di ERNESTO VOCCOLI.
È previsto per il 15 settembre il termine della proroga per la procedura di vendita degli stabilimenti Ilva fissato inizialmente per il 30 giugno, esercitata dai commissari governativi per clausola contrattuale con “l’opportunità di rendere ulteriormente disponibile uno spazio di confronto al raggiungimento dell’accordo sindacale“.
È questo uno dei primi importanti spartiacque per il governo del cambiamento, per iniziare seriamente a dare forma e sostanza ad un eventuale nuovo corso in termini di politiche industriali, ambientali, sanitarie e di ascolto delle comunità locali, al momento del tutto difficili da intravedere.
Nel mezzo degli ultimi 6 anni, dai tempi del sequestro del sito di Taranto a seguito dell’inchiesta Ambiente Svenduto, ci sono ad oggi:
- Un ciclo produttivo definito criminogeno dalle perizie della procura, i cui impianti sono attivi, solo formalmente sequestrati e la cui proprietà è commissariata senza esproprio.
- 12 Decreti autoritari “salva –Ilva”, con i quali gli ultimi governi hanno sabotato l’azione della magistratura a favore della facoltà d’uso e della continuità produttiva ad ogni costo, rinviando costantemente nel tempo l’attuazione delle più importanti prescrizioni della già insufficiente AIA del 2012 che scadeva nel 2015.
- Una gestione commissariale funzionale all’indebitamento: 30 milioni di euro di perdite mensili e debiti totali pari a circa 3 miliardi di euro, di cui circa la metà è manco a dirlo con istituti bancari (Intesa, UniCredit, Banco Popolare).
- Migliaia di dipendenti che usufruiscono di ammortizzatori sociali e indotto ridotto all’osso.
- Immunità penale introdotta per i commissari e i futuri acquirenti, per cui chi inquina non paga.
- 8 Morti all’interno della fabbrica dal sequestro ed emergenza ambientale, democratica e sanitaria all’ordine del giorno dentro e fuori lo stabilimento (per citarne alcune: catena alimentare ancora compromessa; 3750 tonnellate di amianto mappate all’interno del sito e mai rimosse; continui aumenti tumorali; incidenti nei reparti all’ordine del giorno; ordinanze di divieto di gioco nelle aiuole del quartiere Tamburi; sino al caso dei famosi “wind days“, nei quali durante le giornate di forte vento proveniente da nord-ovest la libertà di movimento della popolazione di alcuni quartieri è limitata con appositi “suggerimenti” di chiusura nelle abitazioni e circolazione per strada, causa polvere di minerale in arrivo dal siderurgico).
- Svendita finale a nuovi privati (ArcelorMittal), socializzando costi e privatizzando i profitti tramite la divisione tra bad company e new company.
A un mese dal voto il premier Gentiloni butta anche in pasto all’opinione pubblica nazionale la definizione di progettazione e posa della prima pietra della copertura dei “parchi minerali”, con scadenza 2020: un’opera che sarebbe dovuta terminare nel 2015, dopo averne bonificato falda sottostante ed impermeabilizzato il suolo. Che sarebbe dovuta costare, secondo le stime della Procura all’indomani del sequestro del Luglio 2012, poco meno di 6 miliardi di euro. Ed invece ci ritroviamo, a febbraio 2018, di fronte ad un’opera dal costo di poco più di 300 milioni di euro, con dimensioni estese quasi simili a 28 campi da calcio, alta poco meno di 80 m, lunga 700 m e larga 260 m, che utilizzerà oltre 60.000 t di acciaio e 200.000 t di calcestruzzo [nell’immagine a destra].
Un’opera che modificherebbe per sempre il paesaggio di una città, che dovrebbe essere costruita utilizzando lo stesso acciaio prodotto dagli altiforni. Nessuna menzione invece sulla bonifica della falda, che continuerebbe così ad essere inquinata e a compromettere pezzi di catena alimentare.
Il punto, ad ogni modo, non è quello di coprire temporaneamente il minerale di ferro, ma di eliminarlo e di evitarne l’arrivo.
Ma ad interrompere su carta questo elenco della spesa della vita di una intera comunità immolata per 60 anni sull’altare coloniale gli interessi di stato e del privato, dell’economia finanziarizzata e del sottosviluppo come funzione dello sviluppo, gli esiti delle elezioni del 4 Marzo: a Taranto il Movimento 5 stelle prende poco meno del 50 % dei consensi al grido “chiudere Ilva”, e a pagina 13 del contratto di governo giallo-verde viene riportato che
Con riferimento all’Ilva, ci impegniamo, dopo più di trent’anni, a concretizzare i criteri di salvaguardia ambientale secondo i migliori standard mondiali a tutela della salute dei cittadini del comprensorio di Taranto, proteggendo i livelli occupazionali e promuovendo lo sviluppo industriale del Sud, attraverso un programma di riconversione economica basato sulla progressiva chiusura delle fonti inquinanti, per le quali è necessario provvedere a bonificare, e sviluppo della green economy, energie rinnovabili, economia circolare.
A dire il vero, nonostante quanto scritto nel contratto, è proprio dal momento della nomina di Luigi Di Maio a ministro dello sviluppo economico che l’atteggiamento sull’affaire Ilva inizia ad assumere una direzione quantomeno strana: per quanto a livello nazionale l’opzione della chiusura inizia a diventare di dominio pubblico, l’esecutivo sceglie di non politicizzare lo scontro sui temi della bonifica dei territori e di un modello radicalmente alternativo a quello a cui l’Ilva invece appartiene. Quello estrattivista dei combustibili fossili, del gigantismo industriale e di un mercato ormai in sovrapproduzione, del fordismo statale delle cattedrali nel deserto funzionali al governo del Mezzogiorno dal dopoguerra ad oggi; per trincerarsi invece dietro i vari passaggi giuridici nefasti prodotti da Calenda e dal Partito Democratico, e difficili ora da rimettere legalmente in discussione.
E così, cancellando mesi di campagna elettorale, spuntano le 32 mila pagine del dossier Ilva da dover leggere solo dopo essere stati eletti a guida del Paese per capire meglio la faccenda degli ultimi 6 anni, la funzione da arbitro nelle trattative tra ArcelorMittal e sindacati (o di ciò che tristemente ne rimane in questa vicenda), le audizioni dei movimenti per la giustizia ambientale senza proferire parola, il parere all’avvocatura dello Stato dopo i giudizi dell’Anac su potenziali irregolarità nella gara di aggiudicazione del sito, i continui impegni richiesti a livello ambientale e occupazionale alla multinazionale indiana (che tante contestazioni subisce in giro per il mondo) che poco ha da perdere allo stato attuale della trattativa.
Una specie di sonnambulismo narcotizzante, come con la Tap e la Tav, che rischia di essere fagocitato dagli interessi confindustriali e della Lega.
Anche a Taranto, come ad ogni latitudine, spetta nel frattempo ai movimenti continuare a condurre una battaglia politica e di verità su ciò che queste grandi opere continuano a significare in termini di reali interessi economici, di ingiustizia e razzismo ambientale e sociale.
Ormai da diversi anni l’organizzazione del Primo Maggio rappresenta uno dei palcoscenici principali delle battaglie per la supremazia del diritto alla vita contro la barbarie neoliberale del mito della crescita infinita in un mondo finito.
A fare da cornice al concertone di quest’anno c’è stata la presentazione del Piano Taranto (consultabile ⇒ qui), un piano di riconversione ecologica e sociale del territorio scritto da comitati, associazioni, movimenti cittadini, operai e dal sindacato di base Cub, che dimostra dati alla mano come l’esistenza dell’Ilva a Taranto, oltre a minare la vita dell’intero ecosistema, continui a risultare assolutamente sconveniente per chi lo abita (basti pensare che nonostante i diversi insediamenti industriali nel tarantino, il numero di disoccupati e inoccupati supera quello degli occupati).
Ma le tante grandi opere ingiuste e diseguali in giro per il Paese, le tante zone da mettere in sicurezza, da bonificare e da riconvertire, e le tante contraddizioni che con sé portano, stanno lì a sottolineare l’esigenza di una grande coalizione politica e sociale tramite la quale costruire agenda comune nei confronti del nuovo esecutivo giallo/nero/verde.
Una sfida non facile e con tante variabili avverse, in territori ridotti a zone di conquista, inquinati anche spesso a livello morale, sociale e culturale, in cui il ricatto occupazionale fa ancora comodo, nel tempo della precarietà, dello spopolamento e del neoliberismo, a chi vuole controllare le nostre vite. Che sia la criminalità organizzata come le grandi lobby.
Ma è dalla grandi sfide che partono i grandi cambiamenti, è occasione per tutte e tutti noi trasformare queste grandi crisi in opportunità. Ragionando su un modello nuovo radicalmente alternativo, democratico, con gli interessi delle comunità al centro, dove poter ragionare su un lavoro di qualità, di buona occupazione e sul cosa, come, quanto e per chi produrre. Di fronte all’evidenza delle trasformazioni tecnologiche in corso e della crisi climatica.
Contro ogni ipotesi negazionista, distribuendo la ricchezza ed eliminando per sempre il ricatto salariale.
Il tempo dell’attesa è evidentemente scaduto.