della REDAZIONE EURONOMADE.
Populismo è parola usata, o abusata, per descrivere un insieme assai eterogeneo di fenomeni politici. Per i media mainstream sono populisti alla stessa maniera Donald Trump e Pablo Iglesias, Marine Le Pen e Beppe Grillo. In modo generico, dunque, populisti sono coloro che criticano aspramente la casta (ovvero i partiti politici), parlano sopra le righe (hate speech), disprezzano la finanza, pretendono sovranità, maltrattano gli istituti della rappresentanza liberal-democratica e della mediazione sociale (i sindacati). Ancora: volti nuovi, “estranei” ai poteri forti, che vogliono più Stato e meno globalizzazione, che difendono l’interesse nazionale; del popolo, appunto.
Le definizioni generiche, così care alla stampa neoliberale o a quella liberista temperata, non ci aiutano minimamente a cogliere la realtà dei fenomeni, spesso radicalmente diversi tra loro, spesso antagonisti. A una lettura più attenta dei giornali, infatti, apprendiamo che l’amministrazione Trump è quella che offre più protagonismo (diretto) – nella storia politica americana degli ultimi decenni – alla Goldman Sachs; a cominciare dalla famosa “anima nera”, Steve Bannon. Rinnovato nazionalismo e capitalismo finanziario si combinano in un mix indubbiamente inedito, di certo non estraneo ai poteri forti, anzi. Podemos, soprattutto negli ultimi mesi, sta accompagnando alla critica sempre dura della casta quella della «trama», intreccio di poteri economici e politici, carattere peculiare della governance neoliberale. In questo senso Podemos, che non ha mai nascosto il suo riferimento ai governi bolivariani in America Latina (Venezuela, Bolivia, Equador) e agli indignados del 15M, si presenta come una variante populista decisamente anticapitalista. Nazionalismo forte, sul bordo del fascismo, è quello di Marine Le Pen; che non è affatto anticapitalista ma rilancia, in forme nuove, la tradizione colbertista, vera fortuna dell’«accumulazione originaria» francese. Poi c’è il “giacobinismo” grillino, che mescola istanze programmatiche prelevate dai movimenti sociali (il reddito di cittadinanza) con una sorta di “realismo razzista”. Fenomeni dunque irriducibili, che richiedono un significativo sforzo di distinzione analitica.
Provando a sorvolare – un attimo, e solo un attimo – su queste differenze, pure sostanziali e da approfondire, possiamo cogliere nell’anti-elitismo il tema unificante dei populismi. Anche questo elemento comune, però, viene declinato in termini assai differenti. Per comodità, allora, ci serviremo di una prima distinzione “rozza”, mettendo da una parte i populismi autoritari, dall’altra quelli di sinistra, che oltre all’ancoraggio latino-americano sono fortemente ispirati dal pensiero di Ernesto Laclau. Fatta questa partizione, indichiamo schematicamente genealogie e articolazioni dell’elemento – l’ostilità all’establishment – che, nonostante tutto, più li accomuna:
- il populismo è una risposta, variegata ma netta, al processo di de-politicizzazione delle funzioni di governo, sempre più demandate ai tecnici (il caso europeo, da questo punto di vista, è emblematico), e di svuotamento della rappresentanza politica liberal-democratica. Si intende il processo se si appunta l’attenzione sul passaggio dal Big government alla governance, dagli Stati-nazione agli assemblaggi globali, dalla politica al management, dalla prevalenza del diritto pubblico a quella del diritto privato;
- lo slittamento di cui sopra impone il primato degli esperti sui cittadini, dei banchieri centrali sui rappresentanti politici, del mercato sulla democrazia (dei parlamenti). In opposizione a questo primato, il populismo segnala una mossa anti-tecnocratica che, spesso, svela una radice fortemente anti-intellettuale. Alla critica nei confronti dell’expertise neoliberale e dei media mainstream, infatti, si accompagna – è il caso di Trump o di Le Pen – un odio viscerale nei confronti del pensiero critico e dell’intelligenza collettiva;
- il ‘popolo’ dei populismi è un soggetto che si definisce per differenza dalle élite. In questo senso salta la distinzione e l’opposizione tra destra e sinistra in favore di quelle tra basso e alto, onesti e corrotti, dimenticati e finanzieri avidi, luoghi e flussi, comunità e globalizzazione, ecc. Il ‘popolo’ ricostruisce, a costo di enormi opacità e forzature, il campo degli “esclusi” da riportare alla ribalta;
- il populismo riduce, come dicevamo, l’importanza dell’intelligenza collettiva, e lo fa insistendo sul primato della dimensione fusionale dell’affettività. Non casualmente il carisma del leader, anche nelle varianti di sinistra, o un certo uso dei Social Network sono elementi decisivi per conquistare il popolo e favorirne il trionfo contro le élite.
Seppur abbiamo proceduto con qualche semplificazione di troppo, e ne siamo consapevoli, questi ci paiono i tratti comuni su cui si innervano i fenomeni politici populisti. Preme indicare di più e meglio le differenze, tenendo a mente la partizione “rozza” prima suggerita.
Il populismo autoritario, lo dicevamo, rivela una combinazione inedita tra nazionalismo e neoliberalismo. Ciò che fino a poco tempo fa sembrava corrispondere interamente con la spinta espansiva della globalizzazione, il neoliberalismo, oggi scopre e promuove un mondo multipolare, segnato da faglie, guerre “esterne” e guerre ai poveri, inclusione differenziale, muri, razzismo di Stato. In questo senso, e a partire dall’approfondimento della crisi, il populismo si presenta come un fascismo di nuova natura, «doppio» terrificante di quella democrazia dei molti che pure la trasformazione – in senso affettivo, linguistico, cooperativo – del modo di produrre mette da almeno un trentennio all’ordine del giorno. Dal punto di vista geopolitico, non casualmente, irresistibile polo di attrazione è la Russia di Putin. Il nuovo Zar, infatti, non ha mai smesso di esibire la separazione tra mercato e democrazia, e, nello stesso tempo, la saldatura tra rinnovata e potente accumulazione in senso estrattivo (centralità delle commodity) e fenomeni di rifeudalizzazione della società. Da aggiungere l’interesse mai celato della Russia per la decomposizione dell’Unione Europea, vera e propria calamita per i populismi del vecchio continente che fanno del rilancio sovranista la propria ragion d’essere. In questo senso, il fascino esercitato da Putin come paladino di un blocco alternativo a quello atlantico ha finito per condizionare anche alcune varianti di sinistra del populismo, le quali sacrificano sull’altare di un improbabile risiko geopolitico il loro stesso afflato anti-establishment (Putin è al governo da venti anni), e, con esso, le ragioni dei subalterni.
Del populismo di sinistra, invece, va segnalata l’importanza della variante ispirata dal pensiero di Ernesto Laclau, della quale trattiamo, e passiamo al vaglio critico, il rapporto tra dimensione sociale e processi politici. Questo populismo prende le mosse dall’impossibilità di reperire oggi un soggetto autonomo e centrale (la classe operaia), dunque una classe universale come quella presupposta dal marxismo. Di qui l’idea che il soggetto sia inevitabilmente prodotto dall’esterno: bisogna dare “forma” alla molteplicità irriducibile del sociale. Il populismo non dispone del popolo, deve crearlo: si tratta di una vera e propria operazione linguistico-discorsiva che, a guardar bene, svela la radice liberale del populismo stesso. Il sociale, in Laclau e in buona parte del discorso di Podemos, si concentra sulla sua più piccola unità, definita «domanda sociale». Questa insistenza nella definizione del sociale come composto da claims inevasi proietta il discorso populista in una logica di mercato dove l’eccesso di domande non trova offerte capaci di articolarle e di soddisfarle. Non a caso, il populismo sembra originare dalla constatazione di un vuoto di rappresentanza e da esso sembra essere strettamente dipendente. Tuttavia, nella tensione con la quale punta a colmare il “vuoto a sinistra”, dimentica che quest’ultimo, più che il frutto di una mera insoddisfazione, è il segno di una sottrazione attiva dagli istituti della rappresentanza statuale.
Abbiamo solo tratteggiato aspetti rilevanti, sui quali impiantare una riflessione urgente ma non frettolosa. L’obiettivo del seminario sarà dunque, innanzitutto, quello di rendere conto della varietà dei significati attribuiti alla nozione di populismo, e degli “usi” che di essa hanno fatto i movimenti sociali e alcune importanti esperienze di governo. La necessità di tracciare delle linee di distinzione, tuttavia, non ha per noi un valore esclusivamente descrittivo: il dibattito in corso sul populismo sollecita il pensiero critico relativamente ad alcuni limiti teorico-politici che la diffusione dello stesso dibattito mostra in controluce. Al di sotto dei fenomeni da noi brevemente censiti, infatti, si celano segmenti e interessi di classe tra loro non solo differenti, ma antagonisti: l’astrazione discorsiva tipica del paradigma populista rischia, in altre parole, di trasformare la costitutiva ambivalenza della composizione sociale in ambiguità politica. Inoltre, mentre nel ciclo di lotte del 2011, dagli Stati Uniti alla Spagna, il discorso dei movimenti ha provato a tradurre il richiamo maggioritario (il 99%) attraverso tematiche di carattere redistributivo e democratico-radicali, a seguito della Brexit e della vittoria di Trump l’uso del termine populismo, anche a sinistra, ha spostato il proprio baricentro su istanze neo-sovraniste e nazionaliste. Per ultimo, ma non certo per importanza: la recente emergenza di nuovi cicli di mobilitazioni globali, come quelli animati dalle donne, dagli afroamericani e dai migranti che presentano una logica della soggettivazione irriducibile allo schema con il quale i teorici del populismo (di sinistra) hanno pensato e pensano di convertire la molteplicità del sociale in progetto politico.
Attorno a questi nodi vorremmo dunque avviare una discussione aperta e non scontata, capace di mettere in comunicazione attivisti e profili teorici differenti, su scala globale ed europea, nella consapevolezza che, al di là dell’accoglimento o del rifiuto del termine, il dibattito sui populismi interroga da vicino il pensiero critico e la possibilità di incidere sul presente. Per questo invitiamo i compagni a produrre contenuti preparatori.
Il seminario si svolgerà a Roma, all’ESC, dal 16 al 18 giugno.
A breve pubblicheremo il calendario delle giornate.