Di ROBERTA POMPILI

La grande manifestazione di Londra in sostegno della libertà in Palestina e contro la guerra di Israele è il sintomo di una trasformazione delle politiche internazionali e internazionaliste. La Palestina non è solo in un territorio colonizzato, lacerato da violenze e conflitti. La Palestina è ovunque. Lo abbiamo visto con lo straordinario sciopero che ci è stato ad Israele che ha visto una partecipazione altissima di lavoratrici e lavoratori come non accadeva da lunghissimo tempo. Lo abbiamo visto con le mobilitazioni che si sono date nel nostro paese, dove spesso, una nuova generazione di attivist* palestinesi e non, si è mobilitata per denunciare le drammatiche vicende a Gerusalemme e a Gaza. Questa generazione di giovani, spesso diasporica, ha incrociato inoltre il protagonismo di altr* giovani, ebrei israeliani, ma anche italiani che hanno dato vita ad azioni di visibilità politica con l’intento di denunciare la violenza delle truppe di occupazione e dello stato israeliano (penso alle immagini di foto di questi ragazzi e ragazze che sono girate su Facebook con la scritta Not in My Name). Queste mobilitazioni hanno molti più elementi di contatto con gli altri movimenti transnazionali e globali che si stanno dando nel mondo (ambientalisti, femministi e antirazzisti), che non con le retoriche e pratiche dei vecchi movimenti internazionalisti.

Le convocazioni delle piazze per la Palestina sono state spesso organizzate da associazioni studentesche (è il caso di Perugia), e non dalle vecchie formazioni politiche storiche. Piuttosto che soffermarsi sulla rivendicazione classica di uno stato per i palestinesi, la cui esistenza sembra in una fase molto complicata, le mobilitazioni si sono concentrate su richieste di diritti concreti e materiali: il diritto alla casa (Israele via, via Palestina casa mia), il diritto alla vita. Non è un caso che online si possono trovare molti manifesti in cui campeggia una grande scritta con lo slogan: non possiamo respirare dal 1948! Il legame con l’omicidio di George Floyd e con la violenza strutturale e sistemica dell’America razzializzata è evidente.

D’altra parte sono anni che le lotte dei Palestinesi si sono intrecciate dentro i movimenti intersezionali come negli Stati Uniti e la richiesta della fine della politica imperiale statunitense in Medio oriente con il suo sostegno alle politiche di Israele è stata assunta dal movimento di Black Lives Matter, in quello della lotta per l’assistenza sanitaria pubblica, e della lotta contro i Dakota access Pipeline. Tali movimenti transnazionali si impegnano nello spazio globale razzializzato del capitale e dentro questo agiscono la capacità di produrre connessione insieme sia virtuale e fisica costruendo alleanze, nuovi assemblaggi di responsabilità, linee di fuga cospirative e punti di affinità.

Ma facciamo un passo indietro per ricostruire qualche passaggio sicuramente parziale, ma significativo, riguardo ai processi di produzione una nuova sensibilità e nuove pratiche internazionaliste. Jasbir K. Puar nel suo testo The right to main, racconta le mobilitazioni americane nell’estate del 2014, quando la polizia ha sparato a Michael Brown a Ferguson, nel Missouri, la stessa estate dell’Operazione Margine di Protezione, l’assedio israeliano di Gaza di un giorno. Gli organizzatori che protestavano contro questi eventi, apparentemente diversi, hanno iniziato a tracciare connessioni, relazioni materiali tra l’occupazione israeliana della Palestina e la militarizzazione della polizia a Ferguson: ad esempio, gli attivisti di Ferguson ricevevano su Twitter i consigli dei palestinesi su come alleviare l’esposizione ai gas lacrimogeni. Le descrizioni del contenimento militarizzato dei civili a Ferguson hanno fatto da eco a quelle dell’occupazione coloniale della Palestina. Dopo un po’ di tempo la cornice “Ferguson to Gaza” ha iniziato a prendere piede come frame organizzativo.

La stessa studiosa e attivista Angela Davis ha, in quella circostanza, evidenziato i collegamenti delle lotte comuni contro il terrorismo di stato, riflettendo sull’importanza del femminismo nero, dell’intersezionalità e dell’abolizionismo carcerario per le lotte odierne. I forum da Ferguson a Gaza hanno cercato di correlare la produzione dello spazio dei coloni, la vulnerabilità e il degrado dei neri e corpi marroni, le richieste di giustizia attraverso solidarietà transnazionali, e il complicato funzionamento del colonialismo negli Stati Uniti e Israele. In quella circostanza sono state indagate e messe a confronto le vite negli Stati Uniti e in Palestina e il rapporto tra disabilità e morte, cosi che sono emerse anche le differenze nelle pratiche di sicurezza, biopolitica e razzializzazione. La brutalità della polizia americana nei confronti di uomini e donne nere, in particolare, mostrava una definitiva tendenza a mirare alla morte, spesso sparando numerosi proiettili in un corpo disarmato, soggiogato e tuttavia presumibilmente minaccioso – eccedente. Nei calcoli tattici israeliani del dominio coloniale prevaleva la tendenza a creare danni e mantenere le popolazioni palestinesi come perennemente debilitate, seppure vive, per poterle meglio controllare. “Sparare per mutilare” piuttosto che per uccidere è apparentemente una pratica umanitaria, ma che lascia molti civili “permanentemente disabili” in un territorio occupato dove gli ospedali sono distrutti, le forniture mediche razionate e le risorse scarse.

Sia il diritto sovrano di uccidere, sia il diritto di mutilare sono elementi chiave nella logica razziale biopolitica della sicurezza e fanno parte della deliberata intenzione di debilitare una popolazione, renderla maggiormente vulnerabile, ricattabile, precarizzata, aumentare la pressione per sui corpi esposti a spossessamento e sfruttamento. Entrambi sono mobilitati per rendere il potere visibile sul corpo. Puar ci racconta come i confronti, i collegamenti e le risonanze affettive tra Ferguson e Gaza non sono stati sempre perfettamente allineati, e non sempre si sono date alleanze immediate. Ma questi sforzi uniti dalla comune resistenza al controllo violento delle popolazioni riflettevano i desideri di reciprocità, intersezione e co-costituzione come aspetti fondativi della solidarietà nello spazio globale del capitalismo contemporaneo.

Ritorniamo alle piazze internazionali con cui abbiamo aperto questa nota. Oltre 30 manifestazioni in tutta Italia, a Roma con la significativa presenza di colombiani, piazze di tutta Europa e negli Stati Uniti, mobilitazioni in Turchia in Medio Oriente e in contemporanea tanti altri paesi: questi dati indicano che il regime di apartheid coloniale e razzista israeliano dovrà misurarsi con un nuovo rinato internazionalismo e a noi che nuove coalizioni sociali si aprono dentro e oltre le divisioni del capitalismo globale.

La foto in copertina è di Monte Cruz Foto.

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