Di MARCO CODEBÒ      

In Capital et idéologie (Paris: Seuil, 2019) Thomas Piketty riprende l’analisi del capitalismo contemporaneo là dove l’aveva lasciata alla conclusione di Le Capital au XXI siècle (2013), quando constatava come le società del XXI secolo, sia nei paesi ricchi dell’OECD sia nel resto del pianeta, fossero caratterizzate da un’irrimediabile, crescente disuguaglianza di reddito e patrimonio. Questa volta, però, Piketty vuole spingersi più in là della lettura dei dati statistici. Il suo obiettivo è trovare una via d’uscita dalle lacerazioni create dalla disparità economica; lo fa nell’unico modo che considera possibile, attraverso una proposta di superamento del sistema che ha condotto alla presente situazione, il capitalismo. Superamento tuttavia non significa abbattimento, obiettivo che porterebbe all’atteggiamento millenaristico nel quale si sono consumate le energie di generazioni di militanti anarchici, socialisti e comunisti. Superare il capitalismo significa mantenerne in funzione l’istituzione per eccellenza, la proprietà privata, indirizzandola però non più all’arricchimento individuale ma alla crescita del bene di tutti. Si creerebbe così un sistema nuovo, in grado di sorpassare (dépasser) il capitalismo, di andare insomma più veloce, perché più efficiente nel creare ricchezza sociale.

La disparità sociale non l’ha, com’è ovvio, inventata il nostro tempo, anzi. Quello che però rende il presente diverso da altre epoche della storia è la maniera di giustificare la forbice della ricchezza, in altre parole la sua ideologia della disuguaglianza. Di ideologie, dei racconti con cui una società legittima le distanze di reddito e patrimonio, vuole appunto discutere Piketty. Lo fa partendo da un giudizio positivo sulle ideologie, che non sono menzogne fabbricate per nascondere la realtà ai subalterni, ma spiegazioni del mondo, narrazioni al cui interno le disuguaglianze trovano senso. Proprio perché storicamente le disuguaglianze non sono mai state semplicemente imposte, ma sempre giustificate, per chi voglia superare quelle del presente è utile tornare indietro nel tempo e studiare come le società del passato abbiano spiegato le loro. Così Capital et idéologie diventa per metà un libro di storia, o meglio un’indagine su come il racconto della disuguaglianza si è dipanato nel tempo in diverse aree del pianeta: l’Europa occidentale, l’India, l’estremo oriente asiatico, gli Stati Uniti, i Caraibi. Dall’analisi emergono tre modelli ideologici. Il primo è l’ordine tri-funzionale, che spiega le disuguaglianze fra le classi sulla base dei loro diversi ruoli all’interno della società. Nella classica sintesi, prodotta intorno al 1000, di Adalberone di Laon l’umanità si divide in Oratores, Bellatores, e Laboratores: il clero che dà senso alla società, la nobiltà che la protegge, i lavoratori che la mantengono. Così espresso, l’ordine tri-funzionale ha retto le società europee per oltre un millennio, fino ad essere messo da parte in maniera definitiva con la Rivoluzione francese. Piketty lo scopre al lavoro anche in Cina e Giappone. L’India invece ne adotta una variante più sofisticata, quadri-funzionale, che scompone in due gruppi distinti la classe dei lavoratori. Il secondo modello di disparità è quello delle società schiavistiche: qui la disuguaglianza diventa massima, fondata com’è sull’estensione del diritto alla proprietà fino al possesso dell’altrui persona. A Piketty non interessano le società schiavistiche dell’antichità, ma quelle costruite nell’età moderna dalle potenze coloniali europee nei Caraibi, nel sud degli Stati Uniti e in Brasile. Attenzione che si spiega col legame che queste società intrattengono, in quanto fornitrici di materie prime per l’industria, con quelle proprietarie che si stabiliscono in Europa a partire dalla fine del Settecento sullo slancio della Rivoluzione industriale e di quella francese. L’ideologia proprietaria, il terzo dei modelli ideologici di Piketty, sacralizza la proprietà così da considerarla un diritto assoluto e irrinunciabile. Soprattutto, la proprietà è il fondamento dell’edificio sociale: qualsiasi tentativo di discuterla mette a rischio l’ordine della società. Infatti, quando la schiavitù viene, in tempi diversi a seconda degli stati, abolita, a essere indennizzati non sono gli schiavi che l’hanno sofferta, ma i proprietari. Se al momento dell’abolizione della schiavitù questi vengono risarciti per la perdita del loro bene, allora il loro diritto a possederlo viene confermato – fatto che si spiega con la volontà di non aprire un varco a possibili messe in causa di altre manifestazioni del diritto proprietario. Nelle società proprietarie, sia in Europa sia, in misura minore, in America, l’ineguaglianza decolla lungo l’arco dell’Ottocento e raggiunge l’apice alla vigilia della Prima guerra mondiale. Da lì fino agli anni ottanta del ‘900 l’ineguaglianza declina: prima sono le spese di guerra ad obbligare gli stati ad adottare una fiscalità più severa nei confronti dei grandi patrimoni; poi è la Rivoluzione d’ottobre ad abolire la proprietà in un territorio immenso e soprattutto a minacciare di aggregare intorno alla sua causa i salariati dell’occidente; infine è la Grande Depressione degli anni trenta ad abbattere la fiducia nel capitalismo. Da questi cataclismi le società dell’Occidente escono incamminandosi sulla via socialdemocratica (Piketty vi comprende anche il New Deal rooseveltiano): fiscalità progressiva, stato sociale, protezione legale dei diritti sindacali, nazionalizzazione di alcuni servizi fondamentali. Ne deriva una significativa riduzione della disuguaglianza finché, attorno al 1980, la corrente si inverte ancora e si entra in una nuova fase di proprietarismo. È il nostro tempo, l’epoca del neo-proprietarismo meritocratico. La ricchezza nasce dal merito, dall’aver coraggio, talento ed etica del lavoro; la povertà dal non averne. La disuguaglianza che ne deriva è non solo inevitabile ma anche giusta.

La disuguaglianza estrema di questi anni, sostiene Piketty, ha un effetto deprimente sullo sviluppo: l’esagerata ricchezza di pochi fa sì che enormi risorse si trovino in una posizione improduttiva dove non possono essere investite in settori vitali come l’istruzione pubblica e la difesa dell’ambiente. Per uscire dal neo-proprietarismo occorre ispirarsi, con le necessarie correzioni, all’unica epoca della storia in cui si è affermata una relativa eguaglianza, la breve età della socialdemocrazia compresa fra la fine della Seconda Guerra Mondiale e i primi anni ottanta del ‘900. Lo strumento che ha permesso quella stagione di relativa uguaglianza è la leva fiscale; va ripreso ma, a differenza di quanto accadde nelle socialdemocrazie, calibrato sul piano internazionale. Per adeguare il fisco alle sfide del presente Piketty propone tre imposte progressive, rispettivamente sul reddito (fino all’80/90% del prelievo per la fascia cento volte superiore alla media nazionale), il patrimonio (fino al 90% del prelievo per le fortune pari a 10.000 volte il patrimonio medio) e le successioni. Un catasto internazionale pubblico delle proprietà, sia immobiliari sia finanziarie, fornirà alle amministrazioni dei singoli stati nazionali le informazioni indispensabili per accertare la ricchezza dei rispettivi contribuenti. Alle misure impositive, tese a impedire l’accumulo disordinato della proprietà, Piketty ne affianca una di natura del tutto diversa, diretta a tagliare il nesso fra proprietà e decisionalità, la cogestione delle imprese. Sulla linea di programmi già messi in pratica dalle socialdemocrazie nordeuropee si tratterrà di attribuire alla rappresentanza dei salariati il 50% dei voti nei consigli di amministrazione delle imprese lasciandone la restante metà all’azionariato.

Le risorse ricavate attraverso il prelievo fiscale finanziano lo stato sociale ed ecologico, il reddito universale di base (corrispondente al 60% del reddito medio) e la dotazione universale di capitale, pari, nei paesi ricchi, ad una somma di 120.000 euro da erogare ad ogni cittadino/a al compimento dei 25 anni. Piketty chiama l’insieme delle sue proposte “socialismo partecipativo”, un binomio che andrebbe letto come partecipazione sociale al capitalismo e che tiene ad essere del tutto diverso dai due progetti che hanno marcato il Novecento: quello comunista volto ad abbattere il sistema capitalista a partire dalla conquista dello stato e quello socialdemocratico teso ad anestetizzarlo con dosi massicce di nazionalizzazioni. Il socialismo partecipativo supera il capitalismo senza dover pagare i costi che ne comporterebbe la distruzione perché ne mantiene il nucleo vitale, la proprietà, cambiandone però la natura. La proprietà va difesa, sostiene Piketty, perché è indispensabile al manifestarsi dell’individualità. Traducendolo in linguaggio postmoderno, si potrebbe affermare che la proprietà è uno dei canali attraverso i quali la differenza riesce a esprimersi. In termini più comprensibili, quello a cui pensa Piketty è una moltitudine di proprietari. Per quanto sia un’istituzione vitale, la proprietà va imbrigliata con leggi di ferro per evitare che, in quanto accumulo illimitato di beni nelle mani dei pochi, finisca per escludere i molti dal suo godimento, privandosi così della possibilità di esercitare la sua funzione sociale. Il socialismo partecipativo cambia radicalmente la maniera di esercitare la proprietà, che da diritto permanente ed ereditario si trasforma in usufrutto vitalizio di beni in gran parte restituiti alla società a fine vita: tale è il risultato di una tassazione dei patrimoni fino al 90% nelle fasce più alte e di una forte imposta sulle successioni. Si potrà così mettere la proprietà in virtuosa circolazione, in modo da estenderne i benefici ai molti e giovare così al bene comune. Al tempo stesso le risorse prelevate attraverso la tassazione potranno essere destinate a investimenti in settori chiave per il progresso di tutti, con particolare attenzione alla trasmissione del sapere alle nuove generazioni. Nel medesimo senso va interpretata la dotazione universale di capitale al compimento dei 25 anni. È una misura che democratizza il capitalismo dando a ciascuno non il diritto astratto, sulla carta, di entrare nel gioco del mercato, ma la possibilità concreta di partecipare alla competizione capitalistica nel settore dell’economia che più gli/le aggrada.

Piketty basa il suo argomento, da una parte su un’enorme quantità di dati economici e demografici e dall’altra sulla storia della disuguaglianza nelle società asiatiche, europee e americane. È un’analisi di laboratorio in cui lo sguardo del ricercatore non si ferma mai a considerare lo scontro fra i gruppi sociali che si sono contesi quei beni che la statistica ci fa leggere come numeri; né tantomeno si fissa sulle forme che il potere ha assunto nelle predette circostanze. La ripartizione delle ricchezze cambia nel corso della storia, ma in Capital et idéologie sembra farlo come se seguisse il corso naturale degli eventi, senza che mai appaiano le varie soggettività che con pratiche e discorsi specifici hanno costruito i poteri decisivi nell’allocazione di risorse e privilegi. Questo limite del lavoro di Piketty diventa un problema cruciale nella pars construens del libro, la proposta del socialismo partecipativo fondato sulla fiscalità progressiva e la proprietà temporanea. L’approccio alla ricchezza che Piketty sostiene – prelevare grazie alla fiscalità progressiva il 50% del reddito nazionale annuale per ripartirlo tra i non-proprietari e/o i titolari dei redditi più bassi – presuppone un rovesciamento radicale degli attuali rapporti di potere, un fatto che sarebbe possibile solo grazie ad un ciclo di lotte dirompenti da parte dei potenziali beneficiari delle politiche redistributive. Ma di una indagine sulle soggettività che dovrebbero promuovere questo antagonismo non si trova traccia in Capital et idéologie, che rimane l’opera di un economista al lavoro a valle dei fenomeni e poco interessato a una risalita alle loro sorgenti.

Ma questo non è tutto: oltre a un problema, per così dire, di fase, nell’argomento di Piketty è soprattutto presente una difficoltà concettuale, strategica. Trasformare la proprietà da diritto assoluto ed ereditario, com’è ora, a usufrutto vitalizio non rappresenta una semplice riforma dell’istituzione, un ritocco cioè capace di eliminarne gli effetti dannosi salvandone al tempo stesso il nucleo benefico; significa, al contrario, colpirla al cuore. Questo perché nella pratica proprietaria è radicato l’istituto del patriarcato ereditario. Alla vigilia della Rivoluzione francese, dell’evento cioè che avrebbe sanzionato la definitiva affermazione della proprietà ai danni della signoria, Francesco Mario Pagano scriveva che «quando [l’uomo] già si procacciò una donna, e seco altresì a convivere l’indusse nella sua tana; quand’ebbe di lei prole, già divenne proprietario ed acquistò il primo dominio, che fu appunto della casa, della moglie, de’ figli». Componente cruciale della proprietà patriarcale è il diritto di trasmettere i propri beni agli eredi, che fino a poco più di un secolo fa erano solo maschi portatori del cognome paterno. Nata e cresciuta dentro il patriarcato, la proprietà ha assorbito l’illusione di immortalità che è connaturale al poter lasciare qualcosa – un bene, un titolo, un cognome – alla prole. Anche nel mutato contesto legale della modernità, questa illusione è parte costituente dell’attrattiva della proprietà, di ciò che la rende capace di motivare gli esseri umani ad eseguire una serie incredibile di atti, da ammazzarsi di lavoro ad ammazzare un fratello, pur di procurarsela e se possibile accumularla.

Piketty ritiene che la discussione democratica, da sola, possa portare le nostre società a evirare la proprietà per incamminarsi sulla strada del socialismo partecipativo: il massimo della partecipazione assicurerà la ponderatezza e l’efficacia delle decisioni. Questo dibattito è in effetti in corso: Elizabeth Warren, la senatrice del Massachusetts che è in corsa per la presidenza degli Stati Uniti, propone di finanziare l’assistenza sanitaria universale con una tassa del 6% sui patrimoni superiori al miliardo. Il tasso dell’imposta potrebbe sembrare moderato, ma anche così sposterebbe il rapporto fra individui e ricchezza nel senso proposto da Piketty. Sul New York Times dello scorso 10 novembre Patricia Cohen ha calcolato che se le imposte suggerite da Warren fossero state operative fin dal 1982, la fortuna di Bill Gates, per esempio, sarebbe oggi pari non agli attuali 97 miliardi di dollari ma a 13,9. Proposte simili a quelle avanzate da Warren serpeggiano negli Stati Uniti, anche a livello locale, grazie alla rinnovata militanza della sinistra del Partito Democratico. La parte avversa è ovviamente già scesa in campo. Sul Guardian del 9 novembre Hamilton Nolan racconta come un anno fa Amazon sia riuscita nel giro di un mese, per mezzo di minacce economiche e accorte donazioni, a far ritirare una delibera del consiglio comunale di Seattle volta a finanziare un programma di alloggi per senzatetto con una tassa sui profitti della compagnia di Bezos. Quest’anno, per mettersi al sicuro, Amazon ha speso un miliardo e mezzo di dollari per far eleggere una serie di consiglieri comunali ideologicamente favorevoli agli imprenditori. Sul piano nazionale la notizia è la candidatura di un miliardario, Michael Bloomberg, alla presidenza tra le file dei democratici. Durante le primarie Bloomberg diventerà quindi un avversario diretto di Warren, fatto che appare perfettamente logico: se Warren fosse eletta e le sue proposte approvate la ricchezza di Bloomberg subirebbe negli anni un taglio robusto, dell’ordine di quello che avrebbe colpito Gates nell’ipotesi sopra citata. Qualsiasi somma spenda Bloomberg nella campagna elettorale si rivelerà un investimento particolarmente accorto.

Davanti alla mobilitazione di risorse di questa portata Piketty corre l’evidente rischio di trasformarsi in un profeta disarmato, votato cioè alla rovina. Le società di ispirazione socialdemocratica che Piketty cita per rivendicare la fattibilità del suo progetto, non sono spuntate fuori dal dibattito democratico grazie alla pacatezza del dialogo fra le parti coinvolte. Roosevelt sale alla presidenza quindici anni dopo la Rivoluzione d’ottobre (per fare un esempio, l’11 settembre, un avvenimento nel cui cono d’ombra stiamo ancora vivendo, è successo diciott’anni fa) e mette in opera le politiche del New Deal mentre gli operai della General Motors gli stanno occupando le fabbriche. Formidabili soggettività, in grado di confrontarsi coi Bezos di allora, sono coautrici, come minimo, dei programmi realizzati dalle socialdemocrazie.

Quelle soggettività articolavano, ognuna secondo la sua particolare pronuncia, un comune racconto dell’uguaglianza. Nella forma moderna, carsicamente collegata a quella medievale esauritasi con la disfatta dei contadini tedeschi nel 1525, quel racconto era iniziato nel 1848 col Manifesto del Partito Comunista; cresciuto durante tutto l’Ottocento fino alla sconfitta del 1914, aveva poi attraversato la durissima prima metà del Novecento fino alla vittoria della Resistenza nella primavera del ‘45. Da lì in poi il compromesso socialdemocratico si impone in Occidente come pratica politica di riferimento. Lo resterà fino alla svolta dei primi anni ottanta. A partire da quel decennio il discorso egualitario piano piano si spegne e l’unico racconto in circolazione è quello radicalmente anti-egualitario del neoliberismo, la “nuova ragione del mondo” di Dardot e Laval. L’egemonia del racconto neoliberale emerge con tremenda chiarezza durante la recessione scatenata dal collasso dei mutui subprime del 2008. Una crisi nata nel privato si scarica sul pubblico in modo che i misfatti di pochi siano pagati dai molti. Mentre i governi adottano politiche di austerity dirette a debilitare lo stato sociale, l’uscita dalla recessione viene pilotata in senso radicalmente anti-egualitario.

Piketty tiene a stabilire una discontinuità netta fra la sua proposta di aggiustamento in senso egualitario dell’economia mondiale e il passato racconto dell’uguaglianza, soprattutto nella sua versione comunista. La sua ha da essere una proposta strettamente accademica, frutto della ricerca e lontana da qualsiasi connotazione militante. Tuttavia questo basso profilo mal si concilia con l’obiettivo altissimo che si propone, come si è visto nientedimeno che il superamento del capitalismo. Un’egemonia narrativa come quella del neoliberismo oggi, però, non la si batte solo con la ricerca. Quella è necessaria, chiaro, perché la conoscenza dei fatti è il primo mattone di un discorso anti-egemonico, ma la pura intelligenza non basta. Armato di sapere, un racconto egualitario funziona solo se a praticarlo sono soggettività attive nel conflitto, quelle che scoprono di essere tali quando riescono, appunto, a raccontare. Solo una narrazione che parta da queste premesse potrà, prima recuperare quanto è ancora vivo del discorso egualitario pre-1980, e poi, magari, anche mettere Piketty coi piedi per terra in modo da salvare il risultato prezioso della sua gran ricerca, l’immensa mole di dati, e utilizzarlo per dire una parola diversa sul mondo.

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