Di SANDRO MEZZADRA.

Migliaia di profughi e migranti premono in questi giorni sul confine tra Turchia e Grecia. La violenza delle forze di sicurezza greche, le pallottole di gomma e i proiettili di piombo sparati su questa moltitudine in movimento, è come raddoppiata dall’azione squadristica di bande neofasciste, che si rivolge contro quanti riescono ad attraversare il confine (o contro i migranti e i solidali sulle isole). La guardia costiera greca spara contro gommoni di migranti provenienti dalla Turchia. Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea, parla della Grecia come “scudo d’Europa”, mentre Frontex si prepara a prestare assistenza ai greci, rifornendoli di uomini e di mezzi. Eric Memer, portavoce della Commissione, risponde alla domanda se sia legale in Europa sparare pallottole di gomma ai richiedenti asilo sostenendo che “tutto dipende dalle circostanze”. Intanto, lungo la linea del fiume Evros, si contano almeno tre morti.

Sono immagini di straordinaria violenza, a cui i massimi vertici dell’Unione Europea danno oggettivamente copertura. C’è certo il cinismo di Erdogan all’origine di questo nuovo afflusso di profughi e migranti (siriani, ma non solo) al confine. Ma come non vedere l’ostinazione di questi ultimi, la tenacia con cui sfidano fili spinati e barriere di ogni tipo, l’affermazione elementare di una libertà che si esprime nella ricerca di un luogo sicuro, identificato con l’Europa? Si potrebbe far notare, del resto, che Erdogan usa da par suo un potere di ricatto che l’accordo con l’Unione Europea del 2016 gli ha implicitamente attribuito, se non riconosciuto. I movimenti di profughi e migranti si intrecciano così in modo inestricabile con le vicende della guerra infinita in Siria, con il fronteggiarsi in una condizione di inedita complicità di Turchia e Russia. Ma questo significa che intervenire (o non intervenire) su quanto accade al confine tra Turchia e Grecia significa intervenire (o non intervenire) sul riassetto dei rapporti geopolitici in corso nel Medioriente – e sullo svolgimento della guerra in Siria.

La Grecia ci viene oggi presentata come un Paese in preda alla paura, dove le bande neofasciste scorrazzano liberamente, spesso con il sostegno di parte della popolazione. Questo accade sulle isole, per l’esasperazione determinata dalla concentrazione in condizioni disumane di migliaia di profughi e migranti, durata anni, e lungo il confine. Sarà bene sottolineare che tutto ciò dipende da precise responsabilità politiche, che non si possono ignorare. Così come che il governo di destra di Mitsotakis pare avere nei fatti legittimato l’azione delle bande neofasciste, che appare spesso coordinata con quella delle forze di sicurezza. In queste condizioni, le grandi mobilitazioni antifasciste di giovedì 5 marzo ad Atene e nelle principali città greche costituiscono un argine essenziale, a cui si aggiunge l’azione di quanti sulle isole e lungo il confine terrestre continuano a praticare forme di solidarietà con profughi e migranti. La Grecia non è perduta! Lo straordinario tessuto di movimento e di solidarietà che si è costruito nelle lotte contro l’austerity e che si è espresso nel 2015, nella “lunga estate della migrazione”, continua a resistere e rappresenta il punto di riferimento essenziale per quanti non si piegano alla paura, al nazionalismo estremo e alla politica dell’odio.

In questi giorni in cui l’attenzione è monopolizzata dall’emergenza sanitaria, è però necessaria una mobilitazione anche al di fuori della Grecia, in quell’Europa che è interpellata direttamente da quanto accade lungo il confine tra Grecia e Turchia. È necessaria una sollevazione contro il cinismo dell’Unione Europea, che copre nei fatti la violenza al confine e rappresenta l’immagine rovesciata del cinismo di Erdogan. Il rifiuto di questo cinismo, la richiesta di aprire il confine è la condizione essenziale perché migliaia di profughi e migranti siano liberati dalla terribile morsa in cui si trovano attualmente prigionieri. Ma è anche la condizione per sviluppare una politica di pace in Siria, per intervenire efficacemente contro la guerra e per liberare le forme dell’autogoverno che si sono sviluppate in Rojava dal giogo dell’occupazione turca. Tutto si tiene in questo momento, e ancora una volta attorno a migrazioni e confini si giocano partite essenziali per il futuro.

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