Di MARCO BASCETTA.

È bene che disoccupati, sottoccupati, precari, giovani impegnati nelle più diverse attività non contemplate dal mercato del lavoro, poveri assoluti e relativi di ogni provenienza se ne rendano fin da subito conto.

In Italia non sarà introdotto alcun reddito di cittadinanza, ma un sussidio temporaneo, da spartire con le aziende, tra i più condizionati e punitivi d’Occidente.

Il penoso dibattito e la schermaglia tra le forze politiche che da mesi e mesi occupano quotidianamente la scena pubblica evidenzia soprattutto che i nostri riformatori ritengono di avere a che fare con un popolo di truffatori e di fannulloni. 

Non si spiegherebbe altrimenti l’enorme sproporzione tra le energie spese nel prevenire gli abusi e quelle impiegate nel rendere disponibile l’uso di questo ammortizzatore sociale.

L’impianto pedagogico – poliziesco del sussidio targato 5 stelle ripartisce infatti la popolazione «inoccupata» in due categorie.

La prima comprende degli sprovveduti esclusi senza colpa o mai entrati nel mercato del lavoro, bisognosi di essere condotti per mano da un piccolo esercito di burocrati a rendersi appetibili per le aziende (ovverosia docili ed economici).

Alla seconda appartengono gli scansafatiche, stravaccati con soddisfazione sul mitico divano, da dare in pasto alla guardia di finanza e alla galera. L’una e l’altra figura non sono che proiezioni ideologiche senza relazione alcuna con la realtà, almeno con quella statisticamente rilevante. Al mercato il diritto di stabilire condizioni, valore, durata e riconoscimento del lavoro, alla burocrazia statale quello di definire l’«utilità sociale» dei compiti assegnati e la moralità degli assistiti.

Il sussidio previsto nel «contratto» di governo risponde a una logica diametralmente opposta a quella che sottende il reddito di base come è stato pensato e argomentato, sia pure in forme e proporzioni diverse, da tutti i suoi sostenitori: in un mondo in cui l’intermittenza del lavoro umano e la sua diminuzione quantitativa espongono gli esclusi a una permanente condizione di ricatto, il reddito di base avrebbe dovuto permettere di difendersene e di esercitare una qualche libertà di scelta.

Nella versione pentastellata, invece, la ricattabilità è gestita direttamente dallo stato e la libertà di scelta completamente cancellata all’interno di un dispositivo di controllo e disciplinamento della povertà che di precisazione in precisazione si fa sempre più punitivo.

 Se la partita del reddito di cittadinanza intendeva giocarsi, guardando al futuro, con i padroni dei robot e la rendita finanziaria, il reddito dei 5 stelle guarda al passato, coltivando un’idea di occupazione e disoccupazione completamente superata e degradante.

In Germania dove il governo della disoccupazione di lungo corso è da anni affidato al sistema di sussidi e controlli denominato Hartz IV, i socialdemocratici che lo hanno inventato (ai tempi del Cancelliere Schroeder) e difeso, hanno avuto tempo di pentirsi, dopo averne pesantemente pagato il costo politico, degli aspetti umilianti e vessatori che ne hanno fatto un vero e proprio stigma sociale.

E oggi, per la prima volta, nonostante l’economia tedesca non volga al sereno, le domande di sussidio diminuiscono. Mentre la corte costituzionale di Karlsruhe sta esaminando la liceità delle sanzioni previste per chi non rispettasse gli obblighi imposti ai beneficiari. Quel sistema, converrà comunque sottolinearlo, è assai meno coercitivo e moralistico del cosiddetto reddito di cittadinanza escogitato dal vertice pentastellato in Italia.

Tuttavia molti sostenitori del reddito di base, pur consapevoli del fatto che il sussidio denominato Rdc si trova agli antipodi dell’obiettivo che si proponevano, aggiungono che in ogni caso «è meglio di niente». Ed effettivamente se tanti lo richiedono vuol dire che il disagio sociale e l’esclusione hanno ormai raggiunto un livello tale da aggrapparsi a qualunque appiglio. Meglio suddito che indigente, meglio umiliato che affamato. C’è poco da eccepire.

Ma a patto di continuare a battersi contro l’impianto disciplinare di questo provvedimento, di denunciarne la natura poliziesca e ricattatoria, di sgomberare il campo dalle finzioni, di difendere con ogni mezzo i diritti calpestati e quella libera produzione sociale di ricchezza che alcuni vogliono accaparrarsi ma nessuno intende riconoscere.

Insomma, la battaglia per il reddito universale è ancora tutta da combattere.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 18 gennaio 2019.

Download this article as an e-book