di FANT PRECARIO.
Tanto va il precario alla finanza che ci lascia il suo destino
(da leggere ascoltando: → Frederique la poisson avec Frite sur le dos – Daevid Allen Trio, 1963)
1 – Delle banche: c’è bisogno d’Europa (fosse pure quella del capitale)
«L’Ecofin ha raggiunto un accordo sul meccanismo di gestione delle crisi bancarie. Nella notte del 18 dicembre 2013 i Ministri delle Finanze dei paesi dell’Unione sono giunti ad un’intesa definita “storica” dal Ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni. Il contenuto è stato espresso attraverso due documenti: un regolamento ed un trattato intergovernativo, voluto per dare una base legale certa a tale accordo. Sono tre i punti su cui si costruisce il nuovo assetto di gestione della crisi bancaria, pensato con l’obiettivo di evitare la spendita di denaro pubblico per riportare in salvo la banca che si trovi in dissesto. In effetti tra il 2008 e il 2011 per soccorrere gli istituti finanziari gli Stati hanno utilizzato circa 4 miliardi di euro di denaro pubblico [che, se il dato è vero, sono un nulla rispetto ai costi per le banche dell’insolvenza del sistema imprenditoriale].
In primo luogo, verrà istituito un fondo di risoluzione che sarà finanziato dal denaro di privati. Questo fondo si comporrà, originariamente, di compartimenti nazionali e si prevede che, nel giro di dieci anni a un ritmo del 10% annuo, le quote degli stati saranno progressivamente messe in comune.
In secondo luogo, vi sarà un Consiglio di risoluzione che provvederà a decidere in merito alla chiusura ovvero alla ristrutturazione dell’istituto in crisi (con l’utilizzo del fondo). Con questa seconda previsione si è voluta realizzare una cessione di sovranità in un settore, qual è quello bancario, che si è sempre posto come l’anello di congiunzione tra politica ed economia. Di tale organo faranno parte le autorità nazionali coinvolte di volta in volta nella specifica crisi; queste dovranno decidere in una sessione esecutiva e le scelte prese dovranno entrare in vigore nelle successive 24 ore, previo parere della Commissione. Qualora il parere espresso dalla Commissione risultasse negativo, la questione passerebbe all’Ecofin che si esprimerà a maggioranza semplice. Sarà richiesto che il Consiglio di risoluzione si esprima in sessione plenaria (presenti tutte le autorità nazionali) se la ristrutturazione dell’istituto di credito dovesse richiedere il 20 % o più del fondo comune ovvero nel caso in cui l’istituto abbia già usufruito di almeno 5 miliardi di euro nell’anno corrente. Per queste particolari ipotesi si prevede un differente quorum: maggioranza dei due terzi oltre che il benestare dei paesi costituenti almeno il 50 % dei contributi del fondo.
Infine, ma non di minor rilievo, l’intesa prevede un c.d. “paracadute finanziario”. Questo strumento è stato pensato per permettere di ottenere denaro in prestito durante la fase transitoria (prevista, come detto, in dieci anni) necessaria affinché si costituisca ed entri concretamente in funzione il fondo di risoluzione.
La previsione è quella che il meccanismo unico di gestione della crisi entri in funzione da gennaio 2015. Per ora le conclusioni raggiunte dovranno passare al vaglio del Parlamento europeo, il quale dovrà esprimersi entro fine legislatura, ossia aprile 2014» (Dall’Europa arriva il meccanismo unico di gestione della crisi bancaria, → “il Fallimentarista”, 07.01.2014).
Ci sarebbe da andare a Lourdes, fosse solo perché si diluirebbero gli interventi sulle banche da parte dei vari Scilipoti, Miccicchè, Fassino, etc…, invece, la bibbia del progressista illuminato così punzecchia (che tanto, i soldi – rectius i debiti che solo con banche forti non sono tali poiché controbilanciati dal credito che in qualche modo si può vantare – sono i nostri): «è lo scenario che ha già spinto Mario Draghi a sollecitare uno snellimento, in nome del principio, sottoscritto a gran voce da tutti gli esperti di cose bancarie, che deve essere possibile chiudere una banca “nel giro di un weekend”. Ma Berlino ha, sinora, tenuto duro. Come andrà a finire? Molti pensano che i brontolii del Parlamento di Strasburgo siano solo vetrina elettorale. Per lo stesso Schultz, tedesco, socialdemocratico, candidato di socialdemocratici e progressisti alle prossime elezioni non è semplice giustificare l’opposizione ad uno schema fortemente voluto da un governo di Berlino, di cui fa parte il suo stesso partito. Il tempo però stringe: rimangono meno di due mesi, prima che il Parlamento di Strasburgo si sciolga e rinvii ogni decisione ai nuovi deputati, probabilmente in autunno, lasciando, nel frattempo la Bce e gli stress test senza ombrello» (Troppe cento teste per decidere il fallimento di una banca, → “Repubblica”, 25.01.2014).
Modestamente, chiudere una banca nel giro di un week end (magari avvolti in candida coperta in cashmere, bevendo tè con vista sul lago) mi pare tanto pericoloso quanto lasciare la BCE e gli stress test senza ombrello. E poi, ombrello de che? per salvare chi e da cosa?
Comunque vada, lo scenario è l’europa: sia quella teutonica, sia quella piagnucolosa di De Benedetti.
«Il dispositivo utopico che guida la nostra pratica eversiva, consiste nell’imporre una convenzione costituzionale che fondi ed interpreti una “moneta del comune”. La moneta è sempre un’istituzione sociale che accompagna gli scambi, ed ogni valore sociale può essere espresso in forma monetaria. Se la banca produce moneta e se oggi essa la produce come mezzo di produzione, la democrazia, il comando del 99% deve impossessarsi della regola delle emissioni monetarie e piegarla al rapporto sociale nel quale, oggi, la forma del comune ha qualificato la cooperazione produttiva» (→ Toni Negri, A proposito di costituzione e capitale finanziario).
Sottrarre la scelta dei tempi al capitale, dirigere l’insolvenza secondo l’orologio delle moltitudini (→ le ore sul mio rolex segnano rivoluzione subito, Club Dogo), che quelli di chiusura delle banche siano per Draghi tranquilli weekend di paura.
2 – Del lavoro
Vuole la leggenda (che per DJ Francesco e Mons. Levebre, peraltro, è dogma) che Dio, sconvolto dall’agire poco virtuoso di Eva, così apostrofasse Adamo (che per punirci/punirsi – primo esempio di autocritica terzinternazionalista – gli cantò mille volte inch’allah): ti guadagnerai il pane con il sudore della fronte. Adamo rispose: e io vado in ferrovia…
Era nato il rifiuto del lavoro.
Tutti sappiamo poi come è andata: il capitale – ben più di Dio, gattopardianamente vestito da Zipponi in cerca di un seggio – ha stravolto il concetto di rigetto della subordinazione apparentemente liberandoci da ogni costrizione di orario e di regole, in realtà vincolando la nostra vita alla partecipazione costante e coattiva alla sua sopravvivenza.
Da un lato il precario impresa “votato” suo malgrado alla dedizione perpetua al capitale, dall’altro il capitale – indifferente alle sorti del suo preposto – che estrae quanto di vitale persiste nell’affannarsi del primo attraverso una legge del valore perversamente fittizia nella disciplina, draconianamente efficace nell’esplicarsi.
«Il lavoro produttivo oggi… si realizza e valorizza in un mondo di reti comunicative e di connessioni informazionali sempre più evidenti; si lavora, conseguentemente, in forme sempre più flessibili e mobili, precarie dal punto di vista salariale – e la dimensione lavorativa viene sempre più segnata dall’indeterminazione dei tempi e degli spazi, dall’inquietudine e dell’anomia. Quanto alla valorizzazione, essa si realizza attraverso flussi cooperativi, dove linguaggi e affetti sono sussunti nei processi materiali della produzione ed il lavoro (il c.d. capitale variabile) si scambia sempre più frequentemente con il macchinario (il c.d. capitale fisso). Che è come dire: la qualità del lavoro è segnata da figure sempre più singolari che si combinano in maniera cooperativa con il capitale costante, poiché si appropriano autonomamente di frazioni o di tempi, di usi o di funzioni del capitale fisso. Il lavoro è dunque cambiato in maniera radicale da come era stato descritto e da come ontologicamente si poneva nell’epoca dell’individualismo possessivo. Le forme del rapporto tra attività e proprietà sono dunque anch’esse radicalmente mutate? Certo. Che cosa resta allora, ontologicamente, del concetto di proprietà privata?» (→ Toni Negri, L’agire comune e i limiti del capitale).
3 – “Lavoro/vita finanziarizzato”
a) Continuiamo a calarci nel presente trovando soccorso nel passato
Riportiamo un passo di chi, come Adamo, patì le catene, non per colpa del signore ma di un “unto” dal medesimo (Antonio Gramsci, Americanismo e fordismo, “Azioni, obbligazioni, titoli di stato”):
«Quale radicale mutamento porterà nell’orientamento del piccolo e medio risparmio l’attuale depressione economica se essa come pare probabile si prolunga ancora per qualche tempo? Si può osservare che la caduta del mercato azionario [nel nostro caso mai avvenuto1] ha determinato uno smisurato spostamento di ricchezza e un fenomeno di espropriazione simultanea del risparmi di vastissime masse della popolazione [questo certamente verificatosi: che si tratti di fenomeno di accumulazione “originaria” costantemente replicato?], un po’ dappertutto ma soprattutto in America: così i processi morbosi che si erano verificati a causa dell’inflazione nel primo dopoguerra si sono rinnovati in tutta una serie di paesi e hanno operato nei paesi che nel periodo precedente non avevano conosciuto l’inflazione [l’inflazione è la grande assente dalla nostra crisi].
Il sistema che il governo italiano ha intensificato in questi anni pare il più razionale ed organico almeno per un gruppo di paesi [ricordiamoci che il nostro era in prigione, non che potesse spargere letame a sparo sul buffone in tight], ma quali conseguenze potrà avere? […] La massa di risparmiatori cerca di disfarsi completamente delle azioni di ogni genere ma preferisce i titoli di stato a ogni altra forma di investimento [ora le cose vanno diversamente, averli i risparmi]. Si può dire che la massa dei risparmiatori vuole rompere ogni legame diretto con l’insieme del sistema capitalistico privato, ma non rifiuta la sua fiducia allo stato; vuole partecipare all’attività economica ma attraverso lo stato che garantisce un investimento modico ma sicuro [è sulla convinzione dei tapinelli che si fondò, quindi, la grande diversificazione tra banche commerciali e istituti di credito statali? e Bene-Duce dove stava?]. Lo stato viene così ad essere investito di una funzione di prim’ordine nel sistema capitalistico, come azienda che concentra il risparmio da porre a disposizione dell’industria e dell’attività privata, come investitore a medio e lungo termine (creazione italiana dei vari Istituti, di Credito mobiliare, di ricostruzione industriale ecc., trasformazione della Banca commerciale, consolidamento delle Casse di risparmio, creazione di nuove forme nel risparmio postale ecc.). Ma, una volta assunta questa funzione, per necessità economiche imprescindibili, può lo stato disinteressarsi dell’organizzazione della produzione e dello scambio? Lasciarla come prima all’iniziativa della concorrenza o all’iniziativa privata [ed è qui la grande differenza tra le due fasi, laddove nessuno più si interessa alla produzione di merci ma a quella di vita né il rapporto capitalistico è tra possessori di merci ma tra imprese in concorrenza nell’espropriazione di vita e non di introduzione di beni sul mercato]? Se ciò avvenisse, la sfiducia che oggi colpisce l’industria o il commercio privato travolgerebbe anche lo stato; il formarsi di una situazione che costringesse lo stato a svalutare i suoi titoli (con l’inflazione o in altra forma) come si sono svalutate le azioni private diventerebbe catastrofico per l’insieme dell’organizzazione economico-sociale [ma cosa accade quando la “situazione” sia indipendente dallo stato dello Stato, ma rinvenga da manovre estranee allo stesso, trovandosi l’ente nella condizione di “privato” tra “privati” nella concreta operatività del mercato?]. Lo stato è così condotto necessariamente a intervenire per controllare se gli investimenti avvenuti per il suo tramite sono bene amministrati e così si comprende un aspetto almeno delle discussioni teoriche sul regime corporativo. Ma il puro controllo non è sufficiente [ammesso che, in oggi, controllo ci sia e meglio, ci sia mai “stato”]. Non si tratta solo di conservare l’apparato produttivo così come è in un momento dato, si tratta di riorganizzarlo per svilupparlo parallelamente all’aumento della popolazione e dei bisogni collettivi [e qui, si comprende al contrario, la differente attuale risposta del capitale, laddove, in Italia ad esempio, la popolazione diminuisce, i bisogni collettivi sono ignorati, i bisogni individuali compressi]. Appunto in questi sviluppi necessari [ripeto: la grande forza del capitale, oggi, è che tali sviluppi non sono, tantomeno sono necessari] è il maggior rischio dell’impresa privata e dovrebbe essere maggiore l’intervento statale [obliterati questi bisogni, meglio resosi il capitale autonomo, l’impresa privata – ammesso che esista – non corre alcun rischio], che non è scevro neanch’esso di pericoli tutt’altro […] [e qui si arriva al punto veramente attuale, al di là delle suggestioni che l’analisi, allora corretta, reca agli odierni sostenitori del “pubblico”].
Se lo stato si proponesse di imporre una direzione economica per cui la produzione del risparmio da funzione di una classe parassitaria fosse per divenire funzione dello stesso organismo produttivo, questi sviluppi ipotetici sarebbero progressivi, potrebbero rientrare in un vasto disegno di razionalizzazione integrale: bisognerebbe perciò promuovere una riforma agraria (con l’abolizione della rendita terriera come rendita di una classe non lavoratrice e incorporazione di essa nell’organismo produttivo, come risparmio collettivo da dedicare alla ricostruzione e a ulteriori progressi) e una riforma industriale per ricondurre tutti i redditi a necessità funzionali tecnico industriali e non più a conseguenze giuridiche del puro diritto di proprietà».
Parafrasando, e così anticipando, il senso (se senso ha) di quello che si vorrebbe dimostrare con queste poche righe: se le moltitudini imponessero una direzione economica per cui la rendita finanziaria [prodotta a mezzo di vita del precario2] da funzione di una classe parassitaria fosse per divenire funzione dello stesso organismo produttivo e quindi della singolarità precario impresa, questi sviluppi ipotetici sarebbero progressivi, potrebbero rientrare in un vasto disegno di razionalizzazione integrale; bisognerebbe perciò promuovere una riforma con l’abolizione della rendita finanziaria come rendita di una classe non lavoratrice e incorporazione di essa nell’organismo produttivo (e quindi con riconoscimento della rendita quale espresso del corpo del precario non più solo macchinica elaborazione di se stesso) come risparmio (nel senso di sottrazione volontaria da processo di captazione da parte del capitale) comune da dedicare agli “ulteriori progressi” e una riforma industriale (per quel che resta della produzione) per ricondurre tutti i redditi a necessità funzionali tecnico industriali (e quindi di vita) e non più a conseguenze giuridiche del puro diritto di proprietà.
«[…] I risparmiatori sono staccati dal mondo della produzione e del lavoro; il lavoro vi è socialmente troppo caro, perché ottenuto con un livello di vita troppo basso dei lavoratori industriali e specialmente agricoli [il precario è impresa indebitata per mantenere un carrozzone che lo costringe a lavorare sempre di più con la conseguenza che il debito si amplifica anziché ridursi perché il lavoro del precario costa anziché produrre reddito, ed è questo il ricatto del debito che non opera tanto a livello “morale” agendo direttamente sul corpo del precario costringendolo all’elaborazione in reti di vita che produce rendita per il capitale e debito per se stesso]. Se la nuova struttura del credito consolidasse questa situazione in realtà si avrebbe un peggioramento; se il livello parassitario grazie alla garanzia statale, non dovesse neanche più correre le alée generali del mercato normale, la proprietà terriera parassitaria si rafforzerebbe da una parte e dall’altra le obbligazioni industriali a dividendo legale certo graverebbero sul lavoro ancora in modo più schiacciante».
b) Anche oggi ci troviamo di fronte a una crisi che non accenna a ricomporsi
Tanto tempo è passato, ma paiono di impellente disamina quantomeno alcune tra le questioni sollevate:
(i) Ricondurre tutti i redditi a necessità funzionali tecnico industriali (necessità tecnico funzionali inerenti nel nostro caso al corpo strumento produttivo, verso la realizzazione del comune quale nuovo valore d’uso che non è più fuori ma dentro la storia costruita dalle lotte) e non più a conseguenze giuridiche del puro diritto di proprietà (dove proprietà è anche e soprattutto quella del lavoro già venduto ora espropriato attraverso la gestione finanziarizzata della vita3).
(ii) La circostanza incontestabile che il livello parassitario non corra neanche più le alée generali del mercato normale.
Ciò perché nel mutato statuto, da costituzione del lavoro [e il regime corporativo era tale4] a costituzione/statuto dell’uomo impresa, all’assalto alla produzione comune precaria si oppone non più la ricerca di una partecipazione alla produzione (che già c’è, ed è atroce) ma la necessità a) di evitare la captazione; b) di continuare comunque a vivere e quindi produrre, preservando anzi istituendo il carattere comune della produzione.
c) Ad oggi (tanto per lambire due soli dei punti toccati):
(i) lo stato non ristruttura le banche per dirigerne gli investimenti (addirittura controllarli) ma le “salva”, direttamente, profondendo miliardi ricavati dal nulla (ed è qui che opera la captazione, non ponendo denaro pubblico in ausilio degli istituti) ovvero consentendo alle banche private di creare denaro attraverso l’indebitamento;
(ii) la situazione che costringesse lo stato a svalutare i suoi titoli come si sono svalutate le azioni private diventerebbe (sempre) catastrofica per l’insieme dell’organizzazione economico sociale, ma oggi la “situazione” è agita direttamente dal capitale attraverso il downgrade e lo spread, con modalità che si presentano univoche nella esazione del comune, impedendo di farsi realmente tale, attivando di volta in volta il debito privato e quello pubblico.
Quello che più colpisce negli eventi degli ultimi anni è lo svolgersi di eventi (e correlativi provvedimenti) “epocali” immediatamente appianati dal capitale che proseguendo nella propria opera dilapidatoria delle vite si dipana nella crisi e attraverso la crisi si perpetua.
Il capitale-crisi erode il comune prodotto dalle singolarità attraverso lo sfruttamento “diretto” delle stesse e l’utilizzo strumentale e funzionale della “forma stato”: stato ridotto a manganello (quanto allo sfruttamento del precario-impresa, e l’esegesi pop del dualismo SITAV/NOTAV ne è lampante esempio) e apprendista stregone nella derelizione del comune che si produce attraverso l’esercizio delle attività demandate (ancora per quanto?) al settore pubblico (ospedali, servizi civici, beni comuni).
L’impianto di sfruttamento che così si impone è realizzato in ragione della già ricordata autonomia del capitale capace di agire l’attività del precario indipendentemente dal “tumultuoso” spiegarsi dello stesso e ciò per la capacità dello stesso di creare moneta (i) dal nulla attraverso il debito, (ii) dalla vita attraverso la coazione allo statuto dell’impresa.
È evidente che un regime fondato sul debito veda come sovrano incontestato chi, per propria stessa assunzione, è soggetto dotato di credito illimitato.
4 – Il denaro creato dalle banche commerciali
Si tratta di un fenomeno ovvio e come tale evitato dalla critica asservita, dato per supposto ma non come elemento fondativo del potere finanziario.
Il denaro è creato dalle banche commerciali quando estendono o creano il credito, attraverso l’erogazione di finanziamenti o l’acquisto di beni esistenti. La creazione di nuova moneta e la ripartizione del potere d’acquisto è funzione economica fondamentale e altamente redditizia.
Concedendo credito, infatti, le banche creano contemporaneamente dei depositi nei conti bancari, che, a tutti gli effetti, costituiscono denaro.
Denaro è tutto ciò che è accettato come mezzo di pagamento, in particolare da parte del governo come il pagamento delle imposte: vi rientra, così, il credito bancario.
Come bene evidenzia → Positive Money che da tempo, pur da un’angolazione minimamente “riformista”, tratta la questione quanto alle condizioni esistenti in Inghilterra, la moneta nazionale del Regno Unito esiste in tre forme principali:
• Cash: banconote e monete.
• Riserve della banca centrale: riserve detenute dalle banche commerciali presso la Banca d’Inghilterra.
• Moneta di banca commerciale: depositi bancari creati sia quando le banche commerciali prestano denaro, accreditando in tal modo i conti di deposito dei mutuatari di credito, possibilità di effettuare pagamenti per conto di clienti che utilizzano le loro possibilità di scoperto, o quando acquistano beni da parte del settore privato e di effettuare i pagamenti per conto proprio (come stipendi o bonus).
Solo la Banca d’Inghilterra può creare le prime due forme di denaro.
Dal momento che le riserve delle banche centrali in realtà non circolano nell’economia, si può ulteriormente restringere l’offerta di moneta, che in realtà circola come “moneta” delle banche commerciali.
Ci sono diversi modi di descrivere l’agire delle banche. La versione più semplice è che le banche prendono in denaro dai risparmiatori, e prestano il denaro ai mutuatari (di qui le frottole sul credit crunch). Invero, le banche non hanno bisogno di aspettare che un cliente “depositi” prima di poter fare un nuovo prestito a qualcun altro. In realtà, è esattamente l’opposto: la realizzazione di un prestito crea un nuovo deposito nel conto del cliente.Le banche possono prestare molte volte più della quantità di denaro e riserve che detengono presso la Banca d’Inghilterra.Questo è un quadro più preciso, ma è ancora incompleto e fuorviante: esso implica un forte legame tra la quantità di denaro che le banche creano e l’importo detenuto presso la banca centrale. Al tempo della crisi finanziaria, per esempio, le banche ritengono solo 1,25 £ in riserve per ogni 100 £ rilasciato a titolo di credito.
Le banche operano all’interno di un sistema di compensazione elettronico che cattura con la rete i pagamenti multilaterali, alla fine di ogni giornata, imponendo loro di tenere solo una piccola parte di moneta della banca centrale per soddisfare le loro esigenze di pagamento. Il potere delle banche commerciali di creare nuova moneta ha molte implicazioni importanti per la prosperità economica e la stabilità finanziaria . Evidenziamo quattro punti che sono rilevanti per le riforme del sistema bancario che l’estensore predica:
• I requisiti di adeguatezza patrimoniale, non hanno e non impediscano la creazione di moneta, e quindi non necessariamente servono a limitare l’espansione dei bilanci delle banche a livello aggregato. In altre parole, essi sono principalmente inefficaci nel prevenire boom del credito e dei loro associati, bolle speculative.
• Il credito è razionato dalle banche, e il fattore principale di quanto prestano non è dei tassi di interesse, ma la fiducia che il prestito sarà rimborsato e la fiducia nella liquidità e la solvibilità delle altre banche e del sistema nel suo complesso.
• Le banche decidono dove allocare credito nell’economia. Gli incentivi che devono affrontare spesso le portano a privilegiare i prestiti contro garanzie, o di attività, piuttosto che prestiti per investimenti nella produzione. Come risultato, il nuovo denaro è spesso più incanalato in proprietà e la speculazione finanziaria che verso le piccole imprese e la produzione, con profonde conseguenze economiche per la società.
• La politica fiscale di per sé non comporta un ampliamento dell’offerta di moneta. Infatti, il governo non ha in pratica alcun coinvolgimento diretto nella creazione di moneta e la procedura di assegnazione. Questo dato, poco conosciuto, ha un impatto importante sulla efficacia della politica fiscale e il ruolo del governo nell’economia.
5 – Creazione di ricchezza attraverso l’estensione dello statuto d’impresa
Se le banche creano moneta attraverso l’indebitamento, è evidente che il soggetto passivo dell’operazione (mutuatario sovvenuto) deve essere tale da porsi in costante soggezione e necessità di credito. Le figure del lavoratore deprivato dei benefici del welfare e del consumatore (che ancora esiste nei sogni del legislatore) non paiono idonee a garantire un flusso costante di “necessità”, di induzione all’indebitamento.
Si registra il mutamento del lavoratore in impresa, per il cui esercizio, stante la ovvia e costitutiva carenza di capitale da investire [e la possibilità di costituire società con € 1 di capitale sociale valorizza il senso del discorso5].
Se l’indebitamento è quindi immediatamente costitutivo, per il capitale è ben necessario lo sfruttamento, a tali fini dello stato di crisi dell’imprenditore, convertendo lo sfruttamento in captazione.
6 – Il senso dell’insolvenza del precario impresa indebitata nel contesto dello statuto dell’impresa
a) Il concetto di insolvenza nella nuova disciplina fallimentare
La legge fallimentare procede dalla considerazione di un “imprenditore che versa in stato di insolvenza”, con chiaro collegamento alla tradizionale concezione di insolvenza quale stato patologico della situazione finanziaria del debitore, di cui lo stesso debba rispondere nei confronti dei creditori anche con sanzioni di tipo personale, e che rende necessario un procedimento di liquidazione per il loro soddisfacimento.
Lo stato di crisi permanente, tale rappresentazione non può ritenersi attuale, dove la patologia è la ora norma, e l’indebitamento funzionale alla sopravvivenza dell’impresa e soprattutto alla soggezione del precario allo statuto dell’impresa.
Il D. Lgs. n. 5 del 2006 e il successivo correttivo, hanno cercato di sradicare, sia pure con non poche difficoltà, l’arcaica concezione soggettivistica del fallito, iniziando a considerare il fallimento come fase fisiologica del mercato «che peraltro impone di adottare tutti gli strumenti che possano consentire un riutilizzo totale o parziale delle strutture e dell’organizzazione aziendale (M. Sandulli, La crisi dell’impresa. Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 2009). Il dinamismo delle moderne relazioni economiche, l’immaterialità preponderante dei valori che compongono la moderna impresa, l’esigenza di un continuo adeguamento della struttura imprenditoriale rendono la “crisi” non più evento eccezionale ma evento probabile che il sistema economico e giuridico deve saper affrontare in termini riallocativi, piuttosto che in termini selettivi» (S. Fortunato, → Fallimento dell’imprenditore o crisi dell’impresa?).
Il tradizionale quadro concettuale fondato sull’insolvenza come sanzione dell’imprenditore commerciale immeritevole, e considerato dall’opinione pubblica come fraudolento, a tutela di generali interessi del mercato o della corporazione mercantile (corporazione definitivamente evaporata nel mondo impresa), avallato anche dall’assenza di una precisa definizione codicistica di impresa, è definitivamente al tramonto.
Se da un lato si va affermando una nuova e diversa visione del fallimento e delle procedure concorsuali in genere, sulla spinta della dottrina economica di matrice aziendalista dall’altro è possibile ritenere che la mannaia sociale sia stata dismessa a favore di un recupero delle attività che proseguono nell’impresa pur insolvente e che ben possono sviluppare ricchezza fittizia.
Secondo alcuni si deve avere riguardo al fallimento dell’impresa, e non dell’imprenditore.
In altre parole, può fallire l’impresa singola non l’imprenditore in sé considerato quale titolare dello statuto immortale che governa lo sfruttamento da parte del capitale-crisi.
Anche le banche, imprese tra imprese, hanno sviluppato misure di sostegno in favore delle imprese.
Nel luglio 2013, l’ABI e le Associazioni delle imprese, hanno deciso di rinnovare le misure di sospensione e allungamento dei finanziamenti fino al 30 Settembre 2013. Si tratta di misure che consentono di fatto alle piccole e medie imprese che non hanno già usufruito di precedenti moratorie di sospendere il pagamento delle rate di mutui e leasing, di allungare la durata dei finanziamenti oppure di ottenere prestiti con finalità di aumento dei mezzi propri. Con l’iniziativa in corso riguardante le “Nuove misure per il credito alle Pmi” di Febbraio 2012, le banche hanno sospeso 95.435 finanziamenti a livello nazionale, pari a 29,5 miliardi di debito residuo (in aggiunta ai 70 miliardi dell’Avviso comune) con una liquidità liberata di 4,1 miliardi (oltre ai 15 miliardi di euro con l’Avviso comune). Dati aggiornati al Maggio 2013, fonte: → “Il sole 24 ore”, 01.07.2013.
La manovra si presta a differenti interpretazioni. Si potrebbe obbiettare, a seconda dei punti di vista:
• per tenere vivi quattro imprenditori si impedisce l’accesso al credito ad altri mille;
• in questo modo le banche tengono a bilancio l’intero importo portato nei finanziamenti che in realtà sono fuffa;
• la prosecuzione dello stato di crisi (una moratoria non fa primavera) consente lo sfruttamento intensivo delle vite coinvolte nel dissesto.
Si è giunti a tratteggiare i contorni di una “insolvenza buona”.
b) La nuova frontiera dell’indebitamento
L’esigenza di trovare una soluzione al dilagante problema sociale del diffondersi di situazioni finanziarie per così dire “patologiche” (in realtà funzionali allo sfruttamento delle singolarità) ha ricevuto una prima risposta con la L. 3/2012 recante “Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento”, successivamente integrata e parzialmente novellata dal cd. Decreto crescita bis.
Si è così previsto uno strumento per offrire, ai soggetti non fallibili la possibilità di concordare con i creditori un piano di ristrutturazione dei debiti con conseguente esdebitazione del soggetto in crisi e soddisfazione dei creditori.
Sovraindebitamento è “situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte ed il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni ovvero la definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente”, laddove il carattere di definitività può, piuttosto univocamente, ben essere ricondotto all’insolvenza fallimentare.
Attraverso il procedimento di sovraindebitamento, che si sviluppa sotto l’egida dell’autorità giudiziaria che dovrà omologare l’accordo – esercitando per tal via poteri analoghi a quelli a lei riservati nello strumento concordatario – e con l’ausilio di un organismo di composizione della crisi istituito ad hoc dalla novella, si giunge alla finale esdebitazione del soggetto in crisi.
Il provvedimento costituisce presa d’atto della necessità di trattare come impresa ogni soggetto vivente, liberandolo dalle pastoie del debito (attraverso l’elisione della negatività del giudizio) incardinandolo nel regime ablativo di ogni libertà di autovalorizzazione.
7 – Il lavoro precario e l’insolvenza
Appare quindi condivisibile che «il mutamento del lavoro (e dello statuto del lavoro, ndr.) rinnova dunque fondamentalmente l’interrogazione sul concetto di proprietà privata. Esso si presenta su un terreno ambiguo sul quale gli elementi dell’attività materiale ed immateriale (il lavoro fisico e quello intellettuale), le dimensioni individuali e sociali, le qualità singolari e cooperative si scambiano confusamente nei processi produttivi (tanto più in quelli di sfruttamento) – e dove (come abbiamo ricordato) financo porzioni di capitale fisso sono di volta in volta appropriate dalla forza-lavoro o strappate (estratte) dal comando padronale alla metamorfosi del lavoro produttivo. Inoltre indipendenti processi di soggettivazione funzionano all’interno di queste trafile dell’accumulazione capitalista inducendovi originali eccedenze e/o innovazioni……Si realizza così una nuova convenzione proprietaria e la regola finanziaria s’impone qui per ridefinire la proprietà. È il possesso di moneta – la convenzione finanziaria – che si pone come norma regolatrice delle attività sociali e produttive e, quindi, come accesso ad una “realtà proprietaria” alla quale la confusione concettuale non toglie efficacia. La proprietà diventa cartacea, monetaria o azionaria, mobile e/o immobiliare, ha natura convenzionale e giuridica…. Si tratta di considerare la convenzione finanziaria come un comando indipendente da ogni determinazione ontologica: la convenzione fissa e consolida un “segno proprietario” (nei termini della “proprietà privata”: vedi soprattutto Leo Specht) e quand’anche contemporaneamente si presenti come “crisi”, come “eccedenza” non semplicemente rispetto alle vecchie e statiche determinazioni del valore-lavoro ma soprattutto in riferimento a quell’“anticipazione” e a quell’“incremento” continui che gli sono propri nel confrontarsi con la captazione finanziaria del valore socialmente prodotto e nell’operare alla sua estensione sul livello globale, pure essa regge» (Toni Negri, → Lavoro e proprietà a fronte del comune).
8 – La legge del dis-valore
La mutazione si dà con il passaggio dallo statuto del lavoro a quello dell’impresa, attraverso l’impresisazione delle soggettività, la codificazione della concorrenza in vece dello scambio.
La coattiva auto-realizzazione dell’uomo impresa disarticola la proprietà che proprio quando perde la capacità di regolare la titolarità dei beni, assurge a progetto di gestione della vita indebitata. L’apposizione di termini e confini non misura più la terra o il tempo di lavoro ma matura in ragione del completo assoggettamento del corpo alla creazione di ricchezza fittizia e come tale inappropriabile.
Il lavoro individuale perde ogni connotato affogando nel rispetto del codice della privazione di sé stessi.
L’impresa che governa le vite produce, in ragione dell’asservimento allo statuto dell’impresa, un lavoro immediatamente sociale che si stranisce nella misurazione attraverso il debito.
Solo il riconoscimento delle proprietà sociali del lavoro che l’uomo-impresa svolge può modificare questo quadro, affermandosi egli produttore immediato di ricchezza che si realizza con attraverso la cooperazione che conclama, ma disgrega lo statuto dell’impresa.
E qui torniamo al rifiuto del lavoro, dal quale si era partiti.
Se alla catena tutti uguali eravamo, nell’impresa-crisi siamo tutti differenti e tesi alla condizione di cooperazione, che porta la moltitudine ad essere produttiva.
Il rifiuto non è più dell’oppressione del lavoro alienante ma della costituzione materiale che il capitale finanziario ci impone; occorre trascenderla, procedendo verso l’estinzione dell’impresa, opponendo alla concorrenza la cooperazione, al debito la legittimità dell’insolvenza, alla captazione l’irriconoscibilità della produzione moltitudinaria.
Così il → “Corriere della sera” del 30.12.13: «IL RECORD DI PIAZZA AFFARI – Il bilancio definitivo di Piazza Affari, che il 31 resta chiusa, è indubbiamente positivo, con un rialzo raggiunto dopo un biennio da brivido, soprattutto nel 2011. Allora il calo dell’indice Fts Mib fu del 20%, mentre l’anno successivo (+8%) si è visto un primo spiraglio di luce. La capitalizzazione complessiva delle società quotate a Milano ha raggiunto, allo scorso 23 dicembre, quota 438,2 miliardi di euro, in crescita di quasi il 20%, portandosi al 28,1% del Pil, a fronte del 22% del 2012. Più che per l’andamento degli indici e degli scambi, che hanno raggiunto un controvalore totale di 540 miliardi, Piazza Affari ha esultato per le 20 ammissioni e le 18 Ipo che rappresentano, secondo l’amministratore delegato di Borsa Italiana Raffaele Jerusalmi, “un nuovo punto di partenza importante non solo per il mercato finanziario, ma per tutta l’economia italiana”. In particolare il numero 2 di Palazzo Mezzanotte si è soffermato sul debutto record di Moncler, che con 680 milioni di euro incassati ha fatto archiviare la maggior raccolta dal 2000, quasi un’era geologica fa». ↩
«Ad essere in gioco è un’ulteriore finanziarizzazione del politiche di welfare ossia l’accelerazione della finanzarizzazione, della previdenza, della salute, dell’istruzione. Ma nella rete potrebbero scadere anche le politiche pubbliche legate agli ammortizzatori sociali, alla distribuzione diretta di reddito e alle attività relazionali di cura e assistenza. Nel modello antropogenetico emergente è il bios che le borse pretendono di quotare…»: così A. Fumagalli e S. Lucarelli, introduzione a André Orléan, Dall’euforia al panico, ombre corte, Verona 2010, p. 24. ↩
«A questo punto c’è da chiedersi se il concetto di proprietà privata abbia ancora ontologicamente senso. In realtà, il rapporto tra lavoro e proprietà sembra ormai costituito, nella società a rete, quando le mura della fabbrica cedono, quando il lavoro si raffigura tendenzialmente come relazione di servizio e le connessioni produttive si distendono nella metropoli, quando il valore è astratto dall’intero livello produttivo-sociale – bene, la proprietà privata sembra essere divenuta concetto contingente, privo di necessità: sono infatti la moneta, quindi il capitale finanziario e l’azione pubblica, che sembrano qui stabilire ogni rapporto fra lavoro e comando (proprietà?)», Toni Negri, → Lavoro e proprietà a fronte del comune. ↩
«Il riconoscimento della libertà di negoziare costituì il legittimo contropotere dei lavoratori di circoscrivere il potere; la conservazione del potere passava necessariamente per il coinvolgimento delle classi meno favorite nella metodologia giuridica», come liberal-democraticamente osserva Castelvetri, Il diritto del lavoro delle origini, 307 e 153. ↩
Leggo su → GuidaFisco.it che «“Impresa 1 Euro” è il nuovo modello di Società a Responsabilità Limitata Semplificata introdotto con il Decreto Monti sulle Liberalizzazioni, al fine di favorire l’accesso all’attività imprenditoriale da parte dei giovani entro i 35 anni di età. A differenza nella normale Srl la cui apertura è sottoposta a determinati requisiti tipo il versamento di capitale versato minimo di 10 mila euro, la Srl semplificata prevede caratteristiche particolarmente agevolate. Tali agevolazioni, riguardano sia l’ammontare del capitale da versare necessario per costituire la società (basta 1 euro), sia i costi di apertura, più bassi rispetto al tradizionale modello. Bisogna comunque tenere conto che le spese di gestione e le tasse annuali per Irap, Inail, Inps, concessioni governative, non prevedono riduzioni». ↩