Di NIELS VAN DOORM e ADAM BADGER
Gig work come data work
Che tipo di lavoro è il lavoro mediato attraverso una piattaforma? In altre parole, che tipo di valore viene creato attraverso il lavoro di piattaforma? Se in una certa misura è vero che le piattaforme gig consentono ai lavoratori di capitalizzare sulle loro auto, biciclette o altri beni fisici che possono utilizzare durante la fornitura del servizio, l’usura che si verifica con l’utilizzo ripetuto (e spesso intensivo) svaluta nel tempo questi beni, e questa svalutazione non viene presa in considerazione nei prezzi dei servizi gestiti dalla piattaforma. I conducenti di Uber e Lyft sono responsabili dei costi di riparazione e manutenzione dei loro veicoli, ai quali molti devono aggiungere il pagamento mensile degli interessi sull’auto perché non sono proprietari dei beni di alto valore che a prima vista “affittano” ai passeggeri. Intanto, le e-bike e gli scooter utilizzati da consistenti gruppi di lavoratori nel food delivery sono beni di valore relativamente basso che non generano affitto e sono spesso oggetto di furto o (a New York) di confisca. Di fronte a una simile insicurezza e tensione finanziaria, cosa devono fare i lavoratori a basso reddito e senza beni? Ci sono altre risorse che potrebbero utilizzare a loro vantaggio?
Per i nostri scopi, è strategicamente utile accettare momentaneamente l’argomentazione standard, ribadita dalle aziende in varie cause giudiziarie, secondo la quale esse non sono di realtà esse stesse fornitrici di servizi (e quindi non possono essere ritenute responsabili come se fossero delle datrici di lavoro), e che semplicemente forniscono la piattaforma tecnica su cui i fornitori di servizi trovano accesso alla loro base clienti. Da questo punto di vista, le società di piattaforma forniscono un servizio che è categoricamente distinto dal servizio fornito dal gig worker – cioè forniscono un “servizio informativo”. In cambio di questo servizio, le compagnie di piattaforma addebitano una commissione per ogni transazione effettuata tramite la piattaforma. Fondamentale è che, tuttavia, oltre ad estrarre una rendita da ogni transazione che orchestrano, le piattaforme estraggono anche dati su queste transazioni, il che significa che anche i gig workers possono essere intesi verosimilmente come un “servizio informativo” per le piattaforme che utilizzano.
Di conseguenza, sosteniamo che la governance del lavoro gig mediato da piattaforma è caratterizzata da un processo che chiamiamo “dual value production”: il valore monetario prodotto dal servizio fornito è aumentato dall’uso e dal valore speculativo dei dati prodotti prima, durante e dopo la fornitura del servizio. Tuttavia, quella che a prima vista può sembrare una componente supplementare dell’attività di servizio centrale, è in realtà la chiave per capire che cosa sono le gig economies, e in generale l’economia delle piattaforme: innovazione di prodotti basata sui dati, ottimizzazione dei servizi ed espansione sinergica. Se si considera come l’assetizzazione del lavoro tra le diverse industrie locali di servizi sono state “perturbate” dalle compagnie di piattaforme, ciò che si distingue come denominatore comune non è il gig worker come un precario rentier che capitalizza su attività minori, ma piuttosto l’apparato attraverso il quale il gig work è reso produttivo di dati elaborati computazionalmente come una particolare asset class (cfr. Sadowski 2019).
Varietà di capitale umano (dati)
Secondo Luke Stark (2018: 207), il «soggetto del controllo digitale non è solo plastico ma anche modulabile: sagomato e reso leggibile a diversi ordini di analisi tecnica» la cui giustapposizione e integrazione può generare nuove intuizioni e applicazioni. Rendendo i gig workers comprensibili da diverse angolazioni e a diversi livelli di granularità, le piattaforme lavorative mettono in atto “situazioni di classificazione” create algoritmicamente che non solo sono centrali per l’ottimizzazione dei servizi, ma danno anche origine a «conseguenti forme di categorizzazione sociale e opportunità differenziate in termini di prezzo» che incidono sui mezzi di sussistenza di ogni «partner» (Fourcade e Healy 2017: 10). Ad esempio, nella policy della privacy UK per i riders di Deliveroo si afferma che vengono analizzati i dati sulle attività dei fattorini «per prendere le decisioni più efficienti quando si offrono ordini [a prezzi differenziati] in base a fattori come la vostra posizione, […] per determinare il vostro livello di priorità di accesso alle prenotazioni [a turni] utilizzando i vostri dati “Statistiche”», e «per fare alcune ipotesi sui tipi di offerte promozionali che possono essere particolarmente utili per voi quando fornite servizi a Deliveroo». Queste righe possono aiutare ad illustrare l’ipotesi di Fourcade e Healy che le situazioni di classificazione consentano ad alcuni di «accumulare “übercapital”» [o “eigencapital”, come lo chiamano anche loro], una forma di capitale derivante dalla propria posizione e traiettoria in base a vari metodi di valutazione, classificazione e graduatoria». Secondo Fourcade e Healy l’übercapital è costituito da vari derivati di dati (punteggi, valutazioni e altri identificatori) «attribuiti agli individui algoritmicamente, spesso in un modo a loro opaco» (ibid.), ma che possono tuttavia essere sfruttati in maniera vantaggiosa (ad esempio per ottenere uno status o delle opportunità di reddito). Vale a dire che questi derivati di dati sono soggetti a un «asset attivo in formazione: un processo attraverso il quale qualcosa diventa oggetto di investimento e, quindi, un oggetto che viene considerato principalmente dal punto di vista della capitalizzazione” (Doganova e Muniesa 2015: 120). Ma in che misura e in che modo i soggetti modulabili del capitalismo di piattaforma sono effettivamente in grado di capitalizzare sui propri data assets?
I metodi di punteggio, valutazione e ranking che conferiscono algoritmicamente “übercapital” ai gig workers non solo sono largamente riconosciuti e accettati come forme della cultura digitale contemporanea, ma funzionano anche come dispositivi di calcolo che commisurano una grande varietà di competenze, condotte, comportamenti e attività dei lavoratori, traducendoli in “portfolio” di metriche e indici valutativi. Nella misura in cui questi portafogli sono resi accessibili e leggibili ai gig workers, forniscono una sorta di panoramica della propria performance nei confronti degli altri lavoratori e quindi incoraggiano il darsi di condotte e comportamenti ritenuti favorevoli alla propria autostima sulla piattaforma. Come osserva Michel Feher, è possibile «governare i soggetti che cercano di accrescere il valore del loro capitale umano, o, più precisamente, di agire sul modo in cui si governano, incitandoli ad adottare comportamenti ritenuti valorizzanti e a seguire modelli di autovalutazione che modificano le loro priorità e influenzano le loro scelte strategiche» (2009: 28).
Tuttavia, va qui sottolineato che, a differenza del soggetto neoliberale idealtipo di Feher preoccupato per la «crescita del capitale o dell’apprezzamento piuttosto che del reddito, del valore delle azioni piuttosto che del profitto commerciale» (ibid.: 27), molti lavoratori non possono permettersi di rinviare i rendimenti più immediati del loro investimento (in particolare il reddito) a favore del apprezzamento continuo del «capitale a cui lui o lei è identificato» nella piattaforma (ibid.). Questo comportamento utilitaristico deriva dal semplice fatto che la maggior parte di essi sono a basso reddito e poveri di beni, avendo fatto accesso alla piattaforma solo perché hanno bollette da pagare e bocche da sfamare. Se i lavoratori del food delivery non venissero pagati (bi)-settimanalmente e non avessero l’opzione aggiuntiva di “incassare” immediatamente, ogni volta che hanno bisogno di soldi, non avrebbero lavorato così duramente per imparare quando e dove andare online, quali offerte di consegna rifiutare, quali ristoranti evitare, quali percorsi seguire, dove aspettare tra una consegna e l’altra, e come approcciare un cliente per aumentare la possibilità di una mancia in contanti. Tutti questi investimenti nel loro capitale umano (vale a dire le conoscenze e le competenze necessarie per farsi una vita mezza decente con questo lavoro) valgono solo lo sforzo e la tensione sia per la bicicletta che per il corpo, a condizione che ci siano ritorni monetari concreti. In altre parole, si soddisfano gli algoritmi della piattaforma e si migliorano le proprie statistiche solo fino a quando questo soddisfa le proprie esigenze.
Al di là del food delivery, simile soddisfazione immediata non è l’unica forza che spinge i gig workers ad auto-apprezzarsi nei mercati competitivi organizzati attraverso piattaforma, spesso soprassaturi dal lato dell’offerta. Ci sono altre aspirazioni del capitale umano, per citare di nuovo Feher, aspirazioni che esprimono un orizzonte temporale più lungo e che vanno oltre il campo di una singola piattaforma. Per gli addetti alle pulizie manuali o le babysitter ben valutate che commercializzano i loro servizi su Care.com, ad esempio, i sistemi di reputazione rivolti al cliente possono presentare una misura preziosa del loro capitale umano che potrebbe essere potenzialmente sfruttato anche al di fuori della piattaforma, quando questi lavoratori decidono di cercare altre opportunità di impiego e percorsi di carriera. Al momento tale potenziale è tecnicamente limitato dal fatto che la maggior parte dei sistemi di reputazione sono legati alle specifiche architetture di piattaforma all’interno delle quali sono stati progettati, il che significa che non possono essere trasferiti in altri ambienti. Dopo tutto, le aziende di piattaforma non vogliono perdere la loro base di utenti, quindi ne limitano la mobilità. Questo ha portato alcuni lavoratori particolarmente imprenditoriali di Handy a fare degli screenshots delle loro valutazioni e recensioni in modo da poter postare queste immagini sul proprio sito web o almeno salvarle come referenze per il futuro.
Questa pratica improvvisata potrebbe non essere più necessaria nel prossimo futuro, tuttavia, dato che diversi attori della gig economy – tra i quali compagnie platform, think tank progressisti e sostenitori del lavoro – hanno promosso lo sviluppo di sistemi di reputazione portatili che trascendono i confini della piattaforma e che quindi separerebbero i data assets dal dominio della proprietà esclusiva dell’azienda. L’obiettivo è di dare ai gig workers la capacità – e il diritto legale – di aggregare e mobilitare i loro dati reputazionali come meglio credono, al fine di garantire loro più agency sull’apprezzamento del loro capitale umano. Questo obiettivo, di conseguenza, deriva dal più ampio presupposto che gli indici reputazionali derivati dalle piattaforme giocheranno un ruolo sempre più importante nella misurazione e nel potenziamento della posizione competitiva e dell’occupabilità di un lavoratore sui vari mercati del lavoro.
Mentre questo può effettivamente essere il caso in alcuni mercati del lavoro, è meno probabile che sia saliente o efficace in altri, per non parlare del fatto se funziona in tutti i mercati del lavoro. Un addetto alle pulizie che commercializza i suoi servizi attraverso Handy e TaskRabbit, ma aspira ad avviare una propria impresa di pulizie senza dipendere da queste piattaforme di ricerca di rendita, probabilmente accoglierà con favore l’opportunità di aggregare le sue valutazioni e recensioni, in quanto questi indici di valutazione sono commensurabili con i criteri che informano la selezione dei possibili fornitori di servizi da parte del cliente. Tuttavia, sarebbe più difficile immaginare un autista Uber ottenere allo stesso modo il chilometraggio dalle sue valutazioni quando cerca di costruire un percorso di carriera al di fuori del business del trasporto urbano. In generale, il problema delle iniziative di reputazione portatili è che fondano nella commisurazione tra tecnico e sociale, qualcosa di endemico per la soluzione tecnologica della politica dell’imprenditoria della Silicon Valley. Questa è la fallacia del “plug-in”: è possibile inserire le valutazioni Uber in un nuovo ambiente tecnico, ma non si può anche “inserire” un driver Uber in un nuovo ambiente professionale, soprattutto quando gli ordini di valore che governano questo ambiente non sono commensurabili a quelli del trasporto urbano. Solo perché le valutazioni Uber possono essere integrate nei profili degli autisti su Jobcase – una piattaforma di social media per la “vita lavorativa” – non significa che tali valutazioni saranno di valore (cioè che formeranno indici significativi, rilevanti o interessanti) per i potenziali datori di lavoro.
Più radicalmente, simili iniziative negano problematicamente una verità che viene generalmente evitata nelle prospettive neoliberali sulle opportunità e le sfide della gig economy, ma che difficilmente può essere trascurata: il capitale umano dei lavoratori a basso salario che svolgono lavori fungibili è valutato molto poco nelle società di tutto il mondo. Questo ci porta all’obiettivo del progetto politico di Feher, che è quello di «abbracciare strategicamente la condizione neoliberale» e di «permettergli di esprimere aspirazioni e richieste che i suoi promotori neoliberali non avevano né voluto né previsto» (2009: 25). Tale strategia, secondo Feher, permette una lotta politica sulla «questione di ciò che costituisce una vita apprezzabile» (ibid.: 41). Anche se siamo in linea generale inclini a sostenere un progetto così cruciale, ci sono tuttavia ragioni per esitare e pensarci due volte prima di adottare la sua critica immanente.
In primo luogo, come abbiamo indicato sopra, le architetture valutative attraverso le quali l’autovalutazione diventa possibile e obbligatoria sono di proprietà di piattaforme aziendali venture-backed che stabiliscono i termini e le condizioni che determinano le modalità contemporanee di valutazione e svalutazione. Per questo motivo temiamo che la gamma di richieste e aspirazioni progressive o alternative che possono essere espresse all’interno di questo quadro del capitalismo delle piattaforme finanziarizzate sarà decisamente limitata, dato che queste saranno legate a pratiche, logiche e linguaggi radicati in forti disuguaglianze rispetto alla ricchezza e al potere. Questo ci porta alla nostra seconda esitazione: chiedendo semplicemente migliori risorse per l’auto-apprezzamento, accettiamo ancora tacitamente, o continuiamo ad aderire alle misure di valutazione associate, il che rende difficile rinunciare all’economia morale (cioè all’ordine di valore) sulla quale tali misure sono state storicamente basate. È una lunga storia di subordinazione razziale, di genere e di classe che ha avuto origine quando il capitale ha cercato per la prima volta di espandersi a livello globale, una storia che continua a gettare una lunga ombra sulle gig economies di oggi, nonostante i migliori sforzi dei loro protagonisti per cambiare immagine il lavoro dei servizi a basso salario come un luogo color-blind di opportunità e una frenesia imprenditoriale. Solo ripercorrendo questa storia dalla piantagione, attraverso la fabbrica e l’azienda, fino alla piattaforma, è possibile cogliere appieno il basso valore attribuito al fungibile gig work e a coloro che prestano servizi su richiesta.
Infine, va anche sottolineato che – oltre all’espropriazione e allo sfruttamento (dei dati) – forse la principale forma di violenza strutturale inflitta ai gig workers è la percezione di una pervasiva sensazione di superfluità. Gli autisti di Uber e i riders di Uber Eats sono ben consapevoli di essere sostituibili: sul breve termine da una riserva permanente di centinaia, se non migliaia di lavoratori in situazioni simili attratti dalle promettenti cifre di Uber e dai considerevoli bonus di riferimento; a lungo termine dagli algoritmi di machine learning formati sui dati espropriati. Questa condizione di superfluità si traduce più direttamente in una retribuzione scadente e in una mancanza di supporto, il che spiega perché così tanti gig workers hanno smesso di lavorare entro un anno dall’iscrizione a una piattaforma. Quando non è possibile stabilire un flusso di reddito affidabile, e tanto meno sostenibile, non si ha altra scelta se non cercare l’uscita più vicina e trovare un altro modo per fare soldi.
Dalla piattaforma alla meta-piattaforma
Nel frattempo, l’assenza di redditività e la sostenibilità a lungo termine sono un problema molto meno pesante per le società di piattaforme. Questo perché la redditività del modello di business di un’azienda è secondaria alla sua capitalizzazione, o all’apprezzamento del suo valore di mercato, nella misura in cui i ricavi devono solo essere abbastanza ampi da fornire agli aspiranti investitori una “prova di concetto” riguardo alla capacità della piattaforma di ingrandirsi e quindi di diventare redditizia in futuro. Finché vi è la fiducia degli investitori che una piattaforma ad un certo punto raggiungerà lo status di monopolio e potrà quindi iniziare ad estrarre rendite monopolistiche, può aspettarsi nuove iniezioni di capitale che finanzieranno i suoi continui sforzi per conquistare quote di mercato e migliorare i suoi risultati finanziari, il che dovrebbe portare ad un’ulteriore inflazione del suo valore di mercato.
Di certo, il patrimonio di dati di una piattaforma aziendale gioca un ruolo cruciale sia per aumentare la fiducia degli investitori sia per migliorare la sua performance finanziaria – dato che quest’ultima dipende almeno in parte dall’uso dell’analisi dei dati per ridurre i costi del lavoro. Ad esempio, durante i recenti road show IPO [ndt: Initial Public Offering] di Lyft, l’azienda ha mantenuto la sua asserzione che dare priorità alla crescita e all’innovazione guidata dai dati, in particolare rispetto al suo progetto di veicolo autonomo, è la strategia giusta e che la mancanza di redditività nel presente – e, secondo i suoi archivi SEC, potenzialmente anche in futuro – non dovrebbe dissuadere gli investitori dall’acquisto di azioni.
Inoltre, le IPO di Lyft e Uber ci ricordano che i suddetti cicli di apprezzamento del capitale sono segnati da cosiddetti “eventi di liquidità”, quando i fondatori e i primi investitori (ad esempio le società di venture capital) hanno l’opportunità di “uscire” incassando una parte delle loro azioni. Ricordiamo il rifiuto dei lavoratori del food delivery di perdere il loro reddito in cambio dell’apprezzamento speculativo del loro capitale umano: questi investitori non sono, allo stesso modo, disposti ad assolvere indefinitamente una società di piattaforme dall’obbligo di generare rendimenti monetari. In questo senso, come suggeriscono Langley e Leyshon (2017: 24), «il modello di business della piattaforma performa la struttura temporale dei fondi di venture capital», osservazione che ci spinge ad ampliare la portata della nostra analisi oltre il regno della piattaforma.
In definitiva, le origini delle sue aspirazioni monopolistiche basate sui dati possono essere rintracciate fino a un livello, fino a quello superiore della catena del valore in cerca di rendita che costituisce il capitalismo della piattaforma finanziarizzata. Questo livello è il dominio di quelle che chiamiamo “meta-piattaforme”: società di venture capital e fondi di investimento che cercano di sfruttare gli effetti di rete e le possibilità sinergiche che emergono nella gestione di un ampio e variegato portfolio di investimenti in società di piattaforme e altre imprese data-centriche, ciascuna con l’intento di “sconvolgere” diversi settori industriali sfruttando le proprie capacità analitiche. Usiamo il termine “meta-piattaforma” perché il crescente potere di queste istituzioni finanziarie deriva da come esse operano efficacemente come piattaforme di ordine superiore i cui profitti sono costituiti dalle rendite estratte ogni volta che gli investitori (inclusi gli investitori istituzionali come i fondi pensione, i fondi previdenziali sovrani) con le società tecnologiche alla ricerca di iniezioni di capitale che consentano loro di scalare rapidamente. Portando un’attenzione critica alle meta-piattaforme ci consente di andare anche al di là di una preoccupazione per il “valore dell’azionista”, in quanto la posta in gioco della nostra analisi non riguarda solo l’influenza degli obiettivi degli azionisti sulle operazioni quotidiane di un’azienda, ma richiede che si tenga conto della governance strategica di formazioni monopolistiche che si rafforzano reciprocamente tra settori.
La meta-piattaforma per eccellenza è SoftBank, il conglomerato che gestisce il Vision Fund da 100 miliardi di dollari, finanziato per quasi la metà dal fondo sovrano dell’Arabia Saudita. Secondo il fondatore e CEO di SoftBank, Masayoshi Son, le società nel portfolio di Vision Fund controllano il 90% del mercato ride-hailing a livello mondiale, una percentuale che dovrebbe sicuramente farci riflettere. L’approccio di Son, soprattutto dopo l’inaugurazione del Vision Fund, è stato quello di “sovrainvestire” in specifiche società di piattaforme e quindi praticamente di preordinare un vincitore in diversi mercati competitivi. Questo ha dato vita alla strategia “cluster of number ones” di Son, che ruota attorno alla creazione di sinergie produttive tra le società in portfolio «il cui totale è teoricamente maggiore della somma delle sue parti – un valore aggiunto derivante dalle partnership e dalle opportunità di business che derivano dall’essere parte della famiglia SoftBank». Tali partnership e opportunità di business si concentrano in gran parte sulla ricerca di modi per attualizzare il potenziale di enormi quantità di dati raccolti da una grande varietà di fonti. Un recente articolo di Wired, che abbiamo citato qui sopra, riassume la visione di Son:
un futuro in cui ogni volta che usiamo il nostro smartphone, o chiamiamo un taxi, o ordiniamo un pasto, o soggiorniamo in un hotel, o effettuiamo un pagamento, o riceviamo cure mediche, lo faremo in una transazione di dati con una società che appartiene alla famiglia SoftBank. E, come ama dire Son: “Chiunque controlla i dati controlla il mondo”.
Le meta-piattaforme cercano di controllare il mondo, o almeno l’ecosistema di piattaforme che rimodella sempre più il mondo a sua immagine. Avendo imparato la lezione sulla scia del crollo di dot.com, durante il quale Son e i suoi coetanei hanno perso enormi somme di denaro, i CEO delle meta-piattaforme puntano ora a costruire architetture di sostenibilità data-centriche che li proteggeranno nel caso in cui scoppi la prossima bolla tecnologica – una bolla che essi stessi avranno contribuito a creare. Anche nel caso in cui Uber si dovesse piegare, ad esempio perché i governi di tutto il mondo concordano miracolosamente sul fatto che l’azienda è in realtà un datore di lavoro e gli investitori perdessero di conseguenza interesse per le sue azioni, la sua IPO ha offerto a SoftBank l’opportunità di incassare parte del suo capitale e di utilizzare questi rendimenti per investire – e quindi consacrare – nel prossimo Uber, o nel prossimo Palantir o Arm. Le piattaforme possono andare e venire, ma le meta-piattaforme che determinano la ricchezza delle nazioni stanno diventando troppo grandi per fallire.
Bibliografia
Doganova, L. & F. Muniesa (2015) Dispositivi di capitalizzazione, in M. Kornberger, L. Justesen, A.K. Madsen & J. Mouritsen (eds.) Making things valuable. Oxford: Oxford University Press, pp. 109-25.
Feher, M. (2009) Autoapprezzamento; oppure, le aspirazioni del capitale umano. Cultura pubblica, 21(1): 21-41.
Fourcade, M. & K. Healy (2016) Vedendo come un mercato. Rassegna socio-economica, 15(1): 9-29.
(traduzione di Clara Mogno)
Questo articolo è stato pubblicato in inglese su Platform Labor il 9 luglio 2019.