Di BENEDETTO VECCHI

È da leggere come un antidoto alle piccole, talvolta grandi apocalissi culturali che hanno spazzato via ogni attitudine critica nel decifrare la grande trasformazione che ha nella Rete il suo simbolo più noto. Rosi Braidotti da anni studia, riflette sul grande intreccio, ormai inestricabile, tra natura e scienza. Ormai è impossibile stabilire il confine netto, anzi il portato decisivo di questo Materialismo radicale (Mimesis, pp. 193, euro 16) è che non esiste più un campo che può essere chiamato natura; così come è arduo rappresentare la scienza come un settore a se stante, indipendente, autonomo, da quel che fanno uomini e donne; stati e imprese. E movimenti sociali.
IL VOLUME, inserito nella nuova collana culture radicali curata dal gruppo di ricerca Ippolita (rielaborazione di un testo uscito nel 2017 per Mimesis – con il titolo Per una politica affermativa), ha un andamento erratico, senza però che il suo nomadismo pregiudichi la capacità analitica e teorica dell’operazione. D’altronde Braidotti ha sempre fatto del nomadismo – delle identità, del genere sessuato, delle appartenenze sociali – la sua caratteristica principale. In questo testo spazia dalla network culture ai nuovi femminismi, al ruolo della scienza, alle forme di governance neoliberiste sperimentate nella grande trasformazione. Alle, infine, forme di resistenza e di invenzione di nuove forme del vivere che si fanno strada nel capitalismo contemporaneo. C’è una frase che riassume lo spirito del libro. È quando Braidotti scrive che «l’etica è un processo, non un prodotto, quel che di importante sta nel mezzo».

SAREBBE FACILE chiudere il discorso attorno al libro sostenendo che la filosofa femminista italiana riduce la portata della posta in palio nella sola etica. Sarebbe però un errore di prospettiva: l’etica, come continua ancora a ricordare l’opera di Spinoza, è cosa materiale e niente affatto metafisica come recita la vulgata. Per Braidotti, è inoltre un posizionamento rispetto il presente, significa prendere posizione, schierarsi.
E lei lo fa, senza grandi paure di sbagliare. Si colloca dalla parte di chi non aderisce alle regole bronzee dell’economia, né del potere costituito. E tuttavia non indulge mai in semplificazioni. Sa che per battere la «bestia» serve accortezza, duttilità, sagacia. E che bisogna anche comprendere fenomeni sociali e culturali che possono essere liquidati come effimeri e mediatici, come lo sono le Pussy riot o le Femen, espressioni di una alterità che vanno fatte proprie per sottrarle al potere manipolatorio tanto dei media che di quel grande bluff chiamato «opinione pubblica».
Il materialismo radicale di Rosi Braidotti si nutre di Spinoza, certo, ma anche di una lettura eccentrica del filosofo francese Gilles Deleuze, laddove ne fa suo il proposito di attraversare il deserto della contemporaneità per poi affermare che di deserti non ce ne sono all’orizzonte. Più che un vuoto, il capitalismo contemporaneo si caratterizza infatti per i troppo pieni con i quali convivere, anche se hanno consistenza vischiosa o una «natura» velenosa, che possono uccidere i corpi singoli, mentre l’infezione del corpo sociale è invece elemento acquisito da questa filosofa: fattore che non dovrebbe spaventare bensì diventare lo stimolo, nonché la scommessa da giocare e vincere, per una pratica affermativa del desiderio e della libertà.

DUNQUE ADESIONE e tradimento della tradizione filosofica anche radicale, materialismo aperto al divenire. Non è infatti un caso che nel volume i termini come futuro, profezia desiderio svolgano un ruolo cruciale, quasi programmatico. Il futuro dovrebbe essere il superamento della polarità (gramsciana?) del «non più» e del «non ancora»; la profezia indica solo la propensione a non rimanere paralizzati, pietrificati dallo sguardo sul presente. Il desiderio, beh, è un modo di essere che afferma l’utopia, come ricordava ere glaciali fa quello straordinario filosofo dell’utopia concreta che è stato Ernst Bloch.
Il volume si concentra sulla network culture, va da sé. C’è tutta la storia degli ultimi venti, trenta anni che si dipana nella pagine. Il sogno della Rete come frontiera della libertà, la sua colonizzazione da parte delle imprese, l’affermarsi di una tecnoscienza oppressiva e dai tratti «totalitari» (qui il debito verso Donna Haraway è evidente), il consolidarsi di un capitalismo delle piattaforme che fa del vivente materia prima e oggetto di manipolazioni imprenditoriali; l’indisponibilità a un ripiegamento nostalgico: la grande trasformazione si è consumata; occorre farci i conti.

LA PARTE FINALE del volume è quindi dedicato alla politica, meglio alla politica della «relazionalità sociale», come la chiama Braidotti, che non esita a dichiarare la disponibilità a misurarsi anche con la micropolitica, il limite maggiore del volume quando questo termine è riempito di significati che andrebbero meglio decantati. Mettere sul piedistallo la mcropolitico e pensare che la concentrazione del potere e la necessità di pensare l’organizzazione politica siano segni di ripiegamento machista significa però incorrere nell’errore di una circolarità di chi pensa di recidere il cappio e finisce soffocato nell’insignificanza politica e teorica.
È dunque convincente il tema della politica dell’imprevisto, dell’alterità affermativa dell’attivista che deve pensare «nonostante i tempi» o «fuori dal proprio tempo», ma ogni discorso risulta vano se accanto a questo non c’è una riflessione sul Politico, cioè sul «che fare?» oltre e fuori dalla cornice prescrittiva della tradizione novecentesca.

SONO ANNI che Rosi Braidotti invita a prendere congedo da un certo marxismo economicista e cristallizzato. Niente di più condivisibile se il riferimento è a quanto si muove sullo scacchiere istituzionale e politico dato. Sembra però che la filosofa femminista includa nella tradizione da gettare alle ortiche anche quanto hanno fatto movimenti sociali che si sono inoltrati sulla strada di una radicale innovazione del marxismo. Cioè a coloro che hanno assunto la proliferazione di soggettività, di figure sociali come il tratto distintivo del capitalismo contemporaneo, che vive di differenze e non di sintesi organicistiche.
Sono gruppi, filoni di ricerca che fanno dell’alterità affermativa delle nuove soggettività, per tornare al lessico di Braidotti, una scommessa che richiede di fare i conti con il tema dell’organizzazione, della costruzione di nuove istituzioni, di un «che fare» che non chiude, ma apra discorsi. È questo cioè uno dei capitoli da aprire di un nuovo materialismo radicale che attende di essere avviato.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 24 ottobre 2019.

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