Di SIMONE PIERANNI.

Nel giugno del 2018, Yan Xuetong, il direttore dell’Istituto per le relazioni internazionali alla Tsinghua University (una delle più prestigiose, nella quale si forma l’élite del paese) ha rilasciato un’intervista a Reference News, giornale dell’agenzia di stampa statale Xinhua, nella quale ha ripetuto quanto costituisce il cuore del suo pensiero: il mondo attraversa un periodo di caos dovuto alla «redistribuzione» del potere all’interno di nuovi equilibri mondiali; è quanto accade, sostiene Yan, quando una potenza leader inizia una fase discendente, a fronte dell’arrivo sulla scena di una nuova potenza.

L’esito di questo passaggio porterà a un nuovo bipolarismo, nel quale la minaccia di guerre vere sarà sublimato da scontri feroci – e perduranti nel tempo – di natura economica.

Una volta raggiunto il bipolarismo, secondo Yan, si dovrà ragionare sul concetto di «Occidente», che in origine era «un concetto geografico» per divenire poi «un concetto culturale», e sulla scia della guerra fredda è diventato «infine un concetto politico».

Quando i paesi occidentali «non influenzano più la politica internazionale in modo unitario (perché divisi anche al loro interno o all’interno delle proprie alleanze ndr), il concetto politico di Occidente non sarà più oggettivamente adatto allo studio delle relazioni internazionali».

La Cina traina da tempo l’Asia; lo fa, in particolare, dall’epoca Han, quando l’emissario imperiale Zhang Qian – benché inviato con altri intenti, ovvero stipulare un’alleanza con una popolazione nomadica contro un’altra popolazione nomadica- aprì la Cina al commercio estero, catapultando l’Impero sulla scena mondiale. Fu l’epoca della «scoperta» cinese della Via della Seta: «da allora – ha scritto il sinologo Kai Vogelsang – la storia della Cina è una parte della storia dell’Asia».

Oggi – benché l’Occidente tenti di resistere in modi diversi, dal protezionismo, al nazionalismo, fino alla chiusura dei confini e al ritorno di revanscismi e xenofobia – il centro del mondo si è inesorabilmente già spostato in Asia.

Molte delle analisi e stime per il futuro ritengono che entro il 2030, o al massimo nel 2050, tra le cinque economie più forti al mondo ci saranno Cina, India e Indonesia (e Turchia e Usa). Entro il 2050 secondo alcune proiezioni dell’Asian Development Bank «il reddito pro capite in Asia potrebbe aumentare di sei volte in termini di parità di potere d’acquisto». In questo modo oltre tre miliardi di asiatici saranno «benestanti».

Il continente raddoppierà così la sua quota del prodotto interno lordo globale, portandola al 52 per cento. Secondo il report Asia 2050, Realizing the Asia century pubblicato nel 2011 dall’Asian Development Bank, «l’Asia riacquisterà la posizione economica dominante che deteneva circa 300 anni fa, prima della rivoluzione industriale». Tesi confermata anche da Parag Khanna nel suo ormai celebre Il secolo asiatico? (Fazi editore, 2019): fino a metà 1800 India, Giappone e Cina «hanno generato collettivamente un prodotto interno lordo superiore a quello degli Stati uniti, del Regno unito, della Francia, della Germania e dell’Italia messe insieme».

Poi è arrivata la rivoluzione industriale e la conquista coloniale da parte delle potenze europee.

La redistribuzione del potere economico globale dell’Asia – come lo chiama Yan Xuetong – «potrebbe verificarsi un po’ più rapidamente o lentamente, ma la direzione generale del cambiamento e la sua natura storica sono chiare», secondo un documento del 2015 della PricewaterhouseCoopers«stiamo vivendo un ritorno al mondo com’era prima dell’ascesa dell’Occidente».

Come sottolinea lo studioso Peter Frankopan (ne Le vie della seta, una nuova storia del mondo, Mondadori, 2019), «a giudicare dai dati della Banca mondiale e dell’Ocse, nemmeno una delle dieci economie sviluppatesi più rapidamente nel 2017 si trova nell’emisfero occidentale».

Per questo, secondo Frankopan e non solo, anche «gusti, mode e tendenze si decideranno in Oriente, non in Occidente».

Un altro modo per riscontrare il tumulto di questo nuova «epoca asiatica» ai suoi albori, è osservare quanto accade nel settore che più di tutti pare trainare questo «passaggio», ovvero quello tecnologico. Sappiamo bene dell’avanzamento in questo campo della Cina, ormai inserita in un confronto diretto con gli Stati uniti; ma – come specificato in precedenza – Pechino costituisce ormai una sorta di «rappresentante» del nuovo potere asiatico in via di formazione.

Per quanto riguarda Pechino basti per tutte la sua immane trasformazione – avvenuta negli ultimi trent’anni – da un’economia basata sull’industria manifatturiera per l’esportazione a una basata sui servizi. Per il Fondo Monetario internazionale si è trattato della transizione da «una crescita ad alta velocità a una crescita di alta qualità». Oggi la Cina non rappresenta più il paese dei fake e delle copie, bensì un luogo di grande sperimentazione e di tendenze.

Si pensi soltanto a WeChat, l’applicazione che da tutti viene vista come leader indiscussa dei pagamenti on line e in grado di determinare anche le linee di sviluppo futuro di giganti occidentali come Facebook.

O ancora, si pensi a tutto il mega impianto securitario, utile al partito comunista per gestire l’interno del paese e per esportare tecnologia «intelligente» ormai in tutto il mondo.

Ma la Cina, la Corea del Sud e il Giappone costituiscono, seppure in modo diverso, ormai delle certezze nel mondo tecnologico e – in parte – sullo scenario mondiale, in termine di «potere» e influenza. Ma a rendere forte come in passato l’Asia, oggi, è una delle aree più in espansione, quella del Sudest asiatico, come ha confermato alla Nikkei Asian Review Levana Sani, 26enne co-fondatrice della startup tecnologica di Jakarta Nalagenetics.

Levi è solo una tra le ormai numerose «tartarughe del Sudest asiatico», ovvero persone che «dopo aver studiato o lavorato all’estero, stanno tornando a casa attratte dalla crescente scena tecnologica della regione e scoraggiate dalle politiche di immigrazione statunitensi più severe sotto il presidente Donald Trump».

Il termine «tartarughe marine» (Sea turtles, dove «Sea» è anche South East Asia) è una paranomasia coniata in Cina «all’inizio degli anni 2000 per descrivere l’ondata di rimpatriati».

L’espressione cinese è hai gui laddove hai significa «oceano» e gui «tartaruga», è omofono del gui che significa «ritorno». Si tratta di un fenomeno che in Cina ormai è in corso da anni a completare il ritorno a casa di competenze, talenti e know how.

L’economia digitale della regione «è in procinto di superare i 240 miliardi di dollari, ovvero l’8% del Pil, entro il 2025. Per fare un confronto, l’economia digitale nel 2016 ha rappresentato il 6,5% del Pil degli Stati uniti».

La crescita inarrestabile dei viaggi online, dell’e-commerce ha aiutato «il Sudest asiatico a produrre almeno 14 unicorni (aziende private valutate oltre 1 miliardo di dollari) negli ultimi anni». Tra di loro ci sono Grab e Go-Jek, entrambe fondate da «tartarughe» – ed entrambe valutate per oltre 10 miliardi.

Questo enorme potere economico – unito a una forza demografica che eccetto Cina e Giappone produrrà numeri rilevanti in futuro (e società giovani) – insieme alla capacità di altri paesi di ammortizzare anche scontri aperti come quello tra Cina e Usa (Cambogia, Laos, Myanmar e Thailandia) produrrà, naturalmente, una questione di governance mondiale.

E in questo caso il pallino tornerebbe nuovamente alla Cina, unico paese all’interno del continente a porsi in modo chiaro la problematica di gestire un mondo con nuovi equilibri geopolitici. Già nel gennaio 2017 con l’apertura dei lavori di Davos da parte di Xi Jinping (la prima volta per un presidente cinese) un segnale era stato mandato forte e chiaro: la Cina, aveva spiegato Xi, è per la globalizzazione e contro i protezionismi; un riferimento che andava a colpire gli Usa del neo eletto Trump ma che tentava di rassicurare tutti.

L’approccio di Xi in politica internazionale è deciso ma sa essere anche cauto e tende sempre a considerare rilevante la percezione degli altri paesi della Cina.

Ya Xuetong è considerato un «neo-comm», un «neo-con con caratteristiche cinesi»; si tratta di una semplificazione che non tiene conto la complessità, gli schieramenti all’interno del dibattito cinese e le sue apparenti contraddizioni. Yan è stato spesso molto critico anche con il partito comunista, proprio per alcuni suoi atteggiamenti in tema di politica interna, che mal si abbinavano all’immagine esterna che la Cina sta tentando di dare al mondo.

Come ha scritto il The Diplomat «Yan crede che i grandi paesi che cercano rispetto dalle controparti internazionali possano esercitare “autorità umana” (wangdao) mentre coloro che minacciano i loro vicini esercitano “egemonia” (badao)».

Nel disegno di Yan tra i primi c’è sicuramente la Cina, tra i secondi ci sono sicuramente gli Usa. Tutto questo rientra nella sua teoria del «moralismo realista» secondo il quale l’atteggiamento umano e morale della leadership all’interno e all’esterno è ormai – oggi – determinante nell’ascesa o declino delle potenze (teorie esposte in modo sistematico nel suo ultimo libro, Leadership and the Rise of Great Powers, Princeton, 2019 (nella ottima collana diretta da Daniel Bell).

A Pechino del resto – anche all’interno del partito comunista – si discute molto più di quanto si pensi di futuri assetti mondiali e ad ora, nell’equazione ormai trentennale cinese tra politica ed economia, la risposta principale è sicuramente la Nuova Via della Seta (One Belt One Road), un progetto che Pechino continua a propagandare come «win-win» per chiunque ne prenda parte (ormai mezzo mondo) ma che di fatto punta a un controllo commerciale da parte della Cina delle principali rotte economiche mondiali.

Ma attenzione a sottovalutare l’analisi politica che il partito comunista compie costantemente circa la propria visione del mondo, presentata all’esterno con l’espressione (rassicurante) di «comunità dal destino comune», come più volte ha enunciato Xi Jinping.

La grande lezione del periodo pre Qin è riassumibile in questo enunciato: «il successo di una potenza in ascesa arriva quando la sua leadership politica è più forte di quella dei paesi dominanti».

Xi Jinping è un leader che ha più potere di qualunque suo predecessore, ma dovrà saper gestire, come dovrebbe fare anche l’attuale presidenza americana, i suoi «falchi».

Lo stesso Xi Jinping ha bocciato, di recente, l’idea che il confronto tra Cina e Usa riguardi due idee diverse di civiltà, salvo, ancora di recente, proprio durante le proteste di Hong Kong, ricordare ai quadri del partito l’importanza della fedeltà ideologica. Xi sa bene che un paese stabile e unito nel concedere al partito la guida totale, sarà più forte delle democrazie falcidiate dai «voti di pancia» e da una informazione completamente incontrollata (secondo i canoni cinesi).

Ma lo stesso Xi è stato avvicinato al legismo (più che al confucianesimo) considerando che una sorta di mantra dell’epoca Qin (durante la quale il legismo di fatto era la dottrina ufficiale dell’Impero) è ormai diventato un motto in grande spolvero anche nella «Nuova era» di Xi: «arricchire lo stato e rafforzare l’esercito» (fuguo qiangbing) a dimostrare come la dirigenza cinese tenga aperto ogni spiraglio: tanto quello della sua forza politica – in grado di sovrastare i rivali – quanto quella della sua forza militare (sempre più un deterrente soprattutto in Asia per eventuali potenze malintenzionate).

In generale – inoltre – nella riflessione cinese, si parte sempre da una constatazione: considerare il sistema politico cinese più efficiente, migliore e meritocratico di quello occidentale.

Nel 2016 Zhang Weiwei, professore di relazioni internazionali alla Fudan University (anch’egli considerato un nazionalista ma al riguardo vale la stessa considerazione fatta per Yan Xuetong) e autore della trilogia Zhongguo Chudong(«The China Ripple»), Zhongguo Zhenhan («The China Wave») e Zhongguo Chaoyue («The China Horizon»), proprio nell’ultimo volume ricorda che «mentre i politici occidentali pensano a un arco temporale di cento giorni, Deng Xiaoping (di cui Zhang è stato interprete ndr) ragionava nell’arco di cento anni».

Una sottolineatura importante nel momento in cui ci si chiede se la Cina arriverà mai a riforme politiche come vorrebbe gran parte del mondo occidentale. Finché ci sarà il partito comunista la risposta è no, perché Pechino è semplicemente convinta che per la Cina, per le sue caratteristiche storiche e politiche, il suo sistema sia il migliore.

E come tale, però, sa bene che non è esportabile. Anche per questo la globalizzazione a guida cinese potrebbe davvero essere differente rispetto a quella trainata dagli Stati uniti.

I più scettici ricordano le procedure che sembrano ormai accelerare per quanto riguarda una potenziale base militare in Asia, mettendo dunque in dubbio la propagandata «ascesa pacifica» di Pechino.

Ma sarà l’interno del paese, ovvero quanto accadrà nel partito e nel procedere del suo dibattito, che sa fare proprie anche istanze che arrivano dal mondo intellettuale, a determinare la sua postura geopolitica e decidere se in futuro prevarrà – come si vuol fare credere adesso – la volontà di essere una guida «umana», anziché «egemonica».

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 10 luglio 2019.

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