Di MICHAEL HARDT e SANDRO MEZZADRA

Sembra che siamo entrati in un periodo di guerra senza fine, che si estende in diverse parti del pianeta e che destabilizza anche i punti centrali del sistema mondo. Ogni conflitto contemporaneo ha una sua genealogia e delle sue poste in gioco, ma vale la pena fare un passo indietro e collocarle in un quadro più ampio. La nostra ipotesi è che stia emergendo un regime di guerra globale, in cui la governance e le amministrazioni militari sono strettamente intrecciate con le strutture capitalistiche. Per afferrare le dinamiche delle singole guerre e formulare un progetto di resistenza adeguato, è necessario comprendere i contorni di questo regime.

Sia la retorica che le pratiche della guerra globale sono cambiate radicalmente dall’inizio degli anni Duemila, quando lo “Stato canaglia” e lo “Stato fallito” erano concetti ideologici chiave per spiegare lo scoppio dei conflitti militari, che erano per definizione confinati alla periferia. Il presupposto era un sistema di governance internazionale relativamente stabile e funzionante, guidato dagli Stati nazionali dominanti e dalle istituzioni globali. Oggi questo sistema è in crisi e non è in grado di mantenere l’ordine. I conflitti armati, come quelli in Ucraina e a Gaza, stanno coinvolgendo alcuni degli attori più potenti sulla scena internazionale, evocando lo spettro dell’escalation nucleare. La teoria del sistema mondo ha tradizionalmente considerato tali sconvolgimenti come segni di una transizione egemonica, come quando le guerre mondiali del XX secolo segnarono il passaggio dall’egemonia globale britannica a quella statunitense. Nel contesto attuale, tuttavia, le fratture e gli stessi conflitti militari non sembrano preludere a un trasferimento di potere; il declino dell’egemonia statunitense inaugura semplicemente un periodo in cui la crisi è diventata la norma.

Proponiamo il concetto di “regime di guerra” per afferrare la natura di questo periodo. Il concetto di regime di guerra può essere compreso, innanzitutto, in riferimento alla militarizzazione della vita economica e al suo crescente allineamento con le esigenze della “sicurezza nazionale”. Non solo la spesa pubblica è destinata agli armamenti, ma lo sviluppo economico nel suo complesso, come scrive Raúl Sánchez Cedillo, è sempre più plasmato da logiche militari e di sicurezza. Gli straordinari progressi dell’intelligenza artificiale sono in gran parte alimentati da interessi militari e tecnologie per applicazioni belliche. Anche i circuiti logistici e le infrastrutture si stanno adattando ai conflitti e alle operazioni armate. I confini tra l’ambito economico e quello militare stanno diventando sempre più labili. In alcuni settori economici sono indistinguibili.

Il regime di guerra si manifesta in modo evidente anche nella militarizzazione del campo sociale. A volte questo assume la forma esplicita della soppressione del dissenso e della chiamata a raccolta attorno all’unità nazionale. Ma il regime di guerra nutre anche, più in generale, un tentativo di rafforzare l’obbedienza all’autorità a molteplici livelli sociali. Le critiche femministe alla militarizzazione hanno da tempo evidenziato non solo le forme tossiche di mascolinità che essa mobilita, ma anche l’influenza distorsiva delle logiche militari su tutte le relazioni e i conflitti sociali. Diverse figure di destra – Bolsonaro, Putin, Duterte – esplicitano il collegamento tra il loro ethos militarista e il loro sostegno alle gerarchie sociali. Anche quando questo non viene esplicitato, possiamo osservare la diffusione di un repertorio politico reazionario che combina il militarismo con la repressione sociale: il rafforzamento delle gerarchie razziali e di genere, l’attacco e l’esclusione dei migranti, il divieto o la limitazione dell’accesso all’aborto e la violazione dei diritti di gay, lesbiche e trans, il tutto spesso invocando la minaccia di una guerra civile incombente.

Il regime di guerra emergente è visibile anche nell’apparente paradosso dei continui fallimenti delle recenti campagne di guerra egemoniche. Da almeno mezzo secolo, l’esercito statunitense, nonostante sia la forza militare più riccamente finanziata e tecnologicamente avanzata del pianeta, non ha fatto altro che perdere guerre, dal Vietnam all’Afghanistan e all’Iraq. Il simbolo di questo fallimento è l’elicottero militare che porta via l’ultimo funzionario americano rimasto, lasciando dietro di sé distruzione e violenza, destinate a condizionare per decenni lo sviluppo sociale, politico ed economico. Perché una macchina da guerra così potente continua a “fallire”? Una risposta ovvia è che gli Stati Uniti non sono più l’egemone imperialista che alcuni credono che continui a essere.

Tuttavia, questa dinamica di “fallimento” rivela anche la struttura di potere globale che questi conflitti contribuiscono a sostenere. A questo proposito, vale la pena ricordare il lavoro di Foucault sul perpetuo fallimento della prigione nel raggiungere i suoi obiettivi dichiarati. Fin dalla sua nascita, osserva Foucault, il sistema penitenziario, apparentemente dedicato a correggere e trasformare i comportamenti criminali, ha costantemente fatto il contrario, aumentando la recidiva, trasformando i colpevoli in delinquenti e così via. «Forse», suggerisce, «bisogna rovesciare il problema e domandaresi a cosa serve lo scacco della prigione […]. Forse bisogna cercare ciò che si nasconde sotto l’apparente cinismo dell’istituzione penale». Anche nel nostro caso, dovremmo invertire il problema e chiederci a che cosa servono i “fallimenti” della macchina da guerra – che cosa si nasconde sotto i suoi obiettivi apparenti. Quello che scopriamo quando lo facciamo non è un complotto di leader militari e politici che cospirano in gran segreto. È piuttosto quello che Foucault chiamerebbe un progetto di governance. L’incessante sfilata di scontri armati, grandi e piccoli, serve a sostenere una struttura di governance militarizzata che assume forme diverse in luoghi diversi ed è guidata da una struttura di forze a più livelli, tra cui gli Stati nazionali dominanti, le istituzioni sovranazionali e i settori concorrenti del capitale, che a volte si allineano e a volte confliggono.

Guerra, capitale e fratture logistiche

L’intima relazione tra guerra e circuiti del capitale non è certo qualcosa di nuovo. La logistica moderna, in particolare, ha una genealogia militare che affonda le sue radici nelle imprese coloniali e nella tratta atlantica degli schiavi. Tuttavia, l’attuale congiuntura globale è caratterizzata dalla crescente compenetrazione di “geopolitica” e “geoeconomia”, in un continuo processo di composizione e scomposizione degli spazi di valorizzazione e accumulazione del capitale, che si intersecano con la contestata distribuzione del potere politico in tutto il pianeta.

Il blocco della macchina logistica determinato dalla pandemia da Covid-19 ha in qualche modo aperto la scena su cui si sono sviluppati i successivi conflitti militari. Le immagini di container bloccati nei porti nei primi mesi della pandemia segnalavano una crisi di quello che possiamo definire lo scheletro infrastrutturale del commercio mondiale. Le grandi compagnie della logistica, spesso con l’assistenza dei governi, si sono freneticamente impegnate per fare fronte alla crisi, riconsolidando le vecchie rotte o aprendone di nuove. L’invasione russa dell’Ucraina, in questa situazione, ha determinato ulteriori rotture da punto di vista della logistica. Il commercio di petrolio e gas dalla Russia alla Germania è stato una delle principali vittime della guerra, soprattutto dopo lo spettacolare sabotaggio dei gasdotti Nord Stream nel Mar Baltico. Nuovamente, come già durante la pandemia, termini come nearshoring o friendshoring sono entrati nell’uso comune, a indicare una strategia per svincolare le economie occidentali dalle forniture energetiche di Mosca. La guerra ha anche bloccato il flusso di cereali. I prezzi dell’energia sono saliti in Europa; i prodotti alimentari di base sono diventati più scarsi in Africa e in America Latina; le tensioni sono aumentate tra Polonia, Repubblica Ceca e Ucraina dopo che sono stati aboliti i limiti all’esportazione di prodotti agricoli ucraini. L’economia tedesca è ora in fase di stagnazione e molti altri Stati membri dell’UE sono stati costretti a riorganizzare la loro fornitura di energia stringendo accordi con i Paesi del Nord Africa. La Russia ha riorientato le sue esportazioni di energia verso est, principalmente verso la Cina e l’India. Nuove rotte commerciali – attraverso la Georgia, ad esempio – le hanno permesso di aggirare almeno in parte le sanzioni occidentali. Questa riorganizzazione degli spazi logistici è chiaramente una delle principali poste in gioco del conflitto.

Anche a Gaza le questioni logistiche e infrastrutturali sono decisive, anche se sono oscurate dall’insopportabile spettacolo del massacro. Gli Stati Uniti speravano che il Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC), che dovrebbe estendersi dall’India all’Europa attraverso gli Emirati, l’Arabia Saudita, la Giordania, Israele e la Grecia, rafforzasse la loro influenza economica regionale, controbilanciando la Belt and Road Initiative della Cina. Tuttavia, questo progetto (lanciato nel settembre del 2023) si basava sulla continuità del processo di normalizzazione arabo-israeliana, che potrebbe essere stato fatalmente minato dalla guerra in corso. Gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso hanno inoltre costretto le principali compagnie di navigazione a evitare il Canale di Suez e a prendere rotte più lunghe e costose. L’esercito statunitense, d’altro canto, sta costruendo un porto al largo di Gaza, con l’obiettivo dichiarato di facilitare la distribuzione di aiuti umanitari, anche se le organizzazioni palestinesi sostengono che il suo scopo ultimo sia quello di facilitare la pulizia etnica.

Le guerre in Ucraina e a Gaza, pur così diverse anche da un punto di vista militare, esemplificano in questo senso la riconfigurazione a livello mondiale degli spazi del capitale. I luoghi chiave della circolazione vengono rimodellati, in un regime di guerra, attraverso l’intervento attivo di Stati nazionali. Ciò implica l’intreccio di logiche politiche ed economiche: un fenomeno ancora più evidente nella regione “indo-pacifica”, dove le crescenti tensioni nel Mar Cinese Meridionale e alleanze militari come AUKUS stanno influenzando reti e accordi economici come il Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership. In questo periodo di transizione, ogni conflitto o interruzione delle catene di approvvigionamento può avvantaggiare questo o quello Stato o attore capitalistico. Tuttavia, il sistema nel suo complesso è afflitto da una crescente frammentazione spaziale e dall’emergere di geografie imprevedibili.

Global Palestine: diserzione e internazionalismo

Nell’opporsi al regime di guerra globale, le richieste di cessate il fuoco e di embargo sulle armi sono essenziali, ma il momento attuale richiede anche una coerente politica internazionalista. Sono necessarie pratiche coordinate di diserzione attraverso le quali diventi possibile prendere radicalmente una distanza dallo status quo. Nel momento in cui scriviamo, tale progetto è chiaramente prefigurato dal movimento globale di solidarietà con la Palestina.

Nel XIX e XX secolo, l’internazionalismo è stato spesso concepito come solidarietà tra progetti nazionali. Questo vale talvolta anche oggi, come come mostra l’iniziativa del Sudafrica presso la Corte internazionale di giustizia. Tuttavia, il concetto di liberazione nazionale, che è stato alla base delle lotte anticoloniali storiche, sembra sempre più fuori dalla realtà. Mentre la lotta per l’autodeterminazione palestinese è in corso, le prospettive di una soluzione a due Stati e di uno Stato palestinese sovrano appaiono sempre più irrealistiche. Come configurare allora un progetto di liberazione senza assumere la sovranità nazionale come obiettivo? Ciò che va rinnovato e ampliato, attingendo ad alcune tradizioni marxiste e panafricane, è un internazionalismo su basi non nazionali, capace di confrontarsi con i circuiti globali del capitale contemporaneo.

L’internazionalismo non è cosmopolitismo, nel senso che richiede un fondamento materiale, specifico e locale piuttosto che astratte pretese di universalismo. Ciò non esclude un ricorso ai poteri di Stati nazionali, ma li inserisce in un contesto più ampio. Un movimento di resistenza all’altezza delle sfide del nostro tempo non può che puntare a includere una serie di forze, tra cui organizzazioni locali e cittadine, strutture nazionali e attori regionali. Le lotte di liberazione curde, ad esempio, si estendono oltre i confini nazionali e a cavallo dei confini sociali in Turchia, Siria, Iran e Iraq. Anche i movimenti indigeni nelle Ande attraversano queste divisioni, mentre le coalizioni femministe in America Latina e altrove forniscono un potente modello di internazionalismo su base non nazionale.

La diserzione, che designa una serie di pratiche di fuga, è stata a lungo una tattica privilegiata per la resistenza alla guerra. Non solo i soldati, ma tutti i membri di una società possono resistere semplicemente sottraendosi al progetto di guerra. Per un combattente dell’IDF, dell’esercito russo o di quello statunitense, questo è ancora un atto politico significativo, anche se nella pratica può rivelarsi estremamente difficile. Questo potrebbe essere il caso anche dei soldati ucraini, per quanto la loro posizione sia molto diversa. Ma per coloro che sono intrappolati nella Striscia di Gaza non è certo un’opzione. La diserzione dall’attuale regime di guerra deve quindi essere concepita in modo diverso dalle modalità tradizionali. Questo regime, come abbiamo già notato, supera i confini nazionali e le strutture di governance. Nell’UE ci si può opporre al proprio governo nazionale e alle sue posizioni scioviniste, ma bisogna anche confrontarsi con le strutture sovranazionali del blocco nel suo insieme, riconoscendo al tempo stesso che nemmeno l’Europa nel suo complesso è un attore sovrano in queste guerre. Negli Stati Uniti, le strutture decisionali militari e le forze di combattimento vanno anche oltre i confini nazionali e comprendono un’ampia rete di attori nazionali e non.

Come si può disertare una struttura così variegata e articolata? I gesti locali e individuali hanno poco effetto. Le condizioni per una prassi efficace devono prevedere un rifiuto collettivo organizzato in circuiti internazionali. Le proteste di massa contro l’invasione statunitense dell’Iraq, che hanno avuto luogo nelle città di tutto il mondo il 15 febbraio 2003, hanno identificato correttamente la formazione sovranazionale della macchina bellica e hanno annunciato la possibilità di un nuovo attore internazionalista contrario alla guerra. Pur non riuscendo a fermare la guerra, hanno creato un precedente per le future pratiche di rifiuto di massa della guerra. A distanza di due decenni, le mobilitazioni contro il massacro di Gaza – che stanno sorgendo nelle strade delle città e nei campus universitari di tutto il mondo – fanno presagire la formazione di una “Palestina globale”, una base altrettanto potente per la lotta contro la guerra.

Uno dei principali ostacoli a questa politica internazionalista, intesa al tempo stesso come una nuova politica della liberazione, è il “campismo”: un approccio ideologico che riduce il terreno politico a due campi contrapposti e spesso finisce per affermare che il nemico del nostro nemico deve necessariamente essere nostro amico. Alcuni sostenitori della causa palestinese celebrano, o perlomeno evitano di criticare, qualsiasi attore che si opponga all’occupazione israeliana, compresi l’Iran e i suoi alleati nella regione. Sebbene si tratti di un atteggiamento tatticamente comprensibile nell’attuale congiuntura, quando la popolazione di Gaza è sull’orlo della fame e soggetta a violenze inaudite, la logica geopolitica binaria del campismo porta in ultima analisi all’identificazione con forze oppressive che minano ogni progetto di liberazione. Piuttosto che sostenere l’Iran o i suoi alleati, anche solo retoricamente, un progetto internazionalista dovrebbe invece collegare le lotte di solidarietà per la Palestina alle forze che hanno sostenuto il movimento “donna, vita, libertà” che ha sfidato la Repubblica islamica. In breve, la lotta contro il regime di guerra non deve solo cercare di interrompere l’attuale costellazione di guerre, ma anche di operare una più ampia trasformazione sociale.

L’internazionalismo, quindi, deve emergere dal basso, attraverso progetti di liberazione locali e regionali capaci di trovare i mezzi per lottare gli uni accanto agli altri. Ma comporta anche un processo inverso. L’internazionalismo, in questo senso, non può che puntare a creare un linguaggio di liberazione che possa essere riconosciuto, riflesso ed elaborato in vari contesti: una macchina di traduzione continua, per così dire, che possa riunire contesti e soggettività eterogenee. Un nuovo internazionalismo non dovrebbe presupporre o aspirare ad alcuna omogeneità globale, ma piuttosto combinare esperienze e strutture locali e regionali radicalmente diverse. Data la frattura del sistema globale, la rottura degli spazi strategici di accumulazione del capitale e l’intreccio tra geopolitica e geoeconomia – che ha posto le basi per l’emergere del regime di guerra come forma privilegiata di governance – il progetto di diserzione richiede niente di meno che una strategia internazionalista per rifare il mondo.

Questo articolo deve diversi spunti a Brett Neilson, autore con Sandro Mezzadra di The Rest and the West: Capital and Power in a Multipolar World, di prossima pubblicazione presso Verso. Segnaliamo anche il podcast War Regimes: A Conversation with Michael Hardt and Sandro Mezzadra.  

Articolo pubblicato in inglese per New Left Review con il titolo “A global war regime”. Traduzione dall’inglese di Clara Mogno.

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