DI MARCO BASCETTA. L’«Europa delle nazioni» non è purtroppo solo lo slogan delle destre nazionaliste in ascesa nell’intero continente, ma è già in buona misura l’Europa che andrà alle urne domenica prossima. Come dimostra la vicenda, a dir poco surreale – e ora al buio, con le dimissioni alla fine arrivate di Theresa May – del voto nel Regno unito della Brexit, insieme fuori e dentro l’Unione europea, per scelta sovranista e assenso della leadership di Bruxelles.

L’UNIONE EUROPEA, i suoi assetti e il suo futuro, nella coscienza dei cittadini così come nei calcoli delle forze politiche, è una posta che entra in gioco solo in seconda o terza battuta.

Non vi è paese, infatti, nel quale la priorità non consista manifestamente nel misurare i rapporti di forza tra le formazioni politiche nazionali, per giunta in una prospettiva di breve periodo. Ancora di più per la maggioranza degli elettori per i quali le situazioni politiche nei 28 paesi membri dell’Unione e le correnti che le attraversano sono un confuso puzzle filtrato dall’interpretazione interessata dei leader nazionali e le istituzioni comunitarie un labirinto rappresentato, nei suoi aspetti malvagi o benefici, secondo le convenienze della propaganda.

Le proposte di politica europea che i partiti non possono esimersi dal formulare hanno più un valore retorico volto a sottolineare la propria identità ideologica che non una prospettiva razionalmente argomentata e politicamente consistente. Questo vale, sebbene non nella medesima misura, sia per gli euroscettici che per gli euroentusiasti. I primi si trovano, infatti, nella paradossale condizione di aspirare a una rappresentanza votata ad accrescere la propria irrilevanza in un organismo già abbastanza ininfluente.

IL PARLAMENTO EUROPEO, insomma, non avrebbe per costoro altra utilità che quella di una tribuna, come i rivoluzionari d’un tempo consideravano in generale le assemblee parlamentari, dalla quale far risuonare la propria propaganda politica. Fino all’assurdo della rappresentanza eurodemolitrice britannica guidata da Farage.

Gli euroentusiasti si dividono, invece, tra i sostenitori degli attuali assetti e i fautori di un «cambiamento» dai contorni incerti e dalle proiezioni fumose. Ma anche tra loro gli equilibri domestici hanno, almeno nella maggior parte dei casi, una evidente priorità. Se in questo scenario i meschini interessi di bottega fanno la loro parte è anche vero che l’impossibilità di vere liste transnazionali. l’architettura generale dell’Unione e i Trattati ne costituiscono il sostrato strutturale. L’Europa attuale è infatti il prodotto di una contrattazione tra sovranità nazionali abbarbicate alle proprie prerogative, sempre tese a riconquistare negli organismi dell’Unione in un’ottica di lottizzazione le porzioni di sovranità che sono state costrette a cedere.

SULLA BASE DEI RAPPORTI di forze che intercorrono tra i diversi stati. Lo stesso «europeismo» si esprime spesso e volentieri nei termini dell’interesse nazionale. Il fatto che esista una burocrazia europea dotata di relativa autonomia (come quella di cui gode un direttore generale di ministero o qualunque alto funzionario «di carriera») non cambia molto alla natura interstatale, più che sovranazionale dell’Unione. Lo statuto della Bce non discende da una investitura celeste, o da una «congiura cosmopolita», ma da un accordo tra stati nazionali impregnati di dottrina e pratica neoliberale. E, tuttavia, l’Ue non è un fantasma.

Da questa contrattazione tra stati sono comunque scaturiti strumenti di tutela e diritti insieme a strumenti di sfruttamento e disciplinamento economico. Ma soprattutto si è creato uno spazio, mentale e materiale, ormai largamente praticato e al quale, soprattutto le nuove generazioni, non hanno alcuna intenzione di rinunciare, tornando a subordinarsi interamente al controllo degli stati di provenienza o di destinazione. Solo uscendo dalla retorica dei valori “cosmostorici» per assumere il punto di vista di questo europeismo vissuto e reale l’Europa può procedere verso una più solida cittadinanza comune che trovi in una dimensione politica diversa dalle sovranità statali la controparte del mercato. Che proprio qui risiede l’equivoco e l’inganno più insidioso secondo cui lo stato nazionale costituirebbe l’unica difesa possibile dal cinismo «cosmopolita» del capitale.

Da tutto questo non consegue che le elezioni europee siano solo uno sfarzoso rito senza importanza, da consumarsi a giochi ormai conclusi. Il carattere interstatale dell’Unione può risultarne ulteriormente accentuato e la natura degli stati che lo animano inclinare verso un nazionalismo sempre più aggressivo verso l’esterno e autoritario verso l’interno.

L’ATMOSFERA che si preannuncia nell’intero continente all’indomani delle elezioni rischia di diventare estremamente velenosa, ma ancora una volta alimentata da quella che si respirerà nelle singole nazioni. Sul piano strettamente elettorale queste restano un filtro obbligato che preclude qualsiasi rapporto diretto con la dimensione europea. E la campagna elettorale cui abbiamo assistito in queste settimane rispecchia interamente il protagonismo delle politiche nazionali, che questo si mascheri dietro la drammatizzazione di uno scontro tra civiltà e barbarie o pretenda, per le rispettive «patrie», un più comodo posto al sole europeo.

Fino a quando l’Europa resterà ostaggio delle politiche nazionali resteremo a nostra volta costretti, per evitare il peggio, a segnare una presenza su questo terreno. Consapevoli del fatto che il 26 maggio si tratterà di un segno, soprattutto in Italia, debole e incerto.

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