di BENEDETTO VECCHI. Le utopie sono affascinanti, anche quando sono messe all’indice. Con la sua nota sagacia, lo scrittore britannico James Ballard ne ha parlato, riferendosi all’ecologismo, come l’inferno edificato in nome del paradiso, facendo il verso a un antico detto popolare sui buoni propositi trasformati nel loro opposto. E non se ne dovrebbe sentire la necessità dopo che, per decreto, è stato stabilito che l’umanità vive nel migliore dei mondi possibili, suscitando non pochi dubbi da chi quel mondo migliore non lo ha mai neppure intravisto.
Ciononostante, la saggistica, nonché i media mainstream postulano il teorema che non ci può essere nessuna alternativa agli stili di vita dominanti, mentre la narrativa arranca dietro un eterno presente che lascia poco spazio a un futuro che non sia la ripetizione del già noto.
Eppure, proprio quando la stagnazione dell’immaginazione raggiunge l’acme, irrompe sempre, prima o poi, un bisogno di utopia che racconta ancora della ricerca di un’isola che non c’è. Da sempre l’utopia, per essere tale, crea un forte collegamento tra passato e presente per delineare un futuro costruito su quanto di meglio – tanto il passato quanto il presente – possano offrire. Soprattutto se il deux ex machina del futuro è la scienza; o la tecnologia. È a causa di questa costruzione in vitro della «nuova società» che le tecnoutopie sono l’arma culturale più potente per legittimare i rapporti sociali e di potere vigenti.
IN ORDINE DI TEMPO, l’ultima tecnoutopia che ha occupato la scena pubblica per oltre quaranta anni è quella che ha a che fare con la Rete. Poco importa se il nome per indicare questo eden in divenire abbia, di volta in volta, cambiato nome, mantenendo tuttavia inalterate le promesse di un suo imminente avvento. La Rete è stata la nuova frontiera da conquistare per edificare così un mondo di libertà, di abbondanza e di prosperità a portata di mano per tutti.
Uno degli esponenti più noti della tecnoutopia basata sulla Rete è sicuramente Kevin Kelly. Giornalista brillante, stimato studioso di trend economici e sociali, tra i fondatori della rivista Wired, magazine che raccolse attorno a sé ricercatori, ingegneri, scrittori, tecnologi, attivisti controculturali accomunanti dalla convinzione che il personal computer e la sua inevitabile convergenza con le telecomunicazioni avrebbero favorito la composizione di una nuova società, fondata appunto sulla libertà radicale per i singoli e una abbondanza e prosperità per tutti.
La leggenda racconta che gli scritti e gli articoli di Kelly abbiano ispirato romanzi e film di fantascienza divenuti nel tempo dei cult (il Matrix di Lana e Lilly Wachowski o il cyberspace di William Gibson).
Per Kelly, il deus ex machina del mondo nuovo era la potenza di calcolo incamerata in pochi millimetri – i microprocessori – e le linee di codice che potevano far fare qualunque cosa a un computer dai costi a portata di ogni portafoglio. Il suo saggio più noto è quello scritto agli inizi degli anni Novanta del Novecento (Out of control) in cui dà quasi uno statuto biologico alla Rete, equiparata a una mente-alveare nutrita dalle idee di milioni di uomini e donne connessi tra loro attraverso piccoli computer facili da programmare e da usare. I singoli contribuivano sì alla sua crescita ma allo stesso tempo potevano usufruirne per valorizzare le proprie capacità e i propri progetti di vita all’interno di quella pratica del dono che in Europa aveva incendiato le idee di Marcel Mauss e della sua scuola filosofica antiutilitarista.
CON TESTARDAGGINE ha continuato, correggendola, a diffondere la sua vision sulla avventurosa e sfavillante marcia dell’umanità verso il migliore mondo possibile, indifferente verso le crescenti disoccupazione, povertà e guerre più o meno locali. E irriverente, lui che è stato spesso interpretato come un cantore new age della tecnologia, verso qualsiasi analisi delle pessime condizioni ambientali della Terra provocate dal saccheggio umano delle materie prime e dalle trasformazioni irreversibili degli ecosistemi. Tesi ribadita, senza troppa convinzione, alcuni anni fa in un libro tradotto da Codice edizioni (Quello che vuole la tecnologia). Ma è nel recente L’inevitabile che Kelly ritrova lo smalto perduto (Il Saggiatore, pp. 317, euro 24, traduzione di Alberto Locca).
Il libro raccoglie i migliori frammenti della tecnoutopia di cui l’autore è stato un abile agit-prop per fornire una nuova narrazione scandita da dodici parole chiave – da divenire a cognitivizzare, da fluire ad accedere, condividere, filtrare, rimescolare, tracciare – che corrispondono ad altrettanti capitoli. Un amalgama del meglio, e del peggio, offerto dalla network culture degli ultimi venti anni.
FORTI SONO GLI ECHI della economia della condivisione, della app economy, della teoria del capitalismo delle piattaforme, della sovversione della comunicazione operata dai social network, della critica al copyright e dei brevetti in nome del capitalismo fondato sulla gratuità dell’accesso ai servizi, dove la proprietà privata si misura sul controllo del sapere e della conoscenza in un remix nel quale la genealogia del capitalismo contemporaneo vede l’esaltazione del libero mercato fusa con la controcultura degli anni Sessanta, evocando così il «comunismo dei ricercatori» di Robert Merton, il socialismo utopista dei libertari, la critica anticorporation degli anarchici liberisti della Silicon Valley, all’interno tuttavia di un frame che Karl Marx avrebbe definito di socialismo, meglio di «comunismo del capitale».
OGNI VOLTA che nello svolgimento delle sue tesi Kevin Kelly si imbatte in qualche dato discordante rispetto l’eden terrestre che vuol raffigurare non nega il principio di realtà, ma si preoccupa subito di rassicurare il lettore che quelli negativi sono elementi attinenti una contingenza sfavorevole.
Il progresso sociale e economico non sono così mai messi in discussione. Il divenire della realtà – per l’autore, l’inevitabile che dà il titolo al libro -, inteso però in termini coevoluzionisti – non può essere fermato, perché l’evoluzione degli umani va di pari passo con quella delle macchine.
Ciò che viene messo in forma dall’autore è allora un darwinismo sociale dove la selezione svolge un ruolo radicale nel cancellare tecnologie, imprese, stili di vita non funzionali alla riproduzione di uno status quo che prevede tuttavia innovazione sociale e tecnologica. Interessante è dunque la parte dove vengono citate le tecnologie, il software, i manufatti digitali – per esempio i recenti Google glass di Larry Page e Sergej Brin o la realtà virtuale dei primi anni Novanta – che dovevano costituire la cosiddetta killer application capace di sbaragliare il campo dei concorrenti, producendo quell’equilibrio sistemico indispensabile per la crescita della prosperità in una economia di libero mercato. L’eclissi di alcuni manufatti tecnologici testimonia la vitalità endogena del capitalismo nel trovare le vie d’uscita a squilibri potenzialmente distruttivi.
EPPURE SILICON VALLEY ha proprio necessità di killer application, elaborate e definite all’interno di quella cognitivizzazione della vita sociale – uno dei capitoli più interessanti insieme a quello sulla condivisione – che ha gli assi portanti nello sviluppo di software che utilizzano l’intelligenza artificiale e la trasformazione dell’intelligenza collettiva (la mente-alveare di Kelly) in capitale. Senza disturbare troppo la critica dell’economia politica, il libro di Kevin Kelly sembra la cronaca di una rinnovata accumulazione originaria e dell’intreccio inestriscabile tra sussunzione formale e reale del lavoro. In ogni caso, la nuova frontiera della crescita economica non è in un prodotto specifico, come è accaduto nel recente passato con il personal computer o gli smartphone, bensì nell’affastellamento di dati, nell’appropriazione da parte delle imprese di conoscenza sans phrase. È questo l’inevitabile – la cognitivizzazione della vita in società – che non dovrebbe essere ostacolato.
L’autore, va sottolineato, non è interessato a una analisi critica del capitalismo contemporaneo, ma non è un conservatore, né un reazionario, bensì un libertario a favore del libero mercato. Scettico sulle capacità del sistema politico di poter governare lo sviluppo economico, spende parole a favore della importanza di maggiori investimenti pubblici nella scuola, università e nello sviluppo di infrastrutture tangibili e immateriali. Le sue preferenze vanno alla visionarietà di personaggi come Mark Zuckeberg laddove teorizza la costruzione di una comunità globale. Allo stesso tempo, è sensibile verso le proposte che prevedano, attraverso il reddito minimo garantito, una gestione degli effetti – collaterali e imprevisti – della contingenza economica (la disoccupazione di massa, la povertà), ma nulla può scalfire l’ottuso ottimismo della sua tecnoutopia, perché la realtà è legno storto che deve essere piegato ai suoi diktat per la costruzione del mondo e dell’uomo nuovo.
articolo pubblicato da il manifesto il 15 novembre 2017