di GIROLAMO DE MICHELE.

Per chi da anni sostiene che scuola e FIAT siano due luoghi di sperimentazione in vitro dei processi di disciplinamento e controllo, e al tempo stesso di svuotamento sostanziale dei contenuti della costituzione, la riforma Boschi-Renzi offre numerose conferme. Basterebbe il giubilo col quale la ministra Giannini ha accolto la notizia del mancato referendum sulla Buona Scuola: quando si festeggia l’assenza di un confronto democratico con la pubblica opinione, qualcosa del senso della democrazia partecipativa in tutta evidenza si è perso. Quella democrazia della quale la scuola dovrebbe essere uno dei laboratori critici, e del quale la ministra, che pure sarebbe esperta di parole, non sembra conoscere il significato: una buona ragione, ne mancassero altre, per mettere in conto che con la vittoria del NO dovrebbe andarsene, con Renzi, anche Giannini – Que se vayan todos!

Restando sul piano della forma – che in diritto è sempre sostanza, cioè espressione di rapporti di forza –, questa riforma, come hanno argomentato i vari Rodotà, Zagrebelsky, Galli, solo per citare i primi che vengono in mente, disegna un passaggio dalla polifonia della democrazia parlamentare comprensiva di molteplici istanze e corpi intermedi alla democrazia plebiscitaria, o quantomeno “d’investitura rafforzata” – se non Mussolini, senz’altro Crispi e Fanfani (che però fallirono). Una vera e propria rivoluzione dall’alto, argomentata con la necessità di adeguamento all’ordinamento economico mondiale, con la velocità delle procedure, con la retorica “nuovo=buono Vs vecchio=cattivo”, e con la cattiva enfasi (verso la quale anche alcuni illuminati esponenti del SI mostrano disgusto) sulla “riduzione dei costo della politica”, con la quale il decisionismo renziano si confonde, a parità di strumento retorico, col populismo non solo grillino, creando pericolose aree d’indistinzione populistica nelle quali affiorano esternazioni securitarie, xenofobe, sovraniste con le quali il renzismo ritiene forse di giocarsi la prossima partita politica.
Se non ché questa magniloquenza del nuovo, veloce e semplice si nutre di vuote parole che sperano di autoavverarsi attraverso la reiterazione dell’enunciato, e non mediante la certa dimostrazione. I processi legislativi non hanno alcun bisogno di essere velocizzati, perché oltre l’80% delle leggi è approvato in seconda lettura, senza rimbalzi: nella precedente legislatura, 301 su 361.

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Per chi sostenesse che la percentuale non è indice di qualità, vale ricordare l’estrema velocità con la quale, in poche settimane, sono state approvate Legge Fornero, Fiscal Compact (con i tempi contingentati a 10 – dieci – minuti di parola per gruppo parlamentare!), Trattato di risoluzione unica sul risanamento bancario, Decreto Irpef sugli 80 euro, Legge di stabilità 2015 e 2016, Decreto del fare, Decreto salva Roma, e l’introduzione in Costituzione del pareggio di bilancio. Non a caso, sottolineando la rapidità di approvazione delle leggi proposte dai governi contrapposta alla lentezza delle leggi di iniziativa parlamentare, Openpolis ha parlato di “leggi lepre e leggi lumaca“.
Fra le leggi lepre, la Buona Scuola: blindata con la fiducia sia alla Camera che al Senato (dove è stato eliminato, benché fosse legge di spesa, il voto in commissione), approvata senza confronto democratico nel parlamento e nel paese in poche settimane; salvo attendere ancora i decreti attuativi, che pure non necessitano di passaggio parlamentare, ma che da 16 mesi mancano, col conseguente caos procedurale che ogni scuola verifica ad ogni livello giorno dopo giorno.

Peraltro, non è detto che la velocità sia un valore: «se devi andare all’inferno, è meglio che tu vada piano», sentenziava il vecchio Alihodgia nel Ponte sulla Drina di Ivo Andric. Se devi scrivere una legge, è bene che sia scritta con calma, che siano verificate le parole, che il controllo di una camera sull’altra ne evidenzi le incongruenze e i punti deboli, piuttosto che avere una legge rapida ma inapplicabile, e magari impallata dalla Corte Costituzionale perché malscritta col latte sul fuoco. Lo ricordavano un tempo contro la celerità a colpi di fiducia dei governi Berlusconi – “la politica moderna fugge i barocchismi del parlamentarismo”, si sentiva dire all’epoca – alcuni degli attuali sostenitori del SI: festina lente.

Quanto alla retorica del nuovo Vs vecchio, essa nulla dice sul valore qualitativo di vecchio e nuovo, né sulla fallacia logica che prevede una sola alternativa, e non molte fra diverse novità e diverse cose vecchie, o presunte tali. Lo si vede nel concreto della scuola nuova, cioè sedicente “buona” (grazie alla penna di un mediocre scrittore prestatosi a una mediocre politica che ha prodotto una men che mediocre riforma): dove il nuovo significa meno ore di scuola (da 200 a 400, a seconda delle tipologie, sottratte alla didattica e regalate all’impresa spesso sotto forma di alternanza scuola/lavoro gratuito, cioè nero ma legalizzato) rispetto alla precedente riforma di Gelmini, che già ne aveva tagliato in abbondanza – «meno ore, più approfondimenti», diceva Gelmini. Del resto, in quest’orgia di uomini e donne nuovi e nuove capita che ci si dimentichi che ci sono ministri e ministre dell’attuale governo (Alfano, Lorenzin, Costa, Gentile, Vicari, Galletti, Toccafondi) che hanno avuto la ventura politica di votarla, la riforma Gelmini.

I tagli dei costi, infine: pessima magniloquenza che nulla dice sulla qualità dei costi, posta l’esiguità della quantità.

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E che soprattuto meno che nulla mostra di sapere sulla legittimità o meno dell’equivalenza fra il servizio prestato e la retribuzione versata. Il che dice però molto su quanto lontana da ogni parvenza di “sinistra” sia questa cultura che dimentica la critica del lavoro salariato e la differenza fra valore di scambio e valore d’uso nella retribuzione di qualsivoglia lavoratore, dal salariato al deputato. Ma non l’abbiamo vista all’opera sulla carne viva della scuola, questa lingua falsa e bugiarda che parla di tagli dei costi per significare invece abbattimento della qualità della didattica in ogni ordine e grado del sistema-istruzione – una vera e propria raffica di molotov governative gettate contro il sapere critico e il diritto alla cittadinanza attiva, in una parola contro l’art. 3.2 della Costituzione che assegna(va) alla Repubblica «il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana»?

In altre parole, essi mentono!
E quando c’è bisogno di ricorrere alla menzogna per sostenere le proprie ragioni, vuol dire che c’è ragione sufficiente per avversarle, quelle ragioni.

Ma questa è, alla fin fine, accademia: perché la vera riforma costituzionale è già avvenuta, con lo svuotamento progressivo della costituzione formale “fondata sul lavoro” e l’attuazione di una costituzione materiale di fatto che decostituzionalizza le procedure politiche, sottraendole al controllo politico e democratico e trasferendole in contesti sovranazionali o extraparlamentari (dalla Commissione Europea a Confindustria, per dirne due), o all’interno di atti con valore di norma – circolari, regolamenti attuativi, note esplicative – fondate su termini dal valore apodittico quali semplificazione, velocità, governabilità, decisione, spread (taci: lo spread ti ascolta!). Questa riforma serve solo a sancire la forma dell’avvenuto passaggio, a stringere qualche bullone e oliare qualche giunto. Non era successa cosa diversa alla scuola: il potere concentrato nelle mani del dirigente scolastico, lo svuotamento degli organi collegiali, la frantumazione della comunità educante e del sistema nazionale d’istruzione, fino alla subalternità agli interessi dell’azienda erano già attuati nei diversi passaggi da Berlinguer a Gelmini,via Moratti e Fioroni. La Buona Scuola ha solo dotato il sistema di un quadro giuridico coerente, o presunto tale.

Perché opporsi, allora? In primo luogo, perché è l’unico modo di stare al mondo in modo degno: «Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte», canta il Poeta. In secondo luogo, perché questo NO è la prima occasione che ci è data, come cittadini e come lavoratori della scuola, per opporsi alle politiche che queste riforme hanno prodotto: per cominciare a invertirne il segno, ora che il caos della Buona Scuola, il fallimento del Jobs Act, la coriandolarizzazione del tempo di vita nei vaucher, la cartolarizzazione delle esistenze cominciano a essere palesi.
Dicono: ma se vince il NO, quale governo? Ennesimo falso ragionamento: come se stesse ai governati, e non ai governanti, di saper governare. Ai governati spetta il diritto di esercitare la critica politica, facendo cadere non gli uomini e le donne, ma le politiche di questo e dei precedenti, indistinguibili governi, e di far strage delle loro illusioni di governabilità, efficienza, e performatività. Come afferma un Appello di docenti per il NO:

Al mito della velocità opponiamo il tempo della riflessione, alla meritocrazia l’impegno responsabile, all’esaltazione della semplificazione banalizzante la capacità di cogliere la complessità, alla governabilità il buon governo, alle false promesse di risparmio l’investimento in democrazia, al decisionismo l’equilibrio dei poteri, alla cultura del capo la partecipazione consapevole, alla logica maggioritaria il valore del pluralismo, al pensiero unico il pensiero plurale e critico.

Un NO costituente, dunque, che deve prolungarsi oltre il 4 dicembre, senza ambigue e spurie mescolanze con populismi e sovranismi di sorta, in nome di una nuova costituzione e di una nuova scuola fondate non sul lavoro come sfruttamento delle vite e sottrazione della ricchezza e dei saperi comuni, ma su quel comune, su quella social catena che confedera gli uomini senza considerarne alcuno illegale: su quel «verace saper, l’onesto e il retto conversar cittadino, e giustizia e pietade», e su quella rinnovata scuola che deve concorrere a produrre queste libere e autonome soggettività.

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