di MARCELLO LORRAI E TONI NEGRI.
Riprendiamo dal sito di Radio Popolare l’intervista (in due parti: ⇒ qui e ⇒ qui) di Marcello Lorrai a Toni Negri in occasione della presentazione, lo scorso aprile, di ⇒ Galera ed esilio (a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie 2017) e ⇒ Assembly (in collaborazione con Michael Hardt, (Oxford University Press 2017, pp. 336, in corso di traduzione) al Centro Sociale Cantiere.
Leggendo Galera ed esilio ho percepito una sorta di scarto, quasi anche di registro di scrittura, tra la parte riguardante il carcere e quella poi dell’esilio a Parigi: un po’ come se ci fosse stata anche una difficoltà a raccontare, a ricordare – non certo per mancanza di memoria – l’esperienza del carcere, come se ci fosse stata una rigidità, nel tornare su quell’esperienza. Quando invece si arriva a Parigi la scrittura poi si scioglie…
Forse è vero, mi fai un elogio letterario: tale è il carcere tale è la scrittura, il carcere chiuso, la scrittura ristretta. La parte della galera in realtà è una riduzione di una cosa che avevo già scritto in tempi vicini al carcere, e quindi probabilmente ha ancora il carattere di una registrazione secca e dura di quella esperienza, la prima e la più dura delle mie esperienze di carcere – perché poi ce n’è stata anche un’altra negli anni novanta. Il carcere drammatico di una prima fase di sconfitta, e anche di difficoltà a commisurare l’enormità delle accuse a cui siamo stati soggetti, tutti i miei compagni ed io. Quando ci hanno arrestato, nell’aprile del 1979, c’è stato indubbiamente un primo momento di… non direi sbalordimento, e neanche sorpresa, perché ce lo aspettavamo, di finire in galera, ma non di finir dentro una storia del genere. Io mi sono trovato ad essere accusato di insurrezione armata contro lo stato, ma anche dell’assassinio di Moro e della sua scorta, di altri diciassette omicidi, fra cui quello di Alessandrini, e di essere il capo di una struttura assolutamente non misurabile né definita, che avrebbe retto dieci anni di lotta clandestina armata. Effettivamente era un’accusa che per quanto credo fossimo degli ottimi militanti rivoluzionari era sproporzionata: era chiaramente una grande provocazione, solo che era una provocazione sostenuta in maniera praticamente quasi totale dalla stampa, dalle televisioni, dai politici: tre giorni dopo il mio arresto il presidente della Repubblica mandò un telegramma di congratulazioni ai magistrati di Padova, per avere posto termine al terrorismo…
Era Pertini…
Sì, Pertini, il bravo Pertini, amato da tutto il popolo ma certamente non più amato da me: anche perché poi qualche anno dopo aggiunse che io ero indubbiamente il tipo classico della classificazione di Lombroso dei delinquenti nati, e che i miei amici dovevano essere altrettali. Comunque questo era il clima di allora, per dare un’idea. Ma alla fine di quell’anno successe ancora di peggio, quando, di fronte all’inverosimiglianza dell’accusa iniziale, ci fu il tentativo di far apparire me e un certo numero di compagni attorno a me dei delinquenti indecenti, che avevano commesso dei crimini assolutamente mostruosi come l’uccisione di un amico-compagno per ricattare la famiglia: insomma si era arrivati a dei livelli insostenibili anche psicologicamente.
Il confronto con le accuse non è stato l’unico momento molto pesante…
La vicenda della rivolta di Trani la vivemmo malissimo. La rivolta l’avevamo decisa tutti insieme, e l’avevamo attuata tutti insieme, ma ci siamo trovati utilizzati all’esterno da una serie di atti, assassinio compreso, compiuti dalle Brigate Rosse in nostro nome: e questo veramente non potevamo accettarlo. Noi lottavamo per le condizioni carcerarie, per l’apertura di un processo di discussione, di riapertura, al limite per l’amnistia. Mentre invece c’era chi voleva continuare la guerra. Dopo la rivolta di Trani c’è stata la dichiarazione di dissociazione dal terrorismo: una dichiarazione molto difficile da produrre, perché tutti sentivamo che si trattava di una presa di posizione che poteva sembrare nemica di compagni con i quali avevamo vissuto e con i quali avevamo condiviso molti ideali. E però era anche evidente che bisognava finire la guerra: che bisognava finirla perché eravamo stati sconfitti, da un lato, ma d’altra parte anche perché di fronte al peso generale della repressione, che non riguardava semplicemente noi in carcere, ma la società intera, occorreva una riapertura di discorso, e noi speravamo effettivamente che questa dichiarazione di dissociazione dal terrorismo servisse in questo senso. Si badi bene che si trattava di una dissociazione che da parte nostra non è mai stata seguita da nulla che neanche sfiorasse il pentimento scritto, confessioni, o cose del genere: quindi è stato veramente un atto politico puro e semplice. Ma è stato molto molto difficile, perché nel fare questa dichiarazione ci siamo trovati veramente in contrasto con amici e con fratelli, che pensavano che la lealtà astratta, eppure concreta, fra tutti nella vita del carcere fosse necessaria. Ci siamo litigati anche con compagni carissimi, e però è stata una cosa molto importante per noi. Così sono andate le cose: e spero che il libro riesca un po’ a rendere questa resistenza in una situazione assai drammatica.
In più punti del libro torna il senso di colpa per aver lasciato i compagni che erano in carcere e anche per avere lasciato l’Italia…
La partenza è stata uno shock, per me. Sono partito pieno di rabbia. Innanzitutto perché c’era stato il tradimento di Pannella, che aveva trattenuto quei dieci voti dei radicali che sarebbero stati decisivi per mantenermi in Italia, fino a processo concluso, almeno fino a nuovo voto della camera: e quindi per la possibilità di continuare una battaglia per l’amnistia, con la possibilità di dimostrare che il voto che mi era stato dato dai compagni, dai cittadini, ed erano tanti voti, poteva servire a qualcosa. Da parte di Pannella non credo sia stata una cattiveria: era convinto che non si sarebbe mai determinata quella situazione, che cioè metà dei comunisti e una buona parte dei democristiani votassero per la mia liberazione. Non ci aveva creduto e quindi ha detto: facciamo la bella figura di non votare, di essere superiori a questa buffonata. : Ma non era affatto una buffonata: si trattava di continuare una battaglia per la quale ero stato tolto dal carcere, sostenuto da un sacco di cittadini. Andarmene è stata una decisione razionale e che difendo ancora. I compagni dal carcere hanno reagito male, almeno per un certo periodo, però sono convinto che in effetti la mia presenza nel processo avrebbe solo peggiorato la situazione dei compagni, che andava inevitabilmente verso una soluzione, una soluzione che ha comportato ancora due anni, e che i compagni si sono conquistati, diciamo così, direttamente: nel libro ho pubblicato anche la lista delle condanne date nelle sentenze di primo e di secondo grado, e il confronto è addirittura comico, quando si vede che molti degli imputati avevano preso in primo grado più di dieci anni, e poi sono stati messi fuori con l’esatta misura di carcere che avevano già scontato. Devo anche dire che c’è stata una pressione molto forte perché partissi da parte di tutti i miei amici, di mia moglie, dei compagni fuori, da parte cioè delle persone di cui avevo stima. D’altro canto un motivo di enorme fastidio era non quando i compagni mi chiedevano di stare con loro, ma quando i politici, anche da giornali che mi hanno sempre sostenuto come il manifesto, pretendevano atti di eroismo e di generosità: ma di atti di eroismo e di generosità ne avevamo dati tanti, e in galera i compagni continuavano a darli… C’era una canea, contro di me, in quel momento.
Poi?
Sono stato molto male. A parte il fatto di dover decidere una vita in condizioni completamente nuove, senza un soldo, senza nessun vecchio affetto o rapporto, in un paese che nel primo periodo era accogliente solo in parte, perché la dottrina Mitterand che difendeva gli esuli non era stata ancora proclamata, a tutto questo si accompagnava il ricordo preciso, continuo, di questi venti-trenta compagni con i quali avevo vissuto questa avventura terribilmente dura che erano stati i primi quattro anni di galera: si era creato evidentemente un clima di affetto e di partecipazione fra noi che era assolutamente importante, e che aveva anche già prodotto dei documenti di resistenza e di proposta nuovi. Mi ricordo che fino a quando non sono rientrato nel ’97 tutta una serie di amici mi prendevano in giro per non essere in galera in Italia chiamandomi “il piccolo pentito”. Per me è stata veramente una cosa molto pesante quella di partire.
Il carcere è anche il momento dello studio su Spinoza, che è un po’ anche una forma di elaborazione della sconfitta…
Sì, è stato un momento di riflessione, non semplicemente su Spinoza, che già di per sé di una riflessione valeva la pena, ma anche evidentemente sulla situazione nella quale ero ed eravamo tutti. Spinoza era un filosofo che avevo studiacchiato fin dal liceo, ma non ne avevo mai fatto l’oggetto di una ricerca come io le faccio, leggendo un po’ di letteratura intorno ma soprattutto lavorando sui testi, prendendo dalla prima parola che ci resta fino all’ultima. Non so bene perché avevo scelto Spinoza, probabilmente perché quando sono stato arrestato era un periodo che andavo su e giù da Parigi e avevo letto dei libri su Spinoza apparsi in Francia dopo il ’68, di Deleuze, di Matheron e di Guéroult, tre grandi libri che mi sembrava che potessero aiutarmi nel rileggere Spinoza. Quindi quando ho ripreso in mano Spinoza è stato perché mi sono detto: sono in galera, devo fare qualcosa, bene, faccio questo Spinoza che tra i filosofi mi è più simpatico di tanti altri, tanto più che mi sembra sia attuale. Poi man mano che sono andato avanti mi sono trovato di fronte appunto alla necessità di rispondere a delle domande: anche se siamo stati sconfitti politicamente, da un punto di vista etico, abbiamo agito bene o no? il modo in cui ci siamo mossi era giusto o no? e possiamo e dobbiamo continuare? e come? Queste domande si sono per così dire sovrapposte sistematicamente alla rilettura di Spinoza, e mettendo in luce l’ontologia, la teoria dell’essere, che però in Spinoza è anche una teoria della conoscenza, una teoria etica, e una teoria sociale e politica, ecco, scoprendo man mano questi strati della filosofia spinoziana, via via affrontavo questi problemi teorici più vicini alla mia condizione.
Il lavoro su Spinoza, che si traduce nel libro L’anomalia selvaggia, rappresenta anche il passaggio dalla triade che si può enunciare in termini operaisti o in termini hegeliani – lotte-crisi-ristrutturazione oppure affermazione-negazione-superamento – ad un altro tipo di impostazione teorica, del rapporto tra lotte e capitale.
Sì, è la critica della dialettica che ho fatta in quell’opera, ed è la linea che appunto soprattutto emerge, nel senso di un’autocritica dell’operaismo, se vogliamo, nella figura – in realtà lotte, sviluppo, crisi, e ristrutturazione – che Tronti ci aveva lasciato. Ma Tronti ci aveva dato la ristrutturazione fondamentalmente come una aufhebung, un superamento, un andar oltre che andava verso il Politico. Per me il problema era quello invece di cogliere la continuità delle lotte nella stessa struttura fisica della storia che noi avevamo vissuto: cioè come le lotte fossero elementi che portavano avanti i livelli di forza e anche di trasformazione nella prospettiva, nell’orizzontalità del tempo, nella temporalità nella quale noi eravamo immersi. Ogni lotta residua una potenza, ed è questa potenza che noi dobbiamo continuamente restaurare, all’interno dello sviluppo storico: la lotta non finisce mai, la lotta è sempre questa affermazione del nostro essere, una costruzione di essere nuovo, è una volontà di costruire giustizia. Questi concetti sviluppati fondamentalmente in questo superamento della dialettica nel senso in cui appunto l’operaismo me l’aveva fornita e ho interpretato, questo sentimento di una continuità del lavoro politico come costruzione di essere, costruzione di movimento, costruzione di sempre nuove condizioni di lotta, sono una conclusione a cui sono arrivato e che poi ha nutrito, appena ho finito il carcere, una serie di altri scritti di filosofia politica come sopratutto Il potere costituente, un libro per me, ma credo anche per i movimenti, e non solo per i movimenti italiani ma ormai a livello internazionale, molto importante; e poi andando avanti questo concetto di potenza spinozista sta anche alla base della triade Impero, Moltitudine e Comune. Quindi questa scoperta di Spinoza è stata diciamo improvvisa, non evidentemente preventivamente valutata, ma estremamente portatrice di un grande sviluppo interiore, che è stato critico, anche autocritico, ovviamente, ma mai riflesso o piegato verso un sentimento di sconfitta dal quale fosse impossibile uscire. Da ogni situazione si può uscire perché la potenza espressa dalla nostra stessa esistenza, dalla nostra capacità di lotta è qualche cosa di invincibile, e questo è veramente l’elemento centrale, nella mia lettura di Spinoza. Poi quello che facciamo ha sempre caratteristiche di eternità, direbbe Spinoza.
Accostiamo due punti del libro: in uno parli della “certezza logica della possibilità della rivoluzione”, nell’altro, definendo il tuo atteggiamento per contrasto con quello di Massimo Cacciari, dici di una ricerca “nutrita da inesauribile fiducia”.
Nella seconda metà degli anni Sessanta mi sono trovato di fronte alla scelta di una serie di compagni di rientrare nel Partito Comunista, con un discorso del tipo di quello che accennavamo a proposito di Tronti, e cioè: è vero che le lotte determinano sviluppo, è vero che lotte e sviluppo determinano crisi, ma poi sta al partito conquistare il potere. Credo che questo sia stato un discorso che tutta la sinistra ha fatto, e ha continuato finché ha avuto voce: oggi non lo fa più perché è diventata completamente afasica, balbetta solo vecchi elementi di programmi socialdemocratici. Questi compagni spostavano il discorso politico dall’immanenza, dall’essere dentro le lotte, alla trascendenza, e da allora la mia polemica contro queste posizioni, che riguarda Tronti e Cacciari, riguarda tutti i compagni che hanno ripetuto il diciannovesimo secolo, senza comprendere quanto era modificata la composizione di classe. Una posizione completamente imbelle, una vecchia concezione del politico che rischiava di riprodursi provocando sconfitte e alla fine l’autodissoluzione di quel tanto che di politico e di importante avevano espresso il Partito Comunista e la sua tradizione. Ecco, a partire da quel punto credo che il mio pensiero sia sempre stato basato sulla combinazione di fiducia e aspettativa di rivoluzione: perché non è una fiducia irrazionale, è per questo che mi dichiaro marxista, anche se credo di essere andato molto oltre quelli che sono i termini della profondissima analisi che Marx aveva fatto della industria e del capitalismo nel XIX secolo. L’inchiesta, per me, per noi, è sempre stata un elemento assolutamente centrale: la realtà prima di ogni altra cosa, la dimensione della potenza, del punto di vista che apre al futuro, in ogni azione, in ogni cosa, Se vuoi chiamare questo fiducia, io penso che sia un buon termine per esprimere il nostro punto di vista, la nostra apertura d’animo. Una fiducia però appunto non irrazionale, al contrario: si tratta di una situazione nella quale la ragione, gli affetti, l’immaginazione, e la verifica sperimentale, concreta, si combinano. Quindi fiducia in una logica che è quella marxiana dell’impossibilità del capitalismo di coprire fino in fondo le proprie contraddizioni: le sue contraddizioni diventano sempre più evidenti, sempre più tragiche, e portano oggi come oggi alla povertà dei soggetti, occupati o non occupati, precari o altro, porta alla distruzione della terra, e porta soprattutto alla guerra. Questa nostra fiducia nella crisi del capitalismo è tutt’altro che una fiducia irresponsabile.
Mi ha colpito, da parte di chi si è fortemente contrapposto al Partito Comunista – la si trovava già anche nella prima parte dell’autobiografia, e qui torna in più punti – la considerazione nei confronti del Pci: e anche l’utilizzo della categoria del “tradimento” della classe da parte del partito.
Cosa vuoi, evidentemente l’atteggiamento nei confronti del Pci è sempre stato ambiguo, nel senso che noi dentro la cultura comunista, rielaborata e costruita in Italia come forza egemone, ci siamo nati: senza il Partito Comunista non saremmo mai esistiti. Il Partito Comunista è il nostro zio, però è uno di quegli zii che hanno dissipato il patrimonio, giocandoselo in avventure democratiche impossibili… Tutto questo è cominciato con il grande realismo di Togliatti, il quale, come uomo dell’internazionale comunista, era in realtà completamente cosciente della posizione dell’Italia negli accordi di Yalta: ma poi questa posizione compromissoria, lucidamente compromissoria, ha perso la sua lucidità. O meglio: prima era una lucidità strategica, poi man mano è diventato lucido da scarpe. Il partito comunista non ha tradito nulla, si è semplicemente trasformato, man mano. I compagni trotzkisti dicono che si è burocratizzato: se si vuole dire burocratizzato, è un termine che può essere utile, in maniera molto descrittiva, e in effetti si trattava di una burocrazia. Però detto questo non si è detto nulla, perché non c’è stata semplicemente burocratizzazione, c’è stata ad un certo punto una compartecipazione a quello che loro pensavano essere il destino positivo e costruttivo del capitalismo. C’è stato un cedimento, se non vuoi chiamarlo tradimento, un cedimento estremamente forte a quella che è stata una valutazione del capitalismo come qualcosa che poteva portare avanti: non si capiva dove, non si capiva fino a quando, perché non lo hanno mai espresso, perché ormai non se lo ponevano più come problema, quello di una rivoluzione a venire. In realtà quello che correva dentro alle élites comuniste dopo – diciamo – il ’56 come primo momento di crisi, è stato un allontanamento sempre più deciso dalle ipotesi marxiane di crisi appunto del capitalismo, e, soprattutto, c’era una completa, assoluta, cecità nei confronti della trasformazione della classe operaia: come è stato possibile negli anni settanta non accorgersi che il capitale aveva giocato sulla distruzione delle fabbriche per passare alla produzione sociale, per introdurre la digitalizzazione del sociale, per muoversi appunto verso nuove forme di organizzazione dell’accumulazione? Questo è stato completamente negato, mentre la difesa dell’interesse operaio è stata chiusa semplicemente in forme corporative. Noi ci siamo trovati in una situazione terribilmente strana negli anni settanta, perché avendo preso coscienza di quella realtà, il nostro tentativo è stato comunque quello di dare continuità alla lotta operaia, ad una lotta operaia che era finita, che era disperata. Quando ci dicevano: ma voi avete preso le armi… Ma non siamo stati noi a prendere le armi, sono stati gli operai a prendere le armi, e non per conquistare il potere ma per difendersi. Prendere le armi è stato un atto di disperazione, perché non c’era altra strada da percorrere. E questa è responsabilità del Pci, intera. Quanto è successo in Italia sul terreno della lotta armata, è responsabilità del Pci, intera, perché non ha dato speranza, e non poteva dare speranza perché era imbecille: dico imbecille proprio nel senso del latino imbecillis, incapace di comprendere quello che succedeva. E probabilmente succube di questo progetto di trasformazione.
Torniamo alle innovazioni teoriche: che a Parigi avvengono anche attraverso l’inchiesta e attraverso l’osservazione di alcuni snodi particolarmente rilevanti delle lotte, l’86 e il ’95.
Quando arrivo in Francia nel ’83 come dicevo il primo anno abbondante è stato non dico perduto, ma insomma è passato in una specie di tentativo di ricollocazione in una situazione molto difficile: si trattava di guadagnarsi da vivere, prima di tutto. Lì ho avuto la fortuna di trovare degli amici che mi hanno dato una mano, e dal momento che non c’era altro da fare, perché all’università era impossibile essere preso perché sono stato sans papiers per anni e anni, mi hanno invece indicato la possibilità di fare il sociologo, e attraverso alcuni amici francesi e altri amici italiani abbiamo messo in piedi una specie di società. Così ho cominciato ad avere degli ordini di ricerca, che riguardavano le trasformazioni del proletariato, delle forme di produzione, e dei processi lavorativi sociali. La prima cosa che abbiamo fatto è stata una descrizione di quello che era avvenuto in Italia nella costruzione dei distretti, utilizzando tutta la bibliografia internazionale che in quel momento era molto molto curiosa di quello che stava succedendo da noi, e trovando poi un esempio classico nella struttura di Benetton, che fra l’altro avevo già studiato perché l’avevamo vista nascere nelle lotte nel Veneto.
A partire da questa descrizione ci hanno subito detto: ma in Francia è possibile che avvengano cose di questo genere? E allora abbiamo cercato sulla filiera tessile di vedere se esistevano cose analoghe, e in effetti esistevano. Non quel fenomeno completamente nuovo di imprenditorialità diffusa che c’era in Italia, dove anche l’ultimo operaio si inventava la sua cantina, con sua nonna che anche lei era inventata come operaia ed era messa al lavoro: in Francia tutto questo mancava, mentre invece c’erano delle grandi filiere, che partivano per esempio dal tessile dei vecchi ebrei del centro di Parigi, che all’inizio erano dei polacchi che cucivano vestiti per la moda, e poi man mano, attraverso i figli, erano diventate delle imprese, che recuperavano tutti gli immigrati che arrivavano, turchi, iugoslavi, eccetera. E su queste cose abbiamo fatto due-tre panoramiche molto larghe.
Poi c’è stato il lavoro sulla Seine-Sant-Denis…
Sì, siamo stati fortunati perché ci è capitata una ricerca su una zona industriale, la Seine-Saint-Denis, sul nord di Parigi, dove c’erano stati praticamente 60mila operai metallurgici, energetici, chimici, che durante gli anni settanta era stata completamente spazzata via. Attraverso amici comuni, l’amministrazione comunista di Saint-Denis, che erano della gente molto intelligente, in particolare un vecchio senatore comunista, ci ha affidato il compito di andare a vedere come si potesse uscire da questa situazione, cosa si poteva fare dentro quei venti chilometri di fabbriche distrutte. Allora lì abbiamo cominciato a studiare, a vedere quali erano i problemi che si ponevano. Uno era che quelli che abitavano lì erano tutti immigrati. Ma le cose più interessanti sono venute fuori vedendo quello che era già stato ricostruito, e cioè fondamentalmente due cose: delle industrie meccaniche già digitalizzate, da un lato, e dall’altro industrie legate alla comunicazione. Ma il partito comunista e l’amministrazione locale volevano che lì ci fosse del lavoro fatto da gente che poi li votasse, come gli operai di prima che erano loro elettori. Abbiamo fatto una serie di iniziative e di ipotesi, fra cui quella di fare un grande stadio: che pensavamo potesse davvero popolare la zona, perché secondo noi per fare un grande stadio occorreva portare migliaia di operai. Quando poi negli anni novanta fu effettivamente deciso di costruire lì lo Stade de France, arrivarono dei camion carichi di computer, ai quali lavoravano forse trecento tecnici, mentre trenta operai muovevano le macchine per fare lo scavo; poi cominciarono a costruire con materiale prefabbricato, che sistemavano man mano che arrivava. Siamo riusciti a vedere un po’ di operai quando si è trattato di mettere l’erba, i cuscini sulle scalinate, e di dare il colore: e chi erano? Degli operai portoghesi che venivano pagati al prezzo a cui sarebbero stati pagati in Portogallo. Quindi la nostra ipotesi era totalmente fallita, perché la tecnologia aveva completamente superato ogni speranza che i lavoratori che arrivavano a costruire questa grande macchina potessero insediarsi nel territorio, e sostenere il partito comunista. Però la nostra esperienza è stata molto importante, perché abbiamo avuto la possibilità di conoscere la meccanica digitalizzata, di entrare nell’industria della comunicazione e in tutti i primi progetti che erano nati lì: era pieno di startup, che non si chiamavano ancora così, ma era in realtà tutta gente che tra gli anni ottanta e i novanta, quindi molto precocemente, lavorava su questo terreno; e inoltre abbiamo avuto questa esperienza della trasformazione dell’edilizia completamente meccanizzata, fatta dai grandi costruttori francesi. Quindi lì effettivamente quella che era la nostra grande illusione, la continuità politica dei movimenti, nelle nuove forze, è in buona parte saltata. Però è stato cruciale vedere questa nuova forza lavoro, la sua nuova composizione, che era sbalorditiva, e a quel punto su questo abbiamo cominciato a fare delle ipotesi.
Anche dalle sollecitazioni delle lotte francesi del ’86 nasce Fine secolo, un libro che rappresenta un passo in avanti rispetto alla teorizzazione degli anni settanta dell’operaio sociale…
Il 1986 è stato un momento estremamente importante, che ha fatto cadere un governo, che ha aperto la scuola ad una notevole agitazione interna, e un momento importante anche per il discorso della meticizzazione, del touche pas à mon pote: a parte il movimento formidabile del 2005, è stato forse l’unico grande momento in cui la banlieue è stata in qualche modo coinvolta nelle lotte. E l’86 è stato il momento in cui per la prima volta abbiamo cominciato a fare un’ipotesi che modificava la tesi dell’operaio sociale, perché iniziava, in combinazione con le trasformazioni tecnologiche, ad aggiungere la cognitivizzazione del lavoro, il fatto che il lavoro diventava lavoro cognitivo, lavoro completamente legato al digitale e alla possibilità appunto di progetti a grande risparmio di lavoro diretto e però a grande produttività: quindi una concezione del lavoro in quanto sociale, cognitivo, e altamente produttivo in termini di cooperazione. Era possibile vedere tra gli studenti, tra il lavoro intellettuale, che cresceva nella società, una base sociale di massa per un progetto politico? Ci sono state in Francia delle grandi ipotesi di lotta che inseguivano più o meno questo tipo di… io non direi né illusione né realtà: questo tipo di forma immaginativa, che è estremamente importante, perché il sociale, il sociale della lotta di classe, è sempre fatto così, è fatto di qualche cosa che è in mezzo tra la realtà e la speranza, e che quando può essere assunto dal punto di vista della soggettività diventa una forte immaginazione costruttiva, costituente. Le cose che avevamo intuito già negli anni settanta, la modificazione profonda della classe operaia, che avevamo anticipato probabilmente con troppo entusiasmo, le ho poi ritrovate tali e quali, ma quando erano ormai massificate e avevano assunto la forza di una tendenza inarrestabile, in Francia. E’ stato molto importante, da un lato perché è sempre bello scoprire delle cose nuove, d’altra parte perché mi ha aiutato ad andare avanti nei discorsi, anche nei discorsi politici.
In un intervento recente, intitolato ⇒ Per un’Europa senza guerra, sollevi la questione di una indispensabile critica alla sovrapposizione della Nato al progetto europeo, e anche quella della necessità, per la costruzione dell’unione dell’Europa, di una apertura in direzione euroasiatica, tema quest’ultimo decisamente in controtendenza rispetto ai discorsi che vanno per la maggiore sulla Russia.
Basta guardare il mappamondo: e ci si accorge subito che l’Europa è una penisola di questo grande corpo che si chiama Asia. L’Europa ha una storia propria, è chiaro, ha una sua profonda civiltà, c’è poco da dire, e se poi questa civiltà si è sporcata col capitalismo, e indubbiamente è condannabile in molti aspetti, penso però che malgrado tutto gli attacchi all’eurocentrismo devono fermarsi ad un certo punto. In questo senso l’Europa è inevitabile, per dirla in questi termini, anche quando la si odia. Detto questo, se pensiamo che i prossimi anni saranno percorsi dalla crisi ecologica, dalla crisi del neoliberalismo, in particolare per quanto riguarda le politiche energetiche, siamo costretti in qualche modo a riconoscere che siamo una penisola dell’Asia, in termini energetici e non solo, anche come mercati. A questo punto dobbiamo evidentemente porci il problema di una posizione che valorizzi la profonda capacità delle popolazioni lavorative europee di mantenere la loro autonomia, la loro capacità di resistenza e di produzione, ma anche un rapporto con l’Est, che non è semplicemente l’Est russo, ma è anche cinese, cioè l’estremo Est. Io penso che questa posizione debba svilupparsi, e che questa presa di coscienza sia una delle condizioni dell’unità europea. Io sono profondamente europeista, lo sono sempre stato e mi mantengo tale, ma penso che effettivamente l’Europa va reimpiantata, e non va reimpiantata semplicemente modificando il trattato di Dublino o quello di Schengen, o quello di Lisbona o quello di Nizza: l’Europa va reimpiantata in quanto capacità democratica di costruire un proprio spazio e di giovarsi della crisi attuale del neoliberalismo, per costruire degli ordini di maggiore libertà e di maggiore eguaglianza. C’è il problema della Nato: la Nato è uno dei più pesanti ostacoli a qualsiasi possibilità di rinnovamento dell’Europa. Gli americani non hanno mai voluto l’Europa unita: l’Europa unita è, in quanto tale, una potenza alternativa agli Stati Uniti. L’Europa però è stata completamente assorbita nel mondo atlantico dopo la seconda guerra mondiale, che è stata vinta dagli americani e dai sovietici e però c’è stata questa divisione del mondo che stiamo ancora scontando in termini assolutamente pesanti, per quanto riguarda l’Europa. L’Europa non si unirà se al modello Europa sovrapponiamo continuamente il modello Nato. Il modello Nato è un modello di guerra, è un modello completamente subordinato agli interessi diretti americani, e dobbiamo quindi in qualche modo sganciare il problema dell’Europa dal problema della sua difesa e della sua organizzazione militare. Si tratta di un tema centrale anche perché permette di assumere il problema Europa fuori da quelle posizioni secondo me sbagliate che vogliono dissolvere l’Europa esaltando di nuovo i poteri sovrani nazionali, che vogliono uscire dall’euro senza porsi il problema delle nostre possibilità di sopravvivenza economica, in una situazione che è tutt’altro che facile e che ci vedrebbe immediatamente attaccati dai mercati mondiali. Quella della Nato è un tema che credo sarà cruciale nella nostra discussione dei prossimi anni.