di MARCO BASCETTA.

 

Alla vigi­lia di ogni legge di sta­bi­lità il dibat­tito sulla pres­sione fiscale ritrova un suo asfit­tico momento di vita. Dif­fi­cil­mente si spinge però oltre una mate­ria buona per dema­go­ghi e com­mer­cia­li­sti. Un pen­siero forte sulla fisca­lità sem­bra fermo da decenni e, soprat­tutto, sal­da­mente anco­rato a una destra che sa bene quello che vuole. Gli si oppone da sini­stra, con spi­rito egua­li­ta­rio e scarso ascolto poli­tico, la denun­cia della «regres­si­vità» del sistema fiscale e la pro­po­sta di un suo rivo­lu­zio­na­mento por­tate avanti da Lan­dais, Piketty e Saez1.

Sul fronte oppo­sto, per quanto dete­sta­bili, i nipo­tini di Hayek, hanno saputo dimo­strare un certo rigore e inse­diarsi sta­bil­mente nell’orientamento di poli­ti­che gover­na­tive impe­gnate nella com­pe­ti­zione per la migliore offerta di van­taggi fiscali. Il loro totem, la cele­bre «curva di Laf­fer» nella quale si dimo­stra che oltre un certo limite di impo­si­zione fiscale il get­tito decre­sce per­ché decre­sce­rebbe l’imponibile più rapi­da­mente dell’aumento dell’imposta, sta ancora in piedi, sia pure in virtù di bru­tali rap­porti di forza. Anche se l’ipotesi para­dos­sale da cui muove, secondo cui una impo­si­zione del 100% cor­ri­spon­de­rebbe alla disin­cen­ti­va­zione di qual­siasi atti­vità è banal­mente incon­tro­ver­ti­bile, almeno in una eco­no­mia di mercato.

Da qui discende, per vie non pro­prio lim­pide, l’avversione per qual­si­vo­glia pro­gres­si­vità fiscale, la difesa dei patri­moni e delle ren­dite, il dirot­ta­mento dell’imposizione verso i con­sumi, il con­cetto che il wel­fare se lo devono pagare soprat­tutto quelli che ne usu­frui­scono (e dun­que non i più ricchi).

Insomma la destra, sul fisco, ha le idee assai chiare.

Del resto non pochi governi di sini­stra hanno fatto ricorso, in forma più o meno miti­gata, a que­ste stesse ricette. Cir­co­stanza che acui­sce la neces­sità delle sini­stre di governo, quando non inte­gral­mente con­ver­tite al libe­ri­smo, di distin­guersi in qual­che modo dalle poli­ti­che fiscali della destra, soste­nendo il valore, per l’evoluzione della società in gene­rale, di un’alta impo­si­zione fiscale. Almeno fin dove il con­senso non ne risulti troppo minacciato.

Su la Repub­blica l’ex mini­stro Vincenzo Visco2 ten­tava qual­che tempo fa di elen­care gli ele­menti discri­mi­nanti: la pro­mo­zione del wel­fare e la sua gestione sta­tale che garan­ti­rebbe attra­verso la ridu­zione dei rischi indi­vi­duali mag­giore effi­cienza e pro­dut­ti­vità, oltre alla ridu­zione delle dise­gua­glianze. Alla quale dovrebbe prov­ve­dere anche una poli­tica di pro­gres­si­vità fiscale. A que­sto insomma «ser­vono le tasse».

Fatto sta che né della pro­gres­si­vità fiscale e men che meno della ridu­zione delle dise­gua­glianze, che al con­tra­rio sono cre­sciute a dismi­sura, si è vista trac­cia alcuna nel cre­pu­scolo «miglio­ri­sta» delle socialdemocrazie.

Sulle colonne di que­sto gior­nale, il 29 set­tem­bre, Roberto Romano3 sot­to­li­neava la rela­zione diretta tra diritti e pre­lievo fiscale: «Dove esi­ste un’adeguata pres­sione fiscale si osserva un ade­guato stato sociale e tassi di cre­scita media­mente più alti». E, cer­ta­mente, per buona parte del Nove­cento in diverse eco­no­mie avan­zate que­sto nesso è stato ben visi­bile (lo è ancora in alcune eco­no­mie forti del nord) e il rap­porto tra wel­fare e pre­lievo fiscale effettivo.

Ma le tasse ser­vono ancora così prio­ri­ta­ria­mente a que­sto scopo?

A giu­di­care dalla vicenda greca e dalle pre­scri­zioni fiscali della Troika, fon­date sull’assunto che i cit­ta­dini greci ave­vano vis­suto «al di sopra dei pro­pri mezzi», con­ver­rebbe dubi­tarne. Dopo i pro­cessi di finan­zia­riz­za­zione che hanno ridi­se­gnato l’economia glo­bale e asse­gnato nuovi com­piti agli stati nazio­nali si può ancora descri­vere la fisca­lità in que­sti termini?

La fac­cenda è tutt’altro che sem­plice. Ma intanto ci si deve porre una domanda: per­ché mai l’aumento della pres­sione fiscale non è stato accom­pa­gnato da un raf­for­za­mento del wel­fare, ma, al con­tra­rio, dal suo ridi­men­sio­na­mento, da una raf­fica di pri­va­tiz­za­zioni e spen­ding review, da una ridu­zione costante dei diritti del lavoro?

Per atte­nerci alla sola serie sto­rica ita­liana, la pres­sione fiscale è pas­sata dal 30 al 45% tra il 1980 e il 2014 e certo non si può dire che le dise­gua­glianze siano dimi­nuite e i diritti aumen­tati in que­sta stessa misura. Piut­to­sto, all’aumento delle impo­ste si è accom­pa­gnato negli ultimi anni l’impoverimento dei ceti medio-bassi.

Se si met­tesse a con­fronto la sto­ria del wel­fare e quella della fisca­lità in diversi paesi euro­pei c’è da scom­met­tere che il nesso tra que­sti due ele­menti risul­te­rebbe tutt’altro che lineare. Per­ché, come è apparso evi­dente con la crisi dei debiti sovrani e con l’enorme flusso di denaro desti­nato a rica­pi­ta­liz­zare sistemi ban­cari dediti al gioco d’azzardo, la fisca­lità è diven­tata uno stru­mento deci­sivo di garan­zia e con­ti­nuità della ren­dita finanziaria.

Il fab­bi­so­gno degli stati non è certo ridu­ci­bile al man­te­ni­mento del wel­fare. Cor­ru­zione, clien­tele, caste, spre­chi , eva­sione, cer­ta­mente inci­dono, ma non costi­tui­scono affatto una spie­ga­zione esau­riente. Il fisco, e soprat­tutto la tas­sa­zione indi­retta, è infatti anche un tra­mite, sem­pre più impor­tante, nel tra­sfe­rire parte della ric­chezza social­mente pro­dotta (fuori dai rap­porti sala­riali, dai mer­cati con­trol­la­bili e spesso da ogni forma di retri­bu­zione) nel cir­cuito finan­zia­rio e nei canali di una redi­stri­bu­zione delle risorse indi­riz­zata verso l’alto: la «regres­si­vità fiscale» di cui scrive Piketty, ossia la pro­te­zione degli alti red­diti e dei grandi patrimoni.

I difen­sori dei pro­fitti e delle ren­dite, ricon­dotti alla cate­go­ria del «rispar­mio», sup­po­sto dispo­ni­bile a tra­sfor­marsi in «inve­sti­mento», giu­sti­fi­cano la loro avver­sità alla tas­sa­zione pro­gres­siva con l’argomento dell’occupazione: se il tor­na­conto dei datori di lavoro dovesse peg­gio­rare, la domanda di lavoro ne sof­fri­rebbe. Ma il costo del lavoro è deci­sa­mente soprav­va­lu­tato, per ragioni in parte ideo­lo­gi­che, tra i fat­tori di quella ridu­zione dell’occupazione strut­tu­ral­mente incar­di­nata nelle tra­sfor­ma­zioni del modo di pro­du­zione stesso. Nes­sun impren­di­tore, se il mer­cato non «tira», sarà dispo­sto a impie­gare lavoro, sia pure for­te­mente «detas­sato». E se lo sconto non finirà anche, signi­fi­ca­ti­va­mente (altro che 80 euro), nelle tasche dei lavo­ra­tori, i con­sumi, già ber­sa­glio pre­di­letto dell’ideologia fiscale libe­ri­sta, lan­gui­ranno e il mer­cato in conseguenza.

Il pro­blema non sem­bra pre­oc­cu­pare le sini­stre di governo, impe­gnate nel festeg­giare rumo­ro­sa­mente mode­sti quanto effi­meri incre­menti del tasso di occu­pa­zione a fronte di van­taggi e poteri sem­pre mag­giori con­cessi agli impren­di­tori. Inol­tre, se il bacino del lavoro sala­riato si con­trae, biso­gnerà tro­vare altre fonti di introito fiscale. La per­se­cu­zione del lavoro auto­nomo e pre­ca­rio di massa, privo di ogni tutela, è una di que­ste. L’altra è quella pic­cola pro­prietà (abi­ta­zioni, auto), in larga parte ipo­te­cata da ban­che e finan­zia­rie che, non essendo fonte di ren­dita (quella cata­stale è una pura espres­sione meta­fi­sica) è di fatto indi­stin­gui­bile dal con­sumo, puro e sem­plice valore d’uso.

Con il che ritor­niamo al prin­ci­pio ultra­li­be­ri­sta secondo cui non il pos­sesso o il rispar­mio (valore di scam­bio) devono essere tas­sati ma, appunto, l’uso. Per dirla con una for­mula è pro­ba­bil­mente la «tas­sa­zione della vita», nel suo svol­gersi indi­vi­duale e col­let­tivo, una nuova impor­tante leva dell’estrazione di valore. Cosic­ché la disputa se debba essere detas­sata la prima casa o il lavoro è di assai scarso interesse.

Le domande deci­sive sono tutt’altre. Che cosa dav­vero ali­men­tiamo con le nostre tasse? Che ruolo svolge oggi il pre­lievo fiscale nel pro­cesso di accu­mu­la­zione? Si deve con­ti­nuare a rite­nere lo stato il pro­ta­go­ni­sta prin­ci­pale della spesa pub­blica o con­qui­stare spazi cre­scenti di auto­ge­stione delle risorse? E, infine, esi­ste ancora, e in quali forme, una pos­si­bi­lità di con­trollo demo­cra­tico sull’imposizione e la spesa? Ha senso con­ti­nuare a igno­rare, magari nell’illusione di poterli con­trap­porre, il rap­porto tra capi­tale finan­zia­rio e sovra­nità statali?

Per come stanno oggi le cose, le ragioni di Masa­niello e di tutte le classi popo­lari che per secoli si sono rivol­tate con­tro dazi e gabelle, desti­nati a ripia­nare i debiti con­tratti dalle corti con i ban­chieri dell’epoca per finan­ziare i pro­pri sfarzi e le pro­prie guerre, non sem­brano affatto superate.

Le forme cam­biano, ma l’espropriazione resta.

 

 

*pubblicato su il Manifesto del 6 ottobre 2015.

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  1. Per una rivo­lu­zione fiscale, La scuola, 2014 

  2. http://www.repubblica.it/politica/2015/07/20/news/visco_la_vera_battaglia_e_contro_l_evasione_e_renzi_sta_zitto_-119454013/ 

  3. http://www.ilmanifesto.info/ma-meno-tasse-non-e-stare-meglio/