell’arte del capitale deve prendere atto di questa molteplicità di forme economiche, così come deve prendere atto della molteplicità delle figure produttive del lavoro vivo.

Il volume di Mezzadra e Neilson potrebbe tranquillante essere letto come una ricognizione critica e innovativa dell’opera marxiana e della sua ricezione. Forti sono infatti i riferimenti ai concetti sviluppati nei Grundrisse e nel Capitale. E significativo è l’attraversamento delle analisi di Rosa Luxemburg e Lenin sull’imperialismo, nonché di quelle di Rudolf Hilferding sul capitale finanziario. Ma il volume è molto di più che un attraversamento dell’opera marxiana e delle sua differenziata ricezione operata da  questo o quel marxista di “razza”. La messa al centro del concetto di “capitale aggregato” serve per comprendere e definire il regime di accumulazione. Per questo il capitale aggregato è però disaggregato da Mezzadra e Nielson a partire dalla moltiplicazione del  lavoro vivo, dalla importanza assunta dalla logistica – il libro si apre parlando di come gli aeroporti sono ricondotti a una precisa gerarchia per garantire un “ordinato” flusso non solo di uomini e donne, ma anche di merci. Così come tutto il “sistema dei trasporti” è continuamente sottoposto a trasformazioni per garantire anche qui il movimento delle merci in tempi veloci. Nella logistica il just in time ha infatti il sapore amaro dello sfruttamento del lavoro vivo.

La finanza, infine, è il mezzo sia per gestire la riduzione dei profitti producendo denaro a mezzo denaro, ma anche per attivare quei meccanismi che consentono una riproduzione allargata del capitale attraverso la creazione di nuovi mercati. In una situazione dove il capitale ha come orizzonte il pianeta intero sorge tuttavia un problema e qui un uso creativo delle analisi di Rosa Luxemburg favorisce la messa a fuoco di alcune caratteristiche del “capitale estrattivo”, tema del quale i due autori sono stati attenti interpreti.
Per Rosa Luxemburg, il capitale affronta le sue crisi colonizzando il suo fuori. Il tema delle enclosures può infatti essere interpretato come un atto propedeutico alla colonizzazione del fuori. A secoli di distanza quel fuori non esiste più, se si rimane fermi alle terra e alle materie prime tangibili. Mezzadra e Neilson invitano a continuare a guardare con attenzione ai fenomeni di land grabbing  e alla appropriazione di materie prime fondamentali per la produzione dei dispositivi digitali – dal computer agli smartphone all’elettronica di consumo – come elementi perduranti nel “capitalismo estrattivo”, ma il fuori da conquistare attiene alla mappatura del genoma umana, alla biodiversità, alla  salute, alla conoscenza sans phrase, ai Big Data assemblati  dalle piattaforme digitali. Anche qui c’è estrazione di valore e di messa a profitto dei commons e dell’immateriale.
È per garantire il flusso ordinato di merci, conoscenza e per consentire l’estrazione di valore dalla salute, dalla formazione, dalla produzione di sapere – attraverso meccanismi misti tra pubblico e privato ma comunque propedeutici a quel processo di finanziarizzazione del welfare state – che lo Stato nazione deve cambiare pelle.

Lo Stato nazione non scompare, né è completamente sussunto all’interno di una dimensione sovranazionale, ma deve legittimare e garantire sia lo “spossessamento” sia le condizione dell’estrazione di valore dai commons. Non è accaduto cioè quanto profetizzato dai cantori del neoliberismo. Lo Stato nazione è Stato del capitale perché dispositivo normativo e agente performativo della grande trasformazione delle società sotto le insegne dei principi dell’individuo proprietario.
L’espressione “Stato del capitale” non deve però essere interpretata come una versione deterministica del marxiano comitato di affari della borghesia. Più volte viene ribadito che lo Stato nazione mantiene una autonomia operativa e dunque decisionale rispetto alle compatibilità economiche definite dal capitale locale o da quello globale. Lo stato nazionale è semmai un nodo di una rete istituzionale ed economica che trascende gli interessi immediati del capitale. Svolge una funzione politica in senso pieno, all’interno ovviamente di una sfera politica che spesso non coincide con i confini nazionali. Lo Stato, dunque, non è algida amministrazione del presente, bensì istituzione che attiva misure per il governo della  vita associata, in una dinamica relazione con soggetti politici sovranazionali, organismi internazionali e le imprese globali e locali. Ad esempio è l’istituzione che definisce i criteri di inclusione ed esclusione sociale – su questo passaggio il volume dialoga criticamente con gli ultimi studi di Saskia Sassen sulla tendenza del capitale a espellere la popolazione in “eccesso”. Più che espulsione senza ulteriore qualificazione, scrivono Mezzadra e Nielson, c’è inclusione differenziata; e chi è “fuori” può diventare l’esterno da mettere a valore. Le parti del libro dedicate al ruolo del debito e alla valorizzazione capitalistica della povertà sono più che convincenti. Non esiste quindi un piano definito a tavolino in sedi separate. Il funzionamento della macchina statale è parte integrante di un processo in divenire, speculare a quello dell’attività produttiva o ai flussi di capitali nonché all’operato della finanza.

Assemblea The Politics of Operations sono due densi volumi, che costituiscono altrettante tappe di percorsi di ricerca dettati da una passione per il reale di militanti interni a quei movimenti che quel reale lo vogliono sovvertire. Costituiscono anche materiali per dissolvere la nebbia che avvolge questo presente. Sono molti gli elementi che andrebbero ripresi ed approfonditi, a partire da quel lavoro della riproduzione che porterebbe a ripensare sia la forma dell’organizzazione che il legame tra vita e lavoro. E da come il lavoro della riproduzione e della cura costringe sempre a riattraversare la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, tra lavoro eterodiretto e lavoro informale. E questo alla luce certo dello sciopero transnazionale delle donne, dell’esperienza globale di “Non una di meno” e della messa in crisi della governance neoliberista sul corpo delle donne. E degli uomini. Ma anche la successione marxiana tra sussunzione formale e reale che postula l’esistenza di un prima e di un dopo va ripensata indipendentemente della messa a tema della sussunzione reale della società. Per quanto riguarda i mutamenti del lavoro vivo si può infatti presentare tanto una nuova sussunzione formale quanto una sussunzione reale come momenti intercambiabili e giustapposti nel governo proprio di quel lavoro vivo in dinamica mutazione. Allo stesso tempo, il fuori che il capitale si propone di “colonizzare” conosce certo enclosures, ma anche violenta politica di espropriazione di consuetudini sociali, come testimoniano sia il caso della proprietà intellettuale che le rinnovate politiche di rapina delle materie prime, di quelle tangibili così come di quelle immateriali. Mutevoli sono quindi il processo produttivo e la divisione internazionale del lavoro. Un ordine di problemi che si addensa all’orizzonte di un reale che non coincide certo con l’immagine in auge tra molti marxisti del deserto. Ci sono certo delle assenze nei due volumi – la puntuale critica del populismo contemporaneo, i motivi dell’eclisse delle primavere arabe così come l’amara constatazione, senza cercarne di definire il perché, dell’esaurirsi del cosiddetto rinascimento latinoamericano – ma sono da colmare dentro le pratiche sociali e politiche dei movimenti. Assemblea e The Politics of Operations sono cioè da leggere e discutere come materiali di una critica dell’economia politica in divenire che si lega alla necessità di sviluppare una teoria dell’organizzazione senza i quali la potenza degli sciame-movimenti si ferma solo alla manifestazione della rivolta (il potere destituente).

È cosa nota che non c’è rivoluzione senza rivolta, ma non è automatico che la rivolta produca rivoluzione. Da questo punto di vista, andrebbero aperte una riflessione e una discussione sulla forma movimento per indagare la sua crisi. Fanno bene gli autori dei due volumi a fuggire da ogni nostalgia per la forma partito. L’organizzazione proposta, l’accento sull’ontologia plurale dei movimenti, la sottolineatura dell’eterogeneità del lavoro vivo sono elementi presentati nei volumi avendo come condivisibile premessa la critica e la necessità del superamento della forma partito e della forma sindacato, ma è altrettanto evidente che la sua crisi non avrebbe avuto effetti collaterali sulla forma movimento. Certo, il sindacalismo sociale può essere proposto come prima approssimazione di quel tessere coalizioni e alleanze  da parte dei movimenti, all’interno di un frame teorico-politico che assume come nuovo groviglio da dipanare il nesso tra precarietà e automatismo del comando sulla forza-lavoro consentita dagli algoritmi e dal software incardinato su metodiche dell’intelligenza artificiale.  Ma quel che va messo a fuoco, oltre all’organizzazione politica da sviluppare, è qual è l’organizzazione del sindacalismo sociale da mettere in campo, una volta stabilito che non esiste una figura lavorativa centrale, nei bacini del lavoro vivo. Un quadro analitico in via di definizione che non può che contemplare, va ribadito, una adeguata riflessione sul “lavoro di riproduzione”, facendo tesoro della pratica femminista nello sciopero globale delle donne. Correndo quindi il rischio di dovere mettere nuovamente tutto in discussione. Ma la centralità del tema dell’organizzazione, che richiede sempre un’intelligenza collettiva in azione, richiede sperimentazione come esempio qualificante di una prassi teorica e politica che può fare un passo avanti ma che non ha paura di doverne fare due indietro per meglio prendere la rincorsa in un rinnovato assalto al cielo.

Questo articolo è stato pubblicato su EuroNomade il 12 marzo 2019.


Di BENEDETTO VECCHI

Un pensiero irregolare, meglio tentacolare quello che propone Donna Haraway nel suo attraversamento critico della filosofia contemporanea alla ricerca e svelamento di quella «natura sociale» esito ultimo della storia umana che una pessima saggistica ha qualificato come era dell’antropocene.

IL PERCORSO della studiosa femminista è stato anche accidentato dopo che la sua teoria sul cyborg era stata rapidamente consegnata agli archivi perché consapevole che quell’ibrido tra macchina e organico non era scandito da relais, microprocessori, ma da manipolazioni genetiche, di dna ricombinato, di chimica iniettata in un vivente per modificarlo irreversibilmente, strappandolo alla sua presunta naturalità. Ne era nato un libro eccentrico, difficile da leggere e da incastonare in un puzzle teorico-filosofico. «L’oncotopo» di Donna Haraway, pubblicato meritoriamente da Feltrinelli (2000), aveva, ha il sapore acido del materiale grezzo, acerbo, che deve ancora maturare.
Poi della filosofa si erano perse le tracce, nonostante la sua propensione errante, più che nomade. Sempre alla ricerca di un adeguato posizionamento rispetto ai temi e agli argomenti affrontati, Donna Haraway è entrata in relazione con gruppi di ricerca scientifica, associazioni militanti ambientaliste, gruppi solidali e eco-femministi provando a stabilire nessi, associazioni mentali e cognitive al fine di sviluppare un punto di vista forte sul presente a partire dalla cancellazione e il venire meno di una dicotomia che pure molte attenzioni ha avuto da questa teorica eccentrica e irregolare, vale a dire la polarità tra natura e cultura.

NE ERA NATA una raccolta di saggi finalmente tradotta da Angela Balzano per DeriveApprodi con il titolo Le promesse dei mostri (pp. 176, euro 15), dove i mostri non hanno nulla di terrificante, bensì sono presentati come la possibilità di una liberazione da forme di sfruttamento e di colonizzazione mercantile del vivente. Il mostro è annuncio di libertà e non di pervertimento da parte della scienza di un’autenticità umana. La scienza, come la tecnologia, è al tempo stesso strumento di oppressione ma anche di possibile libertà, invenzione, creazione di altri mondi, rompendo le gabbie delle forme viventi codificate come normali. Argomenti che sono ora ripresi in Chthulucene (Nero edizioni), dove la filosofa accentua e radicalizza i temi di tutta la sua opera. Tra i due libri il legame è forte. Il primo è preparatorio e complementare del secondo, che lo riprende ma lo «tradisce», lasciando cadere argomenti come ormai superati dall’incedere del pensiero, come ad esempio il concetto di postumano, che Donna Haraway archivia come espressione di una teoria adolescenziale della contemporaneità capitalista.
Come ogni esplorazione di un nuovo mondo che si rispetti c’è comunque bisogno di un punto di partenza: l’irreversibilità della scienza nella vita associata. La scienza, il fare scienza non significa solo definire progetti, obiettivi e verificare i potesi, bensì è un modo di intendere e definire le relazioni e i rapporti sociali. La scienza, nel suo presentarsi come tecnostruttura è un fattore performativo dello stare in società. Questo è evidente proprio nella manipolazione genetica del vivente, che non solo lo modifica, ma ne definisce il rapporto con le altre specie viventi.

PUNTO DI PARTENZA, però, perché quel che emerge nella esplorazione, e nell’erranza intellettuale di Haraway, è che la scienza diviene una sorta di vera e propria seconda natura, o meglio prototipo e rappresentazione della «natura sociale», di quel cambiamento intervenuto dove la natura ha perso lo stigma iniziale di mondo a parte rispetto la cultura per divenire l’habitat modificato irreversibilmente dall’intervento umano. Ma su questo crinale, interviene la prima fiammata polemica.
Donna Haraway si scaglia contro la tematica dell’antropocene, contro le tesi di chi sostiene che l’intervento umano sulla natura è irreversibile, avendo provocato cambiamenti che hanno alterato gli equilibri biologico e ambientale. La filosofa non nega che questo sia accaduto: soltanto sostiene che è sempre stato così. L’umano cambia la natura da sempre e ogni cambiamento è irreversibile. L’antropocene conferma dunque ciò che è ovvio.

L’ALTRO SPUNTO CRITICO è riservato alla tematica del capitalocene, cioè al fatto che sia il capitale il soggetto iniziale e finale delle trasformazioni dell’ambiente. Anche qui, non viene negata l’azione performativa dei rapporti sociali capitalistici, ma ne è ridimensionata la portata. Il capitale non è un fattore irreversibile, una gabbia che impedisce alternative o che predefinisce tendenze e linee del suo sviluppo. C’è infatti sempre l’azione di resistenza e invenzione dell’umano nel poter immaginare altri mondi.
Da questo punto di vista, le pagine dedicate alla fantascienza speculativa (il futuro come possibile altrove), al pensiero speculativo, alla filosofia immaginifica sono mirabili nella loro eleganza politica. Non solo perché emergono dalle nebbie della metafisica i nomi di Ursula Le Guin, di Marx, di Isabelle Stengers in quanto coordinate per orientare la navigazione, ma anche per segnalare che il pensiero anche se errante può stabilire nessi, relazioni, associazioni che contribuiscono appunto ad afferrare la bestia del presente non per addomesticarlo, ma per indirizzarlo in una prospettiva appunto di liberazione.

In molti lamentano la difficoltà di lettura, di traduzione dei testi di Haraway. Su questo, c’è poco da dire, se non specificare che ogni lavoro di traduzione è un lavoro di contestualizzazione dei testi ma anche di definizione politica della posta in gioco. Quella che sta alla base del lavoro di Donna Haraway è il posizionarsi criticamente, assieme ad altri, rispetto al mondo dato. Non cercando impossibili sintesi, ma convergenze, punti di contatto, definizioni di ambiti di lavoro comune. Come il capitalismo è patchy, cioè irregolare, asimmetrico, che tende a una totalità ma che si alimenta di differenze, anche un punto di vista politicamente critico non può che nutrirsi di differenze, di irregolarità, di fila che si tessono senza avere la certezza che reggano le prove della messa in comune. La politica sta proprio in quell’operazione che Haraway chiama «del compostare».
Il compost nasce da scarti, direbbe l’accorto e altezzoso ingegnere. Prevede un lungo lavoro di macerazione. E il compostare prevede un lungo lavoro di invenzione, di condivisione, di messa in comune di sapere, esperienza, all’interno della produzione di un immaginario di libertà e di liberazione (la fantascienza speculativa di Le Guin, ma non solo).

C’È DUNQUE TEORIA, esperienza, produzione di immaginario nel compostare fattori indistinguibili ormai in un capitalismo e in una realtà che tende a essere presentata come una totalità anche se si nutre di differenze e differenziazioni. Il virtuosismo del compostare sta nel presentare come convergenti sia le esperienze (la relazionaità), il pensiero dell’altrove (immaginario) e la teoria. Sta in questo compost la forza dei mostri promessi e annunciati. E del Chtulucene, cioè di un aracnide forse inventato, forse storpiato nel lessico, forse solo evocato come un altro mondo non possibile, ma nato dentro il lento e incessante lavoro politico appunto del compostaggio.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto ed EuroNomade il 5 novembre 2019.

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