di GIROLAMO DE MICHELE.
Due eventi in apparenza distanti accadono a Taranto nei giorni in cui la nuova proprietà dello stabilimento siderurgico già ILVA, ora Arcelor/Mittal, comunica con una app gli esuberi dalla fabbrica, selezionando con cura gli operai più combattivi, e facendo in modo che gli operai residenti in città siano ridotti a un terzo del totale.
Il 5 novembre, in un giorno di forte pioggia, viene giù uno degli archi dell’antico acquedotto romano del Triglio, un tempo destinato a portare l’acqua in città e oggi condannato a segnare il confine fra la città e quelle cockerie che per sentenza del tribunale dovrebbero essere spente, e che invece sono ancora in funzione. In pochi (⇒ fra questi Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink) hanno rilevato il nesso fra il crollo e le emissioni della cockeria, che impastandosi con l’acqua piovana trasformano il carbonato di calcio in solfato di calcio, causando lo sgretolamento della pietra.
Il 21 novembre Palazzo Frisini, un tempo sede dello storico liceo scientifico Ferraris, e prima ancora di un orfanatrofio, collassa su se stesso: il soffitto si abbatte sui due piani sottostanti, trasformando un capolavoro architettonico in un rudere vuoto e pericolante. Era in disuso da decenni: come in disuso, imbracato dalle impalcature e privo di copertura, giace da anni in pieno centro il Palazzo degli Uffici, l’edificio monumentale che ospitava la sede storica del liceo classico Archita, e il cui degrado potrebbe essere ormai irreparabile. Due edifici un tempo scolastici, due palazzi enormi, al centro di una città che manca di un teatro e che è il più grande hub dell’accoglienza migranti al di fuori della Sicilia: ci sarebbe stato solo l’imbarazzo della scelta per destinare questi immobili a una funzione sociale.
Se la scuola in Italia non vive giorni felici, a Taranto essere scuola è un’impresa, che non sempre va a buon fine.
Attraversando il ponte girevole si entra nella Città Vecchia, la cui anticamera è stata recuperata con un’accorta operazione di gentrificazione che si conclude in piazza san Francesco, dove è stata collocata la sede universitaria intitolata ad Aldo Moro. Tutt’intorno, localini di ristorazione, locande, b&b. Ma basta spingere lo sguardo in fondo al vicolo Calò che costeggia l’università [vedi ⇒ questo video] per vedere il palazzo retrostante imbracato, privo di infissi, vietato al passaggio. Pochi metri ancora, e la parte rifatta di via Duomo perde il trucco e rivela le rughe di strade e palazzi in degrado, privi di servizi essenziali, in buona parte spopolati, con i portoni e finestre sbarrati. L’azienda municipale sostiene di non poter effettuare la raccolta del rifiuto per via delle strade troppo strette: eppure, quando una parte del borgo antico è stato ceduto in uso a Netflix per girarvi una fiction, con gravi disagi per i residenti, la raccolta è stata effettuata. Dall’università spostiamoci al quartiere Tamburi, così denominato per il rumore dell’acqua portata dall’acquedotto del Triglio, quando era il quartiere più salubre della città. Oggi è il tristemente noto quartiere delle polveri rosse, uno dei luoghi più inquinati d’Europa, a ridosso della Fabbrica. Su via Grazia Deledda c’è un edificio di proprietà della provincia, che avrebbe dovuto ospitare il liceo artistico nel 2013: l’alta concentrazione di polveri e inquinanti ha dissuaso l’amministrazione, che avrebbe avuto un notevole risparmio nel trasferire il plesso da un edificio in affitto a uno stabile proprio. Nella stessa via, la scuola elementare intitolata alla scrittrice sarda premio Nobel, costruita al limite del quartiere per contrastare la migrazione scolastica in altri rioni: la sua inaugurazione è stata uno dei rari interventi di urbanistica sociale in una città nella quale l’edilizia ha prodotto scempi secondi solo a quelli del centro siderurgico.
Soffocata da polveri e diossine, la scuola è costretta a vietare a bambine e bambini l’uso del cortile e delle aiuole, perché la concentrazione di polveri supera di gran lunga il limite massimo consentito. Non è l’unica scuola a patire la presenza della fabbrica. Nelle scuole Deledda, Vico e De Carolis, su 121 ambienti esaminati ben 27 sono risultati afflitti da una presenza di gas radon superiore ai limiti previsti per i luoghi di lavoro. Non è certa la causa di tale massiccia esalazione di un gas che è sì generato dalla crosta terrestre, ma non in queste quantità: è però certo che sotto i piedi degli abitanti dei Tamburi passano tubature che convogliano, non è chiaro dove, i rifiuti di quello che l’ex governatore Vendola definì “il polmone produttivo” della regione, in un memorabile intervento del 2010 riportato ⇒ dalla rivista dell’ILVA Il Ponte nel maggio 2011, p. 22:
Chiesi ad Emilio Riva [l’allora proprietario dell’ILVA], nel mio primo incontro con lui, se fosse credente, perché al centro della nostra conversazione ci sarebbe stato il diritto alla vita. Credo che dalla durezza di quei primi incontri sia nata la stima reciproca che c’è oggi. La stessa che mi ha fatto scendere in campo contro il referendum per la chiusura del “polmone produttivo” della Puglia.
Poco oltre la fabbrica, fuori Statte, c’è la gravina Leucaspide, dal cui suolo affiora di continuo catrame fresco. Dopo anni di denunce, la gravina è stata infine sequestrata come discarica abusiva della Fabbrica. Che fare delle scuole al radon? Il consiglio delle autorità sanitarie è stato di tenere aperte le finestre per arieggiare. Peccato che lo stesso quartiere debba, quando il vento soffia e vengono proclamati i wind days, tenere quelle finestre chiuse, per via delle polveri rosse. Peccato anche che il vento non consideri quei confini che gli uomini credono di creare con porte e finestre.
E neanche il confine fra i vivi e i morti: nel cimitero di san Brunone – che fa da divisorio fra la Fabbrica e la città – le lapidi vengono commissionate in granito rosa, che tanto se fossero bianche sarebbero subito colorate dalla polvere. Neanche i morti sono al sicuro, a Siderlandia.
In attesa di sapere la causa del gas, e anche il rimedio, i genitori hanno cominciato a trasferire altrove i propri figli: col rischio che le scuole dei Tamburi chiudano per insufficiente numero di iscritti. Lo stesso destino ha colpito la scuola elementare alle Case Bianche di Paolo VI, il quartiere che fu costruito per dare case vicino alla Fabbrica agli operai, intitolato al papa che celebrò la messa di Natale nell’Italsider, davanti a un altare costruito dagli operai, con in testa il caschetto protettivo da metalmeccanico. La scuola media Ungaretti è stata per anni l’unico presidio di civiltà in un rione privo di tutto. Saccheggiata e vandalizzata più volte per farla chiudere – perché, si diceva, c’erano interessi edilizi, si parlava di un centro Benessere (dietro l’ILVA!); o perché dava fastidio – la scuola Ungaretti ha resistito alla malavita, ma non alla burocrazia; le classi rimaste sono state accorpate a un altro plesso, in nome del principio del dimensionamento scolastico: quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini. È una storia che è stata raccontata da Alessandro Leogrande in uno dei suoi ⇒ ultimi scritti su Taranto, perché il vicario del preside di quella scuola, che a volte per difenderla ci dormiva dentro, era suo padre Stefano, che merita di essere ⇒ ricordato.
Così è messa Taranto: come l’astronauta di Alien il cui volto è catturato dal mostro che, mentre lo tiene in una vita apparente e artificiale – ma solo perché il mostro ha bisogno di nutrirsi – lo uccide in modo lento e inesorabile. Il polo siderurgico è cresciuto succhiando energie ai cantieri navali e all’Arsenale; la speculazione edilizia creata dalla costruzione dell’Italsider ha fatto proliferare quartieri-dormitorio che spopolano e fanno degradare la città preesistente. Alcuni bravi giornalisti – Antonio Cederna nel 1972, Walter Tobagi nel 1979, e più di recente Adriano Sofri nel 2013 – scesero a Taranto, osservarono, e dissero tutto quello che c’era da dire. Leggere i loro articoli è vivere l’esperienza di un déjà vu: non capisci se quello di cui narrano è il passato, o quel presente che ha trovato narrazioni giornalistiche di pari valore – una fra tutte, quella di Gianmario Leone.
Soffocata a occidente dall’enorme zona industriale e a oriente da una sgangherata espansione edilizia, Taranto offre oggi al visitatore uno spettacolo raccapricciante, esempio da manuale di che cosa può produrre il sonno della ragione, cioè il sistematico disprezzo per le norme elementari del vivere associato nel nostro tempo. Quartieri popolari spietatamente affumicati dall’industria, il centro storico in vergognose condizioni di abbandono, il borgo otto-novecentesco sopraelevato da quattro a nove piani, un traffico più paralizzato che a Roma, carenze dei servizi essenziali, la totale mancanza di verde pubblico, il Mar Piccolo inquinato, e via dicendo: Taranto “moderna” si presenta come la smentita di ogni decenza urbanistica.
Così Cederna presentava sul Corriere della sera la Taranto strangolata dal «boom». Era il 18 aprile 1972: e non ci sarebbe altro da aggiungere, se non che il giornale che gli ospitò il reportage è stato in prima fila nel difendere la presenza della fabbrica e nel denunciare come nemici del progresso i cittadini, e fra loro anche una parte degli operai, oggi colpiti dalla mannaia del licenziamento selettivo. Operai che si sono battuti e si battono per liberare la città dalla servitù di una fabbrica, di un modello di sviluppo, di un assoggettamento a una pianificazione coloniale che nega il diritto alla salute e alla vita, e soprattutto all’autodeterminazione del meridione.
Un modello di sviluppo, oltretutto, che non è più redditizio, se non per le produzioni inquinanti che consentono ad altri centri produttivi di operare in “pulizia”, o di estrarre dal lavoro produttivo del sud una rendita industriale o commerciale interamente destinata al nord.
Nei fatti, la “speranza” di una fuoriuscita dalla subalternità generata dalla costruzione del centro siderurgico si è rivelata una trappola: lo testimoniano in modo inequivocabile le voci raccolte da Marta Vignola nella sua inchiesta ⇒ La fabbrica. Memoria e narrazioni nella Taranto (post)industriale, Meltemi, 2017. Una città, non lo si ricorda abbastanza, afflitta anche da quella subdola violenza sulle donne, dunque di genere, che sono i tumori femminili, che incidono in percentuali superiori alla media nazionale: a Siderlandia, persino dire Non Una Di Meno non è né facile, né banale.
Questo testo è stato pubblicato il 9 novembre 2018 su ⇒ Jacobin Italia