Di GIROLAMO DE MICHELE, MADDALENA FRAGNITO e COSTANZA MARGIOTTA
Un movimento per la scuola
L’impegno di “Priorità alla Scuola” parte dall’art. 34 della Costituzione italiana e dalla consapevolezza che ci troviamo nelle condizioni di doverlo aggiornare così: «La scuola [va] (ri)aperta a tutt*». A settembre la scuola deve essere riaperta, in sicurezza, senza intaccare l’orario in presenza e la continuità per tutte e tutti in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Contro il silenzio durato da aprile fino a giugno e contro il fragoroso rumore ineffettivo degli ultimi due mesi bisogna ripensare tutta la rete degli interventi educativi e scolastici a partire dagli asili nido fino all’università che soffrono di una strutturale assenza di sostegno da parte dello stato e che vanno ripensati in termini di qualità e gratuità. Il diritto all’istruzione non può essere contrapposto al diritto alla salute, entrambi sono sanciti dalla costituzione e da una lunga storia di lotte e conquiste sociali.
Priorità alla Scuola – fatto da educator*, genitori, insegnanti, student* e militanti – protesta perché sia garantito il godimento di un diritto costituzionale a bambin* e ragazz*, che dalla dichiarazione dello stato di emergenza per la pandemia sono stati «cancellati» per decreto, come dimostra l’incredibile rovesciamento dei discorsi cui abbiamo assistito: fino a febbraio il fiume di retorica sulle nuove generazioni che avrebbero costruito e salvato il “futuro”, poi improvvisamente giovan* e giovanissim* sono tornat* a occupare l’ultimo posto che gli spetta da decenni in questo paese. Questo movimento ha ripensato dopo decenni la scuola come corpo organico le cui componenti, student*, docenti, genitori, personale ATA ed educator* hanno ricominciato a dialogare su basi nuove e performative: la lotta ha creato nuove connessioni tra le soggettività, nel segno del superamento delle distinzioni astratte tra “lavoratori e lavoratrici del servizio” e “utenti”.
Priorità alla Scuola protesta perché pretende che il diritto all’istruzione si goda in una scuola migliorata, non peggiorata. Da questi mesi di pandemia, infatti, siamo uscit* con una rinnovata consapevolezza della centralità della scuola e del fatto che la scuola esiste se è in presenza. Non è possibile svuotare la sua funzione educativa delle componenti della socializzazione, dello sviluppo delle relazioni e dell’autonomia, della convivenza, dell’affettività e delle passioni, del confronto e della condivisione di ognun* con gli/le altr* in uno spazio pubblico, di cui si è allo stesso tempo fruitori e custodi. Questo movimento da mesi chiede, e continuerà a chiedere anche dopo la riapertura a settembre, che il governo restituisca all’istruzione pubblica quella centralità che è cruciale per il futuro di qualsiasi società, e la indichi tra le priorità.
Priorità alla Scuola non nasce in risposta a una legge o all’ennesima riforma scolastica, ma dal vuoto che le riforme degli ultimi vent’anni hanno lasciato. È un movimento intergenerazionale che va oltre le categorie del lavoro, che torna a confrontarsi e a lottare per ridare priorità e rimettere al centro un diritto, quello all’istruzione, da garantire in modo uguale a tutt* e allo stesso modo in tutti i territori.
Un movimento che lotta per la trasformazione in positivo della scuola pubblica a partire dalla sua necessaria e inderogabile riapertura a settembre in presenza, in sicurezza e in continuità. L’emergenza causata dal covid-19 ha solo fatto per la scuola da controprova, come per la sanità, delle condizioni disastrose in cui versava da più di un ventennio a causa della continua decurtazione finanziaria cui è stata sottoposta. Dalla pandemia, che nessuno vuole “sfidare”, si può solo ricavare un’unica lezione valida: che le emergenze non si fronteggiano senza servizi pubblici che funzionano, adeguati e universali. La pandemia rende possibile un ripensamento radicale della scuola e del suo posto nella società.
Priorità alla scuola
Dare priorità alla scuola non vuol dire semplicemente sapere la data in cui “finalmente” riaprirà, sebbene sia evidente che ogni giorno di scuola chiusa equivale a un aumento di dispersione e di abbandono scolastici, di perdita del lavoro soprattutto per le donne, dell’aumento della commistione tra tempi di vita e tempi di lavoro e dell’aumento del disagio socio-economico-culturale. La nostra priorità è pensare la cultura prima dei profitti; la salute pubblica, non solo in termini epidemiologici, prima degli interessi; il comune prima del privato. Per questo, già da metà aprile notavamo che le misure per la progressiva riapertura di fabbriche, uffici, esercizi commerciali, enti pubblici, e anche dei luoghi di ritrovo e di socializzazione erano state prese, mentre nessuna misura relativa alla riapertura delle scuole era stata ipotizzata. Dieci milioni di persone, di cui 8 milioni di student*, lasciate in sospeso per compensare un possibile rialzo dell’indice Rt dovuto alla riapertura dei settori produttivi che avevano dovuto chiudere in fase di lockdown.
La scelta intorno alle priorità per la riapertura graduale del paese era evidente già dai primi di maggio: scuole, biblioteche, università, centri culturali e musei in fondo. Assumersi, invece, la responsabilità di riaprire queste istituzioni pubbliche in sicurezza avrebbe significato assumere la prospettiva della cultura e non del profitto, avrebbe significato non cancellare per decreto i minori e giovani, spariti completamente dal dibattito pubblico pandemico italiano. Al contrario, il governo italiano ha scelto di relegare la propria esistenza alla sola funzione di vigilanza/tutela di interessi privati.
Priorità alla scuola significa dire basta alla retorica della cultura e del patrimonio in un Paese dove ha riaperto tutto tranne scuole, biblioteche e archivi. Non assumere la nostra prospettiva è alla base della doppia crisi dentro cui ci troviamo oggi: la crisi sanitaria, che non è affrontata nelle sue cause specifiche, ovvero in primis l’emergenza ambientale, e la crisi culturale, espressa specificamente dalla scelta di non “sostenere” la scuola perché considerata improduttiva.
Lavoro essenziale
Dare priorità alla scuola significa anche capire che il lavoro scolastico è un lavoro speciale e la scuola è un luogo fisico speciale, dove cominciano le nostre relazioni, quelle che poi ci definiscono e disegnano non solo il mondo in cui viviamo, ma anche il mondo che verrà. Bisogna uscire dalla retorica della “vocazione” e pensare la formazione come lavoro professionalizzato, come tutto il lavoro di cura d’altronde. Proprio per questo non dovrebbe essere quel lavoro indegno che è diventato: chi lavora a scuola svolge un servizio essenziale perché la scuola è essenziale. A partire da questa convinzione comune, dalla necessità di vivere meglio tutt* e dal desiderio di creare un mondo più equo ci battiamo per allenarci insieme a definire il confine di cosa è essenziale e cosa non lo è.
Dare priorità alla scuola dovrebbe significare che il corpo insegnante, così come sta succedendo per il reparto sanitario, ritorni a occupare quel ruolo sociale e culturale che ha ricoperto a lungo nel nostro paese. In questo senso hanno fatto bene le categorie di medici/infermier*/operator* sanitari a riappropriarsi della retorica dell’eroe che li ha investiti in questi mesi, risignificando simbolicamente quello slogan femminista “Se ci fermiamo si ferma il mondo” per trasformarlo in “Se ci fermiamo morite”: ottenendo così la stabilizzazione dei precari dopo 3 anni di contratto, ovvero conquiste sul piano del diritto al lavoro che erano bloccate da anni (https://www.infermieristicamente.it/articolo/12284/decreto-rilancio-dal-bonus-covid-alle-stabilizzazioni-precari-sanita-ecco-gli-emendamenti-approvati-).
Allo stesso modo bisogna agire per l’insegnamento e per tutto il reparto scuola: “Se ci fermiamo non c’è più società, non c’è più giustizia sociale, non ci sono più diritti, democrazia, formazione e trasformazione, non c’è crescita né futuro…”. Questo capovolgimento chiede, per essere attuato, che i/le docenti rivendichino il lavoro che compiono dentro la scuola come essenziale, che vuol dire rivendicare una scuola in presenza, in continuità e in sicurezza: una sicurezza declinata come prevenzione sanitaria e non come responsabilità individuale, sia questa del docente, del genitore o del dirigente scolastico. E vuol dire una scuola senza riduzione di tempo per una didattica di qualità e, insieme, senza l’introduzione casuale di competenze e moduli didattici non concordati collegialmente, inseriti con il solo scopo di tappare un buco.
Un capovolgimento che chiede di rivendicare l’essenzialità del lavoro di crescere persone libere, pensanti, capaci di pensiero critico,e un’immediata riapertura che si faccia carico di un suo rinnovamento, attraverso ciò che questa crisi sanitaria ci ha svelato implacabilmente: non vogliamo la scuola di prima del Covid, ma vogliamo una scuola riaperta più ricca, più inclusiva, più finanziata, “più tutto”, che sperimenti nuovi percorsi di formazione e definisca nuove modalità educative del presente: se la società deve cambiare, come anche questa crisi ci dimostra, la scuola deve diventare allora un terreno necessario da ri-occupare e un luogo di riappropriazione democratica dei saperi.
DaD or Alive?
Priorità alla scuola significa esprimere un no secco alla DaD (didattica a distanza) se da strumento emergenziale si fa strutturale. Il primo risultato della didattica a distanza è stato infatti confermare e approfondire le diseguaglianze sociali, economiche, linguistiche e culturali. La didattica a distanza non può sostituire la scuola; per quanto si possano discutere sfumature e specificità, questo vale per tutti gli ordini e gradi di istruzione. La DaD, che come dice qualcuno si scrive DaD ma si legge mum, è stato di certo uno strumento per l’emergenza, ma non può diventare parte strutturale della scuola: la scuola è infatti presenza, è relazione – è anche un luogo di conflittualità.
In più per gli/le student* diversamente abili, per quell* con disturbi dell’apprendimento e/o con bisogni educativi speciali, la DaD ha significato un isolamento che ha peggiorato il loro disagio e ha aumentato le difficoltà delle famiglie. La relazione con i/le compagn* di classe è condizione di reciproco apprendimento: allevia l’isolamento, moltiplica le occasioni di socializzazione e confronto, favorendo quel processo di reciproco riconoscimento e cura su cui solo può fondarsi una società aperta e rispettosa di ogni diversità.
Per figl* di migranti e richiedenti asilo, la DaD ha significato mesi di mancanza di garanzia dei diritti (nella stragrande maggioranza a questi/e minori è negata la cittadinanza), una riduzione significativa della padronanza della lingua italiana (soprattutto per i/le figl* di prima generazione migrante): una riduzione con cui si troveranno a fare i conti a settembre (non solo come lingua per la scuola ma spesso anche mero veicolo per la comunicazione quotidiana) là dove la c.d. ri-apertura della scuola non ha previsto alcuna soluzione di recupero. I dati sull’accesso degli/lle student* migranti alla DaD sono, non a caso, spaventosamente più bassi di quelli degli/lle student* italian*. Per non parlare dei dati, che si scopriranno drammatici a inizio nuovo anno scolastico, sulla dispersione e l’abbandono scolastico per gli studenti con un retroterra di migrazione. Dati che, peraltro, impongono il rilancio immediato della battaglia per lo “jus soli”.
Non si tratta di essere luddisti o di non volere aule studio e laboratori di tecnologia: si tratta di un uso e di una produzione di saperi critici della tecnologia che oggi sono più che mai necessari. Quello a cui noi diciamo no è la tecnologia come escamotage per spendere meno nel settore scuola pubblica e arricchire le piattaforme private. No quindi al tecno-soluzionismo del meno spazi e meno docenti (o, come diceva Gelmini, meno ore di lezione e più approfondimenti); no a un uso acritico delle piattaforme digitali (Amazon, Google, Apple e Zoom), quelle che hanno quadruplicato le loro azioni in borsa in questi mesi [vedi l’inchiesta “Prospering in the pandemic: the top 100 companies”, Financial Times, 19 giugno 2020 (https://www.ft.com/content/844ed28c-8074-4856-bde0-20f3bf4cd8f0)], quelle a cui lo Stato sta regalando i dati di tutti i componenti della scuola, quelle che non pagano le tasse, quelle che avrebbero dovuto darci un reddito in questi mesi in compenso degli accessi che hanno generato profitto.
I dati ci parlano di un’esasperazione delle disuguaglianze che nessun “device” regalato può colmare; i problemi non si nascondono sotto il tappeto, se si vogliono risolvere si affrontano dritti all’origine e da lì si risale: secondo l’Istat (dati relativi al 2018-19) il 33,8% delle famiglie non ha un computer o un tablet in casa, il 47,2% ne ha uno e solo il 18,6% ne ha due o più. La percentuale di chi non ne possiede almeno uno scende al 14,3% tra le famiglie con almeno un minorenne e al 7,7% tra quelle in cui almeno un componente è laureato; anche se il PC è presente, solo per il 22,2% delle famiglie è disponibile un computer per ciascun componente; 850.000 ragazzi tra i 6 e i 17 anni (il 12,3%) non hanno un PC o un tablet a casa e di questi più̀ della metà (470.000) risiedono nel Mezzogiorno; anche tra chi lo possiede, più della metà (57%) lo deve condividere con la famiglia e solo il 6,1% vive in famiglie dove ciascun componente ha a disposizione un proprio PC; eccetera.
Di conseguenza, la già altissima percentuale di abbandono scolastico (16%) cresce in questi mesi al 21,9% (dati del ministero dell’Economia) con picchi al sud del 39%: circa 1.600.000 studenti e studentesse tenuti fuori dalle lezioni da aprile in avanti.
Inoltre, lo strumento della DaD, usato in questo modo, è un ripetitore di pratiche di controllo oltremisura: pensiamo a un ragazzo, una ragazza, controllati dai genitori e controllati dagli insegnanti (pensiamo a ragazz* omosessuali, non-binary, incastrat* senza soluzione di continuità tra una scuola etero-normativa e parenti potenzialmente violenti); pensiamo anche alla libertà d’insegnamento, uccisa non solo dalla bidimensionalità da quarta parete della DaD, ma anche dal controllo dei genitori e dei dirigenti che possono disporre di tutte le lezioni che passano attraverso le piattaforme in uso.
Questo non è un paese per giovani e donne: infanzia, salute e privatizzazione del welfare
Dare priorità alla scuola significa affermare il diritto a un’istruzione degna di studenti e studentesse, il diritto a un lavoro dignitoso di tutto il corpo docente e ata, il diritto al lavoro che i genitori stanno o potrebbero occupare: un aspetto che non dobbiamo mai dimenticare e su cui il gioco si sta facendo più crudele se si pensa alla situazione già drammatica del servizio pubblico 0/6.
Più di 1 bambino su 4 in questo paese non accede ai servizi pubblici 0/6: un dato che si rispecchia nell’altissima percentuale di neomadri che chiedono le dimissioni dal lavoro. Come ogni anno, pochi giorni fa l’Ispettorato del Lavoro ha fatto uscire questi numeri che si ripetono uguali e peggiori da oltre un decennio (https://www.ispettorato.gov.it/it-it/studiestatistiche/Pagine/Relazione-annuale-sulle-convalide.aspx). Sono circa 40.000 le donne che non possono pensare di essere autonome se decidono di intraprendere una maternità. Insieme ad altri aspetti, questo dato sostanziale ci mostra dove origina e si riproduce la famiglia italiana, il nostro made in Italy familista e violento: i tagli all’istruzione e al welfare hanno comportato che qualcuna ha dovuto coprire quei tagli. I dati dell’Ispettorato al Lavoro di quest’anno ci hanno maggiormente colpit* perché ciò che accadrà l’anno prossimo non può essere nascosto così facilmente: il numero di neomadri che perderanno il lavoro sarà esponenziale.
Sappiamo che scuola e sanità sono due pilastri del Welfare che abbiamo conquistato dopo anni di lotte e che sono stati massacrati dai tagli e le esternalizzazioni degli ultimi decenni. In questi mesi, tutte le componenti della scuola (insegnanti, genitori, student*) hanno capito cosa gli viene tolto senza la sua apertura: hanno cominciato a ragionare fuori dalla propria categoria perché la scuola è uno strumento sociale necessario per costruire un presente migliore per tutt*. Uscire da sé stess* per comprendere l’altr* significa lottare insieme per ridare centralità sociale ed economica alla scuola nel paese.
Scuola come presidio sanitario
Dare priorità alla scuola significa capovolgere i termini del ricatto che vedono contrapposti diritto alla salute e diritto all’istruzione e tornare nell’ottica del bilanciamento dei diritti. La scuola deve anche essere finanziata e ripensata come presidio sanitario territoriale di base, essendo una delle istituzioni più capillari. Ridare fondi e nuova vita alle vecchie infermerie scolastiche, monitorare la salute di alunn* e famiglie, fare test gratuiti, costruire un nesso permanente fra educazione e sanità territoriale, sottolineando che la cura della salute non possa essere separata dalla cura dell’ambiente. Puntiamo il dito sullo smantellamento della medicina scolastica e sappiamo che per riaprire in sicurezza servono dei protocolli sanitari che consentano la rapida identificazione dei soggetti infetti e serve riportare i medici nelle scuole. La scuola come presidio sanitario non solo per l’emergenza covid-19 ma per una cultura della prevenzione sempre più necessaria davanti alle sfide che ci attendono. La crisi ambientale non finisce infatti con la fine di questa ennesima crisi: ristabilire un nesso virtuoso tra scuola, salute e ambiente è una delle principali battaglie che dare priorità alla scuola dovrà mettere al centro.
Infine, è necessario individuare chi avrà la responsabilità di decidere cosa bisogna fare se qualche alunn* si ammala a scuola: chiudere una classe, un piano o l’intera scuola? È chiaro che questa responsabilità non dovrà ricadere né sui docenti né sui Dirigenti scolastici: la decisione dovrà competere esclusivamente ai Servizi sanitari regionali.
Resta inteso che se non si investirà sulla prevenzione sanitaria, la sicurezza resterà ancora un fatto individuale, e la responsabilità di nuovi focolai sarà scaricata sui comportamenti individuali, assolvendo a priori una struttura inadeguata e inadatta al proprio dovere.
Se non vogliamo aprire la scuola a settembre per chiuderla a ottobre; se non vogliamo perdere il tempo pieno; se non vogliamo far passare sotto l’emergenza una riforma della scuola analoga al processo di privatizzazione del pubblico attuato negli ultimi anni sulla sanità, col modello-impresa fondato sulla valutazione e sulla gerarchizzazionee con la realizzazione di una scuola pubblica secondo i desiderata di confindustria e multinazionali; se non vogliamo (com’è già accaduto in questi mesi) continuare a nascondere le responsabilità politiche della mancata applicazione di modelli di cura adeguati: allora dobbiamo restare unit* – genitori, student* e insegnanti –, esigere che il virus sia curato attraverso la sanità pubblica, e che la scuola pubblica sia una priorità da finanziare adeguatamente affinché un rinnovato nesso tra salute e istruzione abbia personale e sedi adeguate.
Infine, la questione della responsabilità di come e quando riaprire le scuole in sicurezza la ritroviamo anche a un altro livello. Il Divide et Impera del governo sembra per i più – ma non per noi – aver funzionato a dovere: il governo, per non assumersi la piena responsabilità della riapertura in sicurezza di tutte le scuole pubbliche italiane di ogni ordine e grado ha diviso i compiti tra regioni, comuni, Uffici Scolastici Regionali e Territoriali e Dirigenti Scolastici. Da mesi è tutto un accettare e delegare maggior autonomia e minor rischi. Nella stretta fra il livello locale e il centro ministeriale, la scuola rischia di venir letteralmente stritolata. In questa situazione, a rimetterci saranno sempre gli stessi: minori, migranti, disabili, lavoratori e lavoratrici della scuola e lavorat* tout court, perché i genitori devono mangiare.
La scuola che vogliamo
La scuola che vogliamo è la prefigurazione di una diversa idea di società, così come le pratiche di solidarietà attuate durante il lockdown e le rivendicazioni dei lavoratori e delle lavoratrici della cura e della sanità lo sono state.
Il tempo pieno (sebbene ancora in troppe aree del paese non si sappia cosa sia e in altre sia stato sostituito con il modello delle 40 ore) ha bisogno di spazi adeguati, di personale ATA e docente assunto e non precarizzato e, infine, di un aggiornamento della didattica e una sperimentazione pedagogica capaci di far fronte alle trasformazioni radicali che il presente si deve assumere per creare futuro.
Se i finanziamenti concessi fino a oggi hanno un significato, per il governo la scuola vale meno di Alitalia e della FCA. Per contro, noi chiediamo una maggiore spesa pubblica per l’Istruzione, la Ricerca, la Cultura, come per la Sanità e per altri servizi essenziali. Priorità alla scuola significa ottenere un impegno ufficiale sull’utilizzo dei fondi europei: anche dopo la riapertura della scuola a settembre continueremo a lottare perché una parte cospicua dei fondi del Recovery Fund venga destinata alla scuola, e lotteremo insieme ad altr* per far atterrare quel fondo a sostegno della riproduzione sociale della vita (cura, Sanità, Scuola e Università, riconversione ecologica ecc.): questa è la sfida che oggi non possiamo rimandare. Chiediamo che si aumenti di almeno un punto percentuale, dal 2020 in avanti, l’investimento pubblico che la nostra società impegna per la scuola.
Il motto “di cultura non si mangia” che ha imperversato nell’ultimo quindicennio in Italia è quello sotto cui si sono fatti i tagli più feroci, dalla Gelmini alla “Buona scuola”, ma è anche quello per cui noi tutt*, come società civile e come sindacati, abbiamo lasciato fare in un momento dove l’aumento delle disuguaglianze, dello sfruttamento, della povertà, insieme alla maggior ricchezza di composizione sociale all’interno delle nostre città, avrebbe invece richiesto un’attenzione e investimento doppi. Oggi è il tempo di quadruplicare attenzione e investimenti.
Mobilitazione sociale generalizzata
Mentre scriviamo questo documento, i sindacati statunitensi che rappresentano 1.7 milioni di insegnanti sono sul punto di proclamare lo sciopero in risposta alla preannunciata riapertura delle scuole se non saranno garantite le indispensabili misure di sicurezza, a partire dai finanziamenti che finora non si avvicinano neanche al necessario per tutelare la salute di student* e lavorator* della scuola: a dimostrazione del carattere globale delle questioni che poniamo ([https://www.washingtonpost.com/education/2020/07/28/teachers-may-walk-out-safety-strikes-if-forced-into-unsafe-schools-union-leader/).
In Italia come nel mendo, la scuola è un problema di tutt*: da qui a settembre continueremo a impegnarci per capire quali possono essere i processi di organizzazione e di lotta all’altezza della sfida che abbiamo lanciato, nella consapevolezza che bisognerà mantenere, garantire e rafforzare l’articolazione che abbiamo costruito in questi mesi fra genitori, student*, insegnanti e personale ATA.
Per tutto questo, per insorgere in una prospettiva comune, abbiamo deciso di lanciare una mobilitazione nazionale il 26 settembre 2020, e stiamo lavorando per sollecitare e coinvolgere tutte le realtà di movimento e i sindacati della scuola, i sindacati di base e confederali, oltre a tutte le realtà che da maggio hanno dato corpo a Priorità alla Scuola.
Abbiamo scelto il 26 settembre perché le scuole saranno state riaperte – sebbene richiuse di nuovo per quel tratto in cui noi metteremo fiori nelle loro urne – e tutt* (student*, genitori, docenti e ATA) ritroveremo la scuola disastrata più di prima, e non troveremo la scuola migliorata che chiediamo da mesi.
Siamo consapevoli del peso che graverà sulle spalle, per essere il primo settore del mondo del lavoro che torna a mobilitarsi in un autunno che si preannuncia drammatico. Nella fase post-pandemica sarà necessario pensare un nuovo diritto del lavoro per il lavoro emergente (si pensi anche solo allo smart working): noi pensiamo che la scuola, proprio perché è attraversata da tutte le trasformazioni del lavoro – dal lavoro a distanza alla precarizzazione – possa impugnare per prima questo tema centrale di democrazia sindacale.
Ma siamo anche consapevoli di quanto possa essere importante una mobilitazione sociale generale – uno sciopero sociale, generale e generalizzato – per la prima volta incentrata sulla scuola.
Una mobilitazione generale che nelle sue intenzioni vuole essere significativa e significante: un paese intero che si ferma per la scuola perché “senza scuola non ci sono diritti”. Uno sciopero sociale perché la scuola non è solo un problema di un settore o di alcune categorie di lavoratori e lavoratrici: è ora di difendere la scuola per migliorarla e ridarle il ruolo sociale fondamentale che dovrebbe occupare nel paese. La scuola deve tornare a essere luogo di formazione e trasformazione, di relazione e ascensore sociale, di autonomia dai genitori e di chi ne fa le veci e dall’ambiente sociale di provenienza: uno spazio di giustizia, di libertà, di pratiche conflittuali e di crescita comune e collettiva, in un paese che si dice democratico e sociale.
A partire da questa considerazione, è importante lavorare insieme nella costruzione della giornata del 26 settembre, trovando le parole chiave, intuendone il linguaggio o articolandone di diversi per arrivare ovunque. Chiediamo a tutt* quell* che hanno capito la necessità di un movimento che torna a imporre la centralità della scuola, di fare uno sforzo di unione per una mobilitazione sociale generalizzata che fermi il paese per un sabato! Perché senza scuola non ci sono diritti.