di ROBERTA POMPILI. 

Primo atto. 

Tamburi di lotta.

Sorrido da sola mentre su internet guardo le foto della grande manifestazione contro la violenza sessista da poco conclusasi a Buenos Aires. Più ancora della manifestazione oceanica Ni una mas! mi colpiscono le immagini di bellissime donne che a seno nudo, il corpo segnato con dei colori, il viso bellicoso semicoperto da fazzoletti neri, armeggiano con grandi tamburi.

Queste immagini non hanno niente a che vedere con le immagini che hanno fatto il giro del mondo e sono arrivate da noi, quelle delle scarpette rosse abbandonate a poca distanza le une dalle altre, a testimoniare il femminile-vittima di mano maschile. E neanche con il balletto sponsorizzato del One bilion rising, corpi ritmati all’unisono dentro la retorica di una canzone moraleggiante (noi siamo le madri, le insegnanti…)

Le immagini di quelle donne a Buenos Aires, sono immagini di donne scomposte, “non conformi”, che evocano potenza, rabbia e determinazione. Sono definitivamente altro. Nessuna retorica vittimista che invoca lo stato, e i suoi apparati di potere. Non corpi femminili addomesticati, ma gioia e potenza dell’agire comune.

Vero è che i movimenti di donne e femministi in latinoamerica hanno un altro livello di maturità, tanto che possiamo leggere le bellissime analisi di un antropologa come Rita Segato sulla violenza che il discorso pubblico definisce “violenza di genere”.  Non vi è separazione tra la violenza strutturale dello stato e l’attore ultimo maschile che interpreta il ruolo del carnefice finale. E Rita Segato parla esplicitamente di una nuova guerra: una pedagogia della crudeltà che, facendo leva sul fondamentale lavoro di istigazione dei media, viene messa in atto per produrre contesti e soggettività funzionali alla violenza della fase attuale di accumulazione capitalista. Un processo di territorializzazione del capitale la cui violenza si esprime privilegiatamente sul femminile (e sul subalterno femminilizzato), ridefinendo corpi e territori, riformulando rapporti di potere, restringendo spazi di libertà, ri-producendo e ri-modellando le identità.tamburi2

Secondo atto.

Laboratori di soggettività e cattura dell’autonomia del comune

Facciamo rapidamente un fuoco nella provincia italiana. L’EXPO è un laboratorio di soggettività, prima ancora di essere una inutile e distruttiva grande opera dai costi incredibili, prima ancora di essere un modello di sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori o anche di un sistema -impresa autoritario e liberticida (con i licenziamenti suggeriti dalla questura). Tutto questo dobbiamo leggerlo come un insieme di tecnologie complessive di comando del capitale. L’ ipotesi costruttivista neoliberale agisce nella misura in cui cattura l’autonomia dei soggetti della cooperazione piegandole dentro un sistema ed un orizzonte politico-culturale e dando così forma a particolari modelli prefigurati di soggettitività. L’economia della promessa, con il suo annesso corollario del lavoro gratuito, non avrebbe modo di operare se non si nutrisse della cattura di quel desiderio di visibilità di presenza, di agentività di cui la composizione del lavoro moltidudinario è ricca. A tale proposito non possiamo non richiamare l’attenzione su un avvenimento importante che è parte dell’ “interessante” calendario dell’happening milanese. Expo ospiterà infatti a settembre la Conferenza mondiale delle donne (dopo quella di Pechino, e quella meno conosciuta di NY).  Poichè come tutti sanno il tema della kermesse è il cibo, altrove sono già state denunciate le retoriche atte riprodurre il femminile materno tradizionale attraverso le narrazioni sulle donne in quanto nutrici della terra. È evidente però che l’aspetto importante del dispositivo complessivo del We Woman for Expo che è messo in piedi da uno staff di eccezione, a partire da Mogherini e Dassu, gioca ancora di più sulla messa a valore del complessivo  fattore D come soggetto di impresa. Il managment delle differenze o diversity managment si sviluppa dentro quello che è stato lo spazio lasciato aperto da desideri di trasformazione e cambiamento legati alle passate lotte femministe, declinandoli dentro modelli di soggettività al femminile che si situano dentro la cornice neoliberale, dunque de-politicizzati, individualizzati e costruiti dentro il confine neocoloniale (noi e le altre, quelle che infibulano, fanno i matrimoni forzati, etc). Le pratiche del discorso di questi laboratori utilizzano le parole chiave di libertà e  della partecipazione, così come del bottom-up (basso – alto). Gli stati generali hanno, infatti, realizzato molti incontri territoriali nelle diverse regioni in vista dell’appuntamento di settembre: tali  incontri fanno leva sui neonati sportelli di donne (quelli per le imprese al femminile, ma anche quelli antiviolenza) e sul vasto associazionismo femminile e il suo protagonismo di imprenditrici e  auto-imprenditrici-precarie.

Terzo atto. 

Per l’autonomia del comune: politicizzare tutti gli spazi!

Torniamo ai nostri tamburi di lotta. Lo scontro di classe si pone oggi nei termini di produzione di una soggettività radicalmente altra, una soggettività che seppure è costretta a misurarsi con un fuori ed un dentro dei dispositivi di cattura del capitale sia di fatto aliena alle sue forme di cattura politica. Politicizzare tutti gli spazi diventa allora una necessità improrogabile, mentre produciamo un nuovo vocabolario che ci distanzia e ci orienta altrove, pratiche discorsive che sappiano incidere sulla realtà per modificare i rapporti di forza esistenti.

Proviamo per questo insistentemente a creare interconnessioni e legami, a ricostruire una tensione unitaria moltidudinaria, mentre rifuggiamo ogni dinamica individualizzante consapevoli che l’empowerment si costruisce soltanto dentro processi di presa di parola e di contropotere collettivo.

La lotta per l’autonomia del comune – premessa imprenscindibile per dare vita ad istituzioni del comune aperti alle istanze moltitudinarie- è appena cominciata.

 

 

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