Da ormai due mesi la Francia è il teatro del più grande sciopero sociale d’Europa. Per contrastare la loi El Khomri centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici hanno effettivamente incrociato le braccia e nuovi scioperi stanno continuando a interrompere la produzione e i servizi. I flussi dei trasporti, delle merci e del petrolio, con il blocco prolungato delle raffinerie, sono terreno di lotta in tutto il paese. L’opposizione alla riforma del mercato del lavoro ha innescato una politicizzazione di massa a partire dal rifiuto del dominio capitalistico sul tempo presente e sul futuro di intere generazioni. Lo sciopero in Francia non è solo una pratica istituzionalizzata nell’iniziativa sindacale, ma vive nelle strade e nelle piazze animando un movimento che, al di là del suo radicamento locale e della sua opposizione a una legge nazionale, si rivolge all’Europa. «Imparare dalla Francia» significa per noi metterla al centro di un ragionamento sulle possibilità e i limiti di un’esperienza che pone il problema di forzare il blocco dell’iniziativa politica dei movimenti, di pensare l’Europa come terreno minimo di iniziativa e di portare lo sciopero sociale sul piano transnazionale.
La mobilitazione francese coniuga il tempo dello sciopero e quello della sollevazione. Nella mobilitazione contro la loi travail, infatti, questi tempi coincidono, perché gli scioperi sono essi stessi una grande sollevazione contro il disegno di legge e perché l’occupazione di Place de la République e di decine di piazze in tutta la Francia è nata e si è sedimentata proprio sull’onda dei primi grandi scioperi. In questo senso, lo sciopero è un evento produttivo, che non si esaurisce nella momentanea rottura di un rapporto di forza nei luoghi di lavoro. Esso permette la costituzione di uno spazio politico nel quale centinaia di migliaia di uomini e donne possono far valere le loro pretese, al punto che il governo Valls – grande appassionato di procedure d’urgenza – è dovuto ricorrere all’articolo 49.3 della costituzione per superare l’ampia opposizione alla legge e reprimere, con una ferocia tanto ostinata quanto inefficace, ogni grande mobilitazione. Se la lotta contro la loi travail et son monde non è solo la lotta contro una misura di legge, ma contemporaneamente il rifiuto di un destino di precarietà e oppressione, allora è necessario pensare al movimento francese nel tempo lungo dello sciopero sociale, anche al di là della dimensione nazionale della lotta contro la riforma del mercato del lavoro. Che cos’è dunque lo sciopero sociale? Esso è allo stesso tempo sciopero industriale e logistico, perché interrompe la continuità della catena del valore e impedisce i movimenti di merci, uomini e profitti, esso è infine sciopero metropolitano perché investe la metropoli capitalistica modificandone le gerarchie che pretendono di imporre una disponibilità al lavoro universale e senza tempo. Lo sciopero sociale è la sollevazione del lavoro vivo contro la sua condizione complessiva. Per questo pensare di poter privilegiare una sola di queste lotte significa non aver compreso la composizione e la condizione contemporanea del lavoro vivo in Europa. D’altra parte, la diffusione e la rilevanza delle pratiche di sciopero stanno rendendo sempre più attuale e realistica la parola d’ordine on bloque tout.
La posta in gioco non è quindi semplicemente la possibilità di dare vita a uno sciopero generale e prolungato [grève générale reconductible], come chiedono parte della piazza di Nuit Debout, molti sindacati di base e sezioni della CGT, e come si è cominciato a fare in alcuni settori. Mentre ha il pregio di porsi concretamente il problema di come «bloccare il paese» ed esercitare il proprio potere contro l’autoritarismo del governo, questa prospettiva rischia di riprodurre vecchie logiche e vecchi punti ciechi, dovuti all’organizzazione confederale del lavoro e all’idea che lo sciopero riguardi in modo esclusivo alcuni specifici luoghi della produzione e dei servizi. Non tutto il lavoro trova espressione organizzata all’interno dei sindacati o può essere stabilmente localizzato in questo o quel posto di lavoro, in questa o quella categoria. Per questo, pensare lo sciopero sociale significa creare le condizioni affinché possano astenersi dal lavoro anche quelli che hanno contratti flessibili, intermittenti, occasionali, che non hanno alcun contratto di lavoro o se lo portano in tasca insieme a un permesso di soggiorno. Tutte queste figure si trovano, rispetto alle tradizionali forme di organizzazione del lavoro, in una posizione eccentrica. Mentre il sindacato continua a essere per lavoratori e lavoratrici una tattica centrale di conflitto, esso non esaurisce né riesce a intercettare le diverse forme di insubordinazione e rifiuto dello sfruttamento che in questi mesi hanno animato la metropoli parigina e le città francesi, e che si sono espresse nelle forme più disparate, dall’occupazione delle piazze in nome della democrazia alla rivolta violenta nelle strade. Il problema, allora, non è di rappresentare tutte le figure del lavoro, ma di come connettere in modo efficace e non occasionale le decine di migliaia di uomini e donne che stanno incrociando le braccia per impedire l’approvazione della loi travail e si stanno sollevando contro «il suo mondo».
Il fitto calendario di picchetti organizzati dalla Commission Gréve General di Nuit Debout per sostenere le vertenze in corso – alla Renault come alla Goodyear, nei centri commerciali come nei fast-food – indica chiaramente che una parte della piazza si pone il problema di rendere immediatamente produttiva questa connessione, di supportare ed estendere la visibilità delle lotte sui posti di lavoro, di fare uscire Nuit Debout da Place de la République affinché la sua politicità non rimanga rinchiusa nel suo perimetro. La solidarietà non risolve però il problema delle molteplici facce dello sciopero sociale. Essa rischia, infatti, di riprodurre la divisione tra chi lotta fuori dai posti di lavoro e chi dentro, senza mettere a valore il fatto che la piazza è attraversata da centinaia di precari che si domandano come esprimere l’insubordinazione al lavoro e alle sue condizioni politiche quando non sempre è possibile scioperare nei luoghi di lavoro. Di fronte a questa situazione, nemmeno replicare molte vertenze sindacali in tono minore può fare della piazza una leva per portare lo scontro di classe al di fuori dei luoghi in cui è quotidianamente praticato, per aggredire le condizioni politiche e sociali dello sfruttamento. Eppure proprio questo deve essere l’obiettivo se si vuole forzare la «visione sindacale dello sciopero» spezzando la logica delle categorie, per creare le condizioni di uno sciopero politico che è tale non solo perché si oppone a una proposta di legge e al governo che la sostiene, ma perché si afferma come pratica organizzata e di massa capace di investire la società a partire dal rifiuto del lavoro come rapporto di dominio.
Noi crediamo che questo obiettivo debba essere perseguito su un piano transnazionale. Sia nel caso in cui la loi travail venga ritirata, sia nel caso in cui venga approvata attraverso la ormai ordinaria sospensione delle regolari procedure della democrazia rappresentativa, la lotta contro la precarietà non può riguardare un solo paese e neppure esaurirsi nell’opposizione a un singolo progetto di legge. In ogni luogo d’Europa le condizioni politiche della precarietà vanno al di là delle regole che governano il mercato del lavoro perché investono il salario come rapporto di dominio, la trasformazione dei regimi di welfare, il governo della mobilità e il regime dei confini. La nuova logistica europea attraversa ormai l’intero spazio dell’Unione. Praticare in una dimensione esclusivamente nazionale o addirittura locale la lotta contro l’austerity e il regime della crisi non è ormai più pensabile, né il piano transnazionale dell’iniziativa può essere portato avanti solo attraverso il coordinamento occasionale, per quanto importante, di giornate di lotta e mobilitazione. Per questo la questione urgente è come trasformare la sollevazione francese in una leva per accelerare la comunicazione politica tra figure che in modi diversi, in ogni luogo d’Europa, fanno esperienza della precarietà dentro e fuori i posti di lavoro.
Per essere efficace questa comunicazione non può esaurirsi in 150 caratteri, ossia sul solo piano dell’agitazione. Un hashtag riesce certamente a rendere manifesta la simultaneità di un’iniziativa transnazionale come quella del 15M, almeno a coloro che ne hanno già condiviso il percorso. Tuttavia, la proliferazione delle riflessioni sviluppate dalle molte realtà di movimento che in ogni parte d’Europa guardano alla Francia dimostra che è necessario costruire un discorso politico comune, capace di coinvolgere e mobilitare anche chi non è già parte di un percorso organizzato e chi non ha già colto l’occasione di protagonismo offerta da Place de la République. Non si tratta più di smascherare le «narrazioni tossiche» di chi, dalla parte dei governi e dell’Unione, cerca di vendere austerità e precarizzazione come processi necessari nell’interesse generale. La sollevazione francese ha già interrotto praticamente quelle narrazioni, al punto da essere condannata al silenzio dai media internazionali per impedire che inneschi oltreconfine un effetto di mobilitazione a catena. Costruire un discorso comune significa dare un contenuto alle istanze democratiche che si manifestano in Francia come altrove, oltre all’applicazione di forme orizzontali di gestione delle assemblee e oltre all’esportazione di esperienze elettorali portate avanti con più o meno successo, come quella spagnola. La convergenza delle lotte non può esaurirsi nell’omogeneizzazione o nell’occasionale coordinamento di diverse iniziative locali. Dare un contenuto alle istanze democratiche – pretendere un salario minimo, un reddito e un permesso di soggiorno senza condizioni in Europa – significa fare della democrazia non il semplice assembramento contingente di individui o cittadini insoddisfatti, ma una pratica di massa e di parte grazie alla quale precarie, migranti e operai potranno conquistare quote crescenti di potere che possano materialmente trasformare, in Francia e nel resto d’Europa, la loro condizione di precarietà. Lo sciopero sociale come pratica transnazionale, come processo capace di catalizzare il rifiuto dello sfruttamento che si esprime negli scioperi, nell’occupazione delle piazze, nella violenza delle strade, deve diventare il momento che pone le basi per questa sollevazione democratica in Europa.