Pubblichiamo qui l’introduzione del libro «Un mondo da guadagnare» di Sandro Mezzadra, disponibile dal 28 in libreria per Meltemi. Qui il link alla scheda del libro in catalogo Meltemi: “Un mondo da guadagnare”

Di SANDRO MEZZADRA

Raccolgo in questo libro un insieme di saggi che ho scritto negli ultimi anni. Per quanto debbano la loro origine a diverse occasioni, sono parte di una riflessione comune e il mio auspicio è che la raccolta non risulti meramente occasionale. Organizzati attorno a tre assi tematici – “politica”, “migrazioni”, “mondi” –, i testi qui presentati sono per me altrettanti capitoli di un’approssimazione alla comprensione critica del nostro presente, che costituisce il modo specifico in cui pratico la teoria politica. Un insieme di temi trasversali alle tre parti in cui il volume è suddiviso può essere immediatamente indicato: la crisi della moderna forma Stato a fronte dei processi globali contemporanei, le tensioni a cui vengono sottoposti concetti politici fondamentali (come ad esempio quello di cittadinanza), il rilievo costitutivo dei movimenti migratori e più in generale delle pratiche di mobilità per il mondo in cui viviamo, l’esigenza di ripensare la categoria marxiana di forza lavoro (e il problema della sua produzione), lo spiazzamento dello sguardo rispetto alla centralità indiscussa dell’Europa e dell’Occidente, alimentato dal confronto con la critica postcoloniale. Questi e altri temi sono indagati con un metodo che punta a far emergere le formidabili tensioni che segnano l’attuale congiuntura a livello mondiale, la violenza che ne deriva e al tempo stesso l’insieme delle pratiche e delle lotte con cui i soggetti dominati e sfruttati si contrappongono a quella violenza, indicando – in modo del tutto concreto – la possibilità di un suo superamento. Il mondo viene così pensato al tempo stesso dal punto di vista dei processi materiali che ne intessono la trama e da quello della sua possibile trasformazione. Un mondo da guadagnare, per riprendere una suggestione classica.

Il riferimento al mondo non è per me metaforico. Consapevole della difficoltà del compito, cerco piuttosto di assumere la dimensione mondiale come sfondo della mia riflessione su ciascuno dei temi affrontati in questo libro – dal ripensamento critico del federalismo alle migrazioni, dal dialogo a distanza tra Marx e Foucault a quello tra Du Bois e Fanon, per limitarmi a qualche esempio. La questione dello spazio, e dunque delle coordinate spaziali degli stessi concetti con cui si tenta di pensare il presente, ha acquisito per me un rilievo fondamentale nel corso del tempo, in particolare sulla base del lavoro sui confini e sui processi globali che ho sviluppato con Brett Neilson (di cui danno conto in particolare il capitolo 3 della seconda parte e il capitolo 3 della terza). La “globalizzazione” non è, secondo la nostra prospettiva, un processo di livellamento delle differenze e di progressiva costituzione di uno spazio planetario “liscio”: al contrario (e per questa ragione occorre guardare con cautela a ogni frettolosa dichiarazione della sua crisi o della sua fine), è un insieme di processi complessi e contraddittori, in cui la riorganizzazione del mercato mondiale come ambito di riferimento delle operazioni fondamentali del capitale (caratterizzate da una specifica omogeneità) è costretta a misurarsi con molteplici resistenze e attriti, che danno luogo a una profonda eterogeneità di formazioni spaziali, economiche, politiche, sociali e culturali. È una situazione che nel libro viene studiata sia dal punto di vista delle migrazioni (in particolare nel capitolo 2 della seconda parte) sia dal punto di vista di un’analisi critica del capitalismo contemporaneo (in particolare nel capitolo 3 della terza parte) e delle sue implicazioni politiche.

In queste condizioni, assumere il mondo come scala geografica fondamentale di ogni riflessione sul presente non ha nulla di astratto: fa piuttosto riferimento alla necessità di incorporare all’interno degli stessi concetti che utilizziamo l’insieme delle rotture geografiche e della turbolenza geopolitica determinate dai processi globali contemporanei. Sullo sfondo di questi processi, lo stesso senso del luogo si modifica profondamente – e ad esempio l’Europa (al centro dell’analisi proposta nel capitolo 2 della prima parte) assume una posizione ben diversa da quella (egemonica) che per secoli si è costruita entro una storia di espansione, dominazione e conquista. La decolonizzazione si carica in questo quadro di nuovi significati e guadagna una nuova rilevanza (come si mostra nel capitolo 3 della terza parte), mentre la condizione postcoloniale, al centro del capitolo 1 della terza parte, rende possibile far risuonare contesti come quelli latinoamericani o asiatici nell’analisi degli sviluppi e dei conflitti europei contemporanei. Così inteso, il mondo diviene un criterio di metodo, determina un insieme di dislocazioni che investono lo stesso piano della riflessione teorica e apre quest’ultima alla ricerca di concetti che siano in grado di cogliere le dimensioni comuni di un’esperienza che assume tratti planetari e al tempo stesso di articolare la profonda variabilità di quella esperienza in diversi contesti materiali. Sotto il profilo politico, il compito che ne deriva (su cui si conclude il capitolo 3 della terza parte) è in primo luogo la reinvenzione dell’internazionalismo – o l’invenzione di un nuovo linguaggio in grado di affrontare il problema che storicamente l’internazionalismo aveva affrontato: quello di dare espressione a una comune realtà di oppressione e a un comune desiderio di liberazione.

Se le coordinate spaziali delle ricerche che si presentano nei capitoli di questo libro sono mondiali, resta da dire qualcosa sulle coordinate temporali, contraddistinte dal tentativo di pensare criticamente il presente come un problema. È noto: unica dimensione temporale assolutamente reale, il presente è anche sempre in dissolvenza, “mentre esso viene mostrato”, per citare la Fenomenologia dello spirito di Hegel, “esso ha già cessato di essere”. “A un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo e immobile il materialista storico non può rinunciare”, scrive tuttavia Walter Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia. È in generale questo essere “in bilico nel tempo” a definire il presente. Assumerlo sia come oggetto di critica sia come punto di vista è quel che tento qui di fare: nella dissolvenza del presente occorre afferrare le tendenze che anticipano il futuro e intravedere il balenare di un lungo periodo che ci conduce verso il passato. Su queste dimensioni della temporalità i capitoli che seguono si sporgono a più riprese, tentando di formulare non tanto delle prognosi quanto più modestamente delle ipotesi sugli sviluppi futuri e ripercorrendo a ritroso (con piglio genealogico) alcune tracce proposte dai problemi di volta in volta studiati. Baricentrato sul presente, il lavoro che qui si svolge è tutt’altro che estraneo alla storia, per quanto – riprendendo ancora Benjamin – tenti di tenersi a distanza dal “bordello dello storicismo” (una questione analizzata, sulla base di un confronto con Dipesh Chakrabarty, nel capitolo 1 della terza parte). L’analisi delle migrazioni contemporanee attraverso il Mediterraneo porta così, ad esempio, a riscoprire la storia della lotta contro la schiavitù negli Stati Uniti del XIX secolo (capitolo 4 della terza parte), lo studio dei profili del federalismo riconduce alle origini della moderna forma Stato (capitolo 1 della prima parte), mentre il confronto con il rilievo attuale della tematica dell’estrattivismo è accompagnato da riferimenti alle origini della colonizzazione spagnola in America Latina e alla storia delle lotte che hanno scandito l’estrazione e la lavorazione della gomma (capitolo 3 della terza parte).

Definita da coordinate spaziali mondiali e da una focalizzazione sul presente, la teoria politica è per me essenzialmente teoria critica. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le “critiche della critica”, in particolare sulla base del fatto che la critica tenderebbe a occupare una posizione esterna rispetto al suo oggetto e a svolgersi secondo modalità essenzialmente “negative”: la critica assumerebbe di conseguenza toni in ultima istanza malinconici – alimentando quella “malinconia di sinistra” che costituirebbe una specifica patologia del nostro tempo. Non è questo il luogo per discutere a fondo queste posizioni, il che richiederebbe tra l’altro una ricostruzione delle diverse tradizioni e dei diversi significati della “teoria critica” – troppo spesso schiacciati nel dibattito sul mainstream della scuola di Francoforte. “Noi non anticipiamo dogmaticamente il mondo, ma dalla critica del vecchio mondo vogliamo evincere il mondo nuovo”: da queste celebri parole di Marx, tratte da una lettera ad Arnold Ruge del settembre del 1843, si può certo derivare un’immagine della critica del tutto refrattaria a ogni tonalità malinconica. “La filosofia si è mondanizzata”, proseguiva Marx, “e la prova più evidente è che la coscienza filosofica è coinvolta non solo esteriormente, bensì pure interiormente, nel tormento della lotta”: presentata come compito essenziale del presente, la critica si installa qui all’interno dei conflitti che lo innervano e lo costituiscono, e assume il presente al tempo stesso come suo punto di vista e come suo oggetto eminente – “la critica radicale di tutto l’esistente”. È certo soltanto uno schema generale, che deve essere articolato, variato, innovato profondamente sulla base delle acquisizioni storiche e politiche accumulate nel tempo che ci separa da Marx. Ma per quel che mi riguarda, questo schema continua a essere una buona esemplificazione del senso in cui definisco critica la teoria politica che tento di praticare.

In una prospettiva debitrice tanto a Marx quanto a Foucault (a cui è dedicato il capitolo 3 della prima parte), sottolineo il rilievo strategico di quello che si può definire l’ancoraggio soggettivo della critica – ovvero il suo radicamento nel terreno della produzione di soggettività e la ricerca delle figure soggettive che possano sostenerne uno svolgimento “costituente”, ovvero non meramente “negativo”. Prende qui forma un progetto di ricerca al tempo stesso teorico e politico, in cui l’intensità della resistenza e delle lotte (nelle molteplici e spesso inattese forme che assumono) guida l’analisi delle trasformazioni del dominio e dello sfruttamento, nella convinzione – occorre ribadirlo – che siano i soggetti subordinati, costituiti dall’assoggettamento, quelli che sono in condizione di sviluppare le pratiche più originali e radicali di soggettivazione – di alludere in modo materialmente determinato all’invenzione di nuovi modi di abitare il mondo, capaci di trasformare tanto il mondo quanto i soggetti che lo abitano. Nell’insubordinazione e nella sollevazione, nel rifiuto e nella lotta si ritrova così un momento – parziale e al tempo stesso potente – di verità pratica, che guida l’intero progetto al cui interno i capitoli di questo libro si inseriscono. È un momento di verità a cui non corrisponde alcuna garanzia di definitiva realizzazione, ha tratti molto diversi da quelli delineati dalle più diffuse teorie dell’universale e apre piuttosto (sempre di nuovo) alla possibilità di costruire un “comune” delle donne e degli uomini in lotta per affermare una cooperazione sociale su basi di radicale uguaglianza e libertà.

L’indagine sulle figure soggettive su cui può incardinarsi una critica non meramente “negativa” attraversa, in modi diversi, tutti i capitoli che seguono. Una preoccupazione di fondo è quella di descrivere le trasformazioni di quella che, con una categoria derivata dalla storia dell’operaismo rivoluzionario italiano, viene definita la “composizione” del lavoro vivo contemporaneo (ancora una volta: con lo sguardo rivolto a una molteplicità di contesti nella dimensione mondiale). La migrazione, in particolare, svolge qui un ruolo molto importante. Come indicano chiaramente i capitoli 1 e 2 della seconda parte, i movimenti e le pratiche dei e delle migranti contribuiscono a fare esplodere un’immagine della classe operaia caratterizzata da un’essenziale omogeneità (un’immagine che può essere fatta risalire a Marx, come mostra l’epilogo, e comunque molto influente dal punto di vista storico e politico). Quell’immagine era già stata radicalmente messa in discussione da un insieme di movimenti “interni” – in primo luogo dal femminismo. La migrazione intensifica l’eterogeneità costitutiva del lavoro vivo contemporaneo, ne riflette sintomaticamente l’intensità e costituisce un terreno fondamentale su cui studiare le vere e proprie sfide che politicamente ne derivano.

A fronte di questa eterogeneità, di quella che nel mio lavoro con Brett Neilson ho definito “moltiplicazione del lavoro”, non abbandono il concetto di classe ma cerco piuttosto (come si può vedere in particolare dall’epilogo) di riqualificarlo a partire dalla differenza – ponendo il problema che definisco, riprendendo un altro termine dai dibattiti operaisti, il “divenire classe della moltitudine”. Il concetto di classe viene così ripensato a fronte della realtà del capitalismo contemporaneo come concetto politico, a indicare la prospettiva di processi di soggettivazione di massa dei dominati e degli sfruttati che pongano le condizioni per l’istituzione di efficaci contropoteri – intesi come basi per un fronteggiamento del capitale che può alimentare tanto un riformismo radicale quanto una rottura rivoluzionaria. Si tratta di un problema che le analisi svolte nel libro contribuiscono a impostare, pur senza svolgerlo compiutamente. Molti sono i riferimenti, al contrario, allo sfrangiamento e alla diversificazione di quel “lavoro” attorno a cui la categoria di classe è stata storicamente costituita. Anche qui le migrazioni sono un terreno di ricerca privilegiato, come si può vedere leggendo la seconda parte del libro: ancora una volta sintomaticamente, le migrazioni mostrano infatti l’impossibilità di assumere una singola figura (a lungo identificata nell’operaio di fabbrica) come centro attorno a cui unificare la rappresentazione – tanto analitica quanto politica – del lavoro sfruttato dal capitale.

L’immagine della soggettività del lavoro vivo viene del resto complicata nel libro attraverso un confronto con esperienze diverse da quelle solitamente assunte come riferimenti standard nei dibattiti sulla classe operaia. La schiavitù e il colonialismo sono da questo punto di vista archivi storici fondamentali, che il capitolo 2 della terza parte studia ad esempio attraverso le opere di W.E.B. Du Bois e di Frantz Fanon. Tanto l’assoggettamento quanto la resistenza e l’insorgenza si presentano qui in forme peculiari, tendenzialmente senza alcuna mediazione, e queste forme sono oggi – nelle condizioni del capitalismo postcoloniale di cui si parla nel capitolo 1 della terza parte – diffuse a livello mondiale sia pure secondo modalità frammentarie e ibride. La critica deve registrare questa diffusione, e leggere oggi autori classici dell’anticolonialismo come Du Bois e Fanon è essenziale per forgiare concetti che ci consentano di comprendere una dimensione globale che registra continue emergenze degli spettri del passato.

L’analisi di quello che Marx chiamava il “lavoro come soggettività” – ovvero della composizione di classe di fronte a cui oggi ci troviamo – si muove dunque in un campo ampio, che non conviene restringere. Nell’epilogo, proprio in riferimento a Marx si problematizza la definizione stessa di classe operaia, ponendo questo termine in tensione con quello di proletariato nella lettura dei suoi scritti. È evidentemente una forzatura interpretativa, che raccoglie una suggestione di Étienne Balibar. Ma è una forzatura felice, perché consente di individuare tre diversi modelli di analisi della classe e della sua azione politica: un modello “francese”, caratterizzato dall’insorgenza proletaria all’interno di spazi urbani, un modello “inglese”, caratterizzato dalla lotta operaia in fabbrica nell’età della “grande industria”, e infine un modello “russo”, caratterizzato dalla lotta attorno alle forme del comune di quelli che possiamo definire (riprendendo una categoria gramsciana nella lettura postcoloniale che ne è stata proposta in India) “subalterni”. Si tratta di uno schema che è evidentemente pensato dal punto di vista del presente: i tre modelli in questione indicano i vertici concettuali di un triangolo analitico al cui interno ritengo che debba essere collocata l’inchiesta sulla composizione e sulle lotte di classe contemporanee. La classe, oggi, non ha nome – o ha molti nomi. È per molti aspetti un enigma, materialmente qualificato e in ogni caso imprescindibile per la teoria critica: lavorare attorno a questo enigma è quanto mi propongo di fare nei prossimi anni – all’interno di un mondo che rimane, oggi come allora, da guadagnare.

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