di FRANCESCO FERRI.
(In riferimento al servizio d’ordine del Pci) Mi ricordo che molti avevano gli impermeabili scuri e gli ombrelli, e mi ha colpito il fatto che nessuno di noi aveva gli ombrelli anche se piovigginava (La cacciata di Lama dall’università, testimonianza di un compagno del movimento, Balestrini e Moroni, L’orda d’oro 1968-1977).
Primo Maggio tarantino, affollato dibattito mattutino sotto i pini che lambiscono il Parco Archeologico delle Mura Greche, accompagnato da un’inusuale e intensa pioggia. Più che l’ordine del discorso messo in scena dagli ospiti (tra i quali Cremaschi, De Marzo, Landini e → Mattei), sono i corpi che circondano in buon numero il tavolo degli interventi a rappresentare, attraversati da una palpabile tensione collettiva e da una suggestiva teatralità di massa, la portata del conflitto ai piedi delle ciminiere Ilva. L’inaspettata partecipazione di Landini – con le polemiche d’ufficio e le difese d’ufficio che accompagnano i suoi interventi – sembrano essere il contorno, scontato, di un piatto già condito. Certo, l’intervento del segretario generale Fiom in un’iniziativa organizzata da chi, Il comitato dei cittadini e lavoratori liberi e pensanti, ha fatto il suo debutto sulla scena politica (non solo) locale il 2 Agosto del 2012 interrompendo il comizio in piazza (anche) del leader sindacale metalmeccanico, è tutt’altro che irrilevante. È il segno, così netto da risultare inequivocabile, che con il paradigma, le problematicità e, perché no, le linee di fuga rappresentate dal caso Taranto è, allo stato attuale, impossibile non farne i conti.
Il generale, però, il significato complessivo dal dibattito e degli eventi organizzati in riva allo Ionio richiamano suggestioni dalla portata ampia e paradigmatica, consentendo l’individuazione di problemi e prospettive ormai consolidati ad ogni livello.
Vale la pena, quindi, non focalizzarsi sulle parole pronunciate dal leader Fiom (per altro, rientrarti nella più consolidata ritualità, con il richiamo ad un’accennata autocritica, sempre seguita dal “se abbiamo sbagliato”, come d’abitudine collocata in un futuro indefinito) e provare a concentrarsi, per esempio, sul numero, la forma e il colore degli ombrelli che spuntano fuori, a gruppi, col crescere della pioggia, colorando la platea degli spettatori, catturando l’attenzione e occupando la scena. È un esercizio costantemente utile, quello di riflettere intorno agli ombrelli, provando a valutare il portamento di chi li regge e le tattiche di riparazione dall’acqua di chi ne è privo. Infatti, intorno al tema della pioggia come meccanismo pervasivo che insidia le possibilità di autodeterminazione di un corpo, il suo desiderio di rimanere asciutto, o la libera scelta intorno al come e quanto bagnarsi, è possibile tracciare una demarcazione, abbastanza netta: c’è chi, sempre, è coperto da un ampio e confortante ombrello e chi è costantemente esposto – dalla storia e dalla politica – ad una pioggia torrenziale.
Quel che è certo è che in riva allo Ionio la categoria dei senza ombrello, per numero e drammaticità delle condizioni di vita, è di assoluta rilevanza. L’arte di vivere costantemente sotto l’acqua – in particolar modo quando essa è estremamente nociva – anche in una città nella quale secondo la retorica dominante dovrebbe spendere il sole, è un esercizio complesso e logorante. Per queste ragioni, l’appena accennata contestazione finale al segretario Fiom – che torna a invocare la nazionalizzazione dell’azienda nell’ottica della continuità produttiva – accompagnata da qualche epiteto poco raffinato, prodotta da chi da sempre l’acqua se la prende tutta in faccia, rientra nella natura delle cose. Per altro lo stesso Landini, certo, ha mostrato una buona dose di coraggio nel presentarsi in un luogo nel quale la sua presenza era, ai più, poco gradita. I meriti probabilmente, però, finiscono qui: Landini riproduce, non senza una certa verve che, a corrente alterna, si trasforma in palese insofferenza, il solito ordine del discorso, suo e con sfumature differenti anche delle altre rappresentanze metalmeccaniche, per il quale il futuro di Taranto dovrebbe ancora essere legato, nell’ipotesi formulata, alla produzione siderurgica: troppo poco per pensare di interloquire con tutti quelli che hanno l’acqua ormai all’altezza del ginocchio.
Dunque, gli ombrelli: i pochissimi dell’1% della classe degli sfruttatori perennemente al riparo dalla pioggia; quelli che pensano di riuscire ad accaparrarsi, nei meandri della rappresentanza, individualmente o in piccoli gruppi, una porzione di spazio a riparo dall’acqua; chi fa finta di bagnarsi insieme a quelli che stanno sotto, ma invece è completamente asciutto e, infine, i tantissimi che di acqua ne hanno già presa tantissima, e che contano di farne prendere la giusta dose anche a tutti gli altri.
Controcanto. La pioggia lascia il posto, nel pomeriggio, a un inaspettato sole, sfumando le differenze, con gli ombrelli ormai deposti. Il resto della giornata tarantina è la cronaca di un rito collettivo rilevantissimo, dentro ed oltre il concerto, così potente, anche in termini di pulsioni in direzioni alternative, da richiamare un’ampissima partecipazione – probabilmente oltre le centomila unità, per un evento autorganizzato e autofinanziato – da tutto il sud Italia. Grande era l’insidia: si rischiava di mettere involontariamente in scena una ritualità in rapporto di dipendenza, ancorché negativa, con la piazza romana. La distanza complessiva, in termini di energia collettiva evocata prima e materializzata poi tra i due appuntamenti – e ancor di più dal punto di vista delle finalità politiche che animano i rispettivi organizzatori – è risultata così netta da scongiurare la sindrome da soggezione, per opposizione, dalle stanche cerimonie confederali.
Il discorso sindacale (non solo) romano che, come un disco rotto, continua a pronunciare le parole giovani e lavoro non sembra avere interlocutori nelle infinite schiere dei senza ombrello che affollano il prato del Parco delle Mura Greche. La piazza di Taranto sembra essere, invece, uno dei nodi centrali per la sfida complessiva per la giustizia sociale e ambientale, insieme ai tanti e diffusi appuntamenti del Primo Maggio indipendente, in tutta Italia ed oltre, intorno al tema della precarietà.
Le insidie restano molte: al di là dei tristi appelli all’unità – aumentati, giocoforza, a fronte dell’ampissimo successo delle iniziative e provenienti anche da inaspettati pulpiti, anche dentro la rappresentanza – occorre affrontare il tema delle alleanze, alla ricerca di meccanismi collettivi per riconoscersi e coalizzarsi in tantissimi tra i senza ombrello. In quest’ottica, può risultare molto utile l’intervento di Bonelli che, durante l’assemblea mattutina, fa esplicito riferimento, come auspicio futuro, allo spettro di un capitalismo illuminato americano. Più che una gaffe è un involontario avvertimento: la green economy, lungi dall’essere un immediato terreno di liberazione della vita, è un efficace strumento di cattura delle energie collettive a favore dei profitti dei pochi.
Resta da capire, collettivamente, come connettere l’ampissima carica alternativa rappresentata dalla piazza tarantina con il corpo vivo della produzione sociale, abbandonando velocemente la logica da lungo elenco dovuto – studenti, operai, precari, lavoratori – ed entrando a piedi uniti nel terreno della precarietà come terreno comune di prossimità tra tutte le diverse specificità del 99%. Assumendo questa prospettiva, l’ipotesi di costruire un ordine discorsivo capace di (ri)edificare l’idea secondo la quale il lavoro possa essere un bene comune è così lontana dal cuore pulsante che agita la piazza (non solo) tarantina, da risultare un poco utile esercizio retorico. Come può un territorio martoriato dalla nocività della produzione, alienato da un’occupazione carente almeno quanto dannosa, tornare a flirtare con la prospettiva secondo la quale, con qualche aggiustamento in corso, dalla parola lavoro possa passare anche solo una porzione del progetto di emancipazione?
In ogni caso, se la pioggia aiuta nella difficile arte del tracciare corrette linee di demarcazione tra l’1% e il 99, è il fango – che viene dalla pioggia ma è già immediatamente altro, che allo stesso tempo sporca e colora tutti coloro che scelgono di starne in mezzo – presente in ogni dove nell’ampia zona del Parco Archeologico, a favorire il processo di riconoscimento tra simili e a consentire di intuire come dal pantano è, mai come ora, necessario e possibile uscirne insieme.